Il treno dei bambini
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Il treno dei bambini

Viola Ardone

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Il treno dei bambini

Viola Ardone

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À propos de ce livre

È il 1946 quando Amerigo lascia il suo rione di Napoli e sale su un treno. Assieme a migliaia di altri bambini meridionali attraverserĂ  l'intera penisola e trascorrerĂ  alcuni mesi in una famiglia del Nord; un'iniziativa del Partito comunista per strappare i piccoli alla miseria dopo l'ultimo conflitto. Con lo stupore dei suoi sette anni e il piglio furbo di un bambino dei vicoli, Amerigo ci mostra un'Italia che si rialza dalla guerra come se la vedessimo per la prima volta. E ci affida la storia commovente di una separazione. Quel dolore originario cui non ci si puĂČ sottrarre, perchĂ© non c'Ăš altro modo per crescere.«Un romanzo appassionante e scritto benissimo. La storia di questo bambino del dopoguerra, della sua lotta per la sopravvivenza e l'amore, tiene incollati alle pagine».
Marion Kohler, DVA-Penguin, Germania «Originale, emotivo, di grande qualità letteraria. Un libro che tutti dovrebbero leggere».
Anne Michel, Albin Michel, Francia «Uno splendido romanzo. Viola Ardone ci fa riflettere, con delicatezza e maestria, su come certe decisioni possano cambiare per sempre la nostra vita».
Elena RamĂ­rez, Seix Barral, Spagna

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2019
ISBN
9788858432006

Parte seconda

13.

Quando apro gli occhi Ăš buio. Allungo i piedi per azzeccarli alle gambe di mia mamma, cerco il filo di luce che sempre la mattina entra dalle persiane socchiuse, ma niente: mi siedo in mezzo al letto vuoto e il nero non ha nemmeno uno spiraglio. Mi alzo, il pavimento Ăš gelato, con le braccia stese cerco la porta. Urto contro uno spigolo, mi siedo a terra e premo la mano sul ginocchio per cacciare indietro il dolore. – Mamma, mamma, – grido. Nessuno risponde, c’ù un silenzio che non Ăš quello del vicolo mio. – Mamma, – dico di nuovo, ma a bassa voce. Il buio mi avvolge da ogni lato e non sono sicuro se sto sveglio o Ăš un sogno. Il cuore mi batte fortissimo, non ricordo piĂș nulla. Ero sulla corriera con la signora bionda che mi doveva riportare a casa mia, devo essermi addormentato e mi sono risvegliato in questo letto sconosciuto.
Un rumore, da fuori, si fa piĂș vicino. La porta si apre, entra un poco di luce. Non Ăš mia mamma Antonietta, Ăš quella signora. – Hai fatto un incubo? – Senza la gonna grigia e la camicetta bianca sembra meno comunista. – Non lo so, non mi ricordo. – Lo vuoi un bicchiere d’acqua? Vado in cucina
 – Io non rispondo, lei incrocia le braccia sul petto, si strofina le spalle per il freddo e si avvia. – Signora, – la chiamo, – ma mi avete portato in Russia? – Lei allarga le braccia e fa la voce ruvida. – In Russia, povero fiĂČl! Ma che vi hanno raccontato laggiĂș? Altro che incubi, queste son storie da non chiuderci occhio!
Penso che l’ho fatta arrabbiare, anche se nello scuro non riesco a distinguere la sua faccia. La signora si avvicina e mi tocca la guancia con la mano, ù un poco fredda. – Sei a Modena, mica in Russia, tra persone che ti vogliono bene, hai trovato una casa, fidati

Questa non ù casa mia e poi mia mamma dice che non bisogna mai fidarsi di nessuno, penso, ma non dico niente. – Vado a prenderti l’acqua, – fa lei.
– Signora
 – mormoro mentre sta per scomparire dentro al buio.
– Dimmi, fiĂČl, ma devi chiamarmi Derna, te l’ho detto

– Non ve ne andate, tengo paura

– Lascio la porta aperta, cosí entra la luce, – e sparisce.
Rimango di nuovo solo e la stanza Ăš cosĂ­ nera che o tengo gli occhi aperti o chiusi Ăš lo stesso. Dopo un poco la signora torna con l’acqua. È gelata e io bevo piano piano, a sorsi piccolissimi. – Bevi tranquillo, fiĂČl, mica abbiamo avvelenato i pozzi, pure questo vi hanno raccontato? – dice lei con la voce scocciata. – No, no, per caritĂ , – rispondo subito per non farla arrabbiare, – scusate, Ăš colpa di mia mamma che dice sempre: bevi piano chĂ© ti viene una sincope!
La signora pare dispiaciuta, forse pensa che ha fatto una brutta figura. – Mi dispiace, fiĂČl, – dice con la voce piĂș morbida, – ma con me non sei capitato tanto bene, di bambini non ne capisco proprio. Figlioli non ne ho. Mia cugina Rosa, lei sĂ­ che Ăš brava. Ce ne ha tre.
– Non vi preoccupate, signora, non ù niente. Mia mamma ne ha avuti due, ma comunque le creature non sono arte sua

– Ah, quindi hai un fratello?
– Nossignora, sono figlio unico.
La signora non dice niente, forse perchĂ© sta ancora mortificata per il fatto dell’acqua avvelenata.
– Domani mattina ti farĂČ conoscere i figli di Rosa, i bambini devono stare con i bambini, non con le «signore», come dici tu.
Io mi metto scuĂČrno perchĂ© ancora non sono riuscito a chiamarla per nome.
– Ti piaceranno, hanno piĂș o meno la tua etĂ . Ma tu quanti anni hai? Non te l’ho nemmeno chiesto
 Vedi che bella accoglienza ti sto facendo?
Chiede scusa lei a me, la signora. Mentre dovrei essere io a chiedere scusa a lei di stare qua, in casa sua, dentro al suo letto, a svegliarla a notte a notte. – Ne faccio otto il mese che viene, – rispondo. – E comunque non ho paura del buio: una volta sono rimasto chiuso nella cappella insieme agli scheletri vivi!
– Sei un ragazzino coraggioso, beato te. Non hai paura di nulla.
– Veramente una cosa ci sta.
– Che ti porti in Russia?
– Nossignora. Non ci ho mai creduto al fatto della Russia

– Io in Russia ci sono stata veramente, con i compagni del partito.
– Io non sono mai partito coi compagni miei, ù la prima volta. Ed ù per questo che ho paura.
– È naturale: tutte queste novità

– Nossignora, il fatto Ăš che non sono abituato a dormire da solo. A casa mia ci stava solo un letto: per me, per mia mamma e per il caffĂš di Capa ’e fierro, prima che se lo portassero le guardie, perĂČ non lo dite a nessuno, sennĂČ mia mamma chi la sente, Ăš un segreto.
Lei si siede vicino a me. Il suo profumo Ăš diverso da quello di mia mamma. È piĂș dolce. – Ti dico anche io un segreto. Quando il sindaco mi ha chiesto di prendere un bambino, ho risposto di no. Avevo paura.
– Avete paura dei bambini?
– Di non sapere come consolarli. Ne so di politica, ne so di lavoro, so anche un pochetto di latino. Ma di bambini, niente, – dice guardando un punto sul muro, come fa sempre mia mamma quando parla lei da sola. – Sono diventata un po’ burbera, con gli anni.
– PerĂČ poi vi siete presa me.
– Ero venuta in stazione per dare una mano e controllare che tutto procedesse bene. Poi la compagna Criscuolo mi ha avvertito che c’era un problema con la coppia cui eri assegnato. La moglie, che era in attesa, ha partorito prematuramente e nessuno ù potuto venire a prenderti.
– Per questo sono rimasto io solo!
– Quando ti ho visto, solo solo su quella panca, con questi bei capelli rossi e tutte le lentiggini sul visetto, ho deciso di portarti con me. Non lo so se ho fatto bene. Forse tu preferivi una famiglia vera?
– Non lo so. Di preferito finora ho tenuto solo mia mamma.
Mi carezza una mano, ha le dita fredde e un poco screpolate, non sorride quasi mai, perĂČ ha voluto prendermi con sĂ©.
– Io pensavo che ero rimasto ultimo perchĂ© nessuno mi voleva.
– Ma no, fiolùt, era tutto ben organizzato. Ci abbiamo lavorato per settimane: ogni bambino, una casa.
– Quindi non ci sceglievano a gusto loro?
– Ma no, non era mica il mercato della frutta!
Io mi metto scuĂČrno perchĂ© invece avevo pensato proprio questo.
– Ora perĂČ bisogna dormire, che domani devo lavorare. Resto un po’ qui, accanto a te. Ecco, va bene cosĂ­? – La signora si sdraia, io non so se va bene, perĂČ le faccio spazio sul cuscino. I suoi capelli mi toccano la faccia, sono morbidi come l’ovatta.
– Ti canto una ninna nanna? – A me le ninne nanne mi fanno venire la tristezza nella pancia, ma non glielo dico, per non farle prendere collera un’altra volta. – SĂ­, – dico con gli occhi chiusi e un piede attaccato alla sua gamba, ma spero che non Ăš quella del bambino e dell’uomo nero che se lo tiene un anno intero, perchĂ© se no Ăš sicuro che mi viene da piangere e domani mi mettono di nuovo sul treno e mi mandano a casa. La signora ci pensa un poco e poi inizia a cantare la canzone che ho sentito quando siamo arrivati alla stazione, dove ogni due minuti dicono bella ciao ciao ciao1.
Quando finisce resto in silenzio per un po’ e poi domando: – SignĂČ, vi dĂ nno fastidio i piedi freddi sulle gambe?
– Neanche un po’, fiolùt, neanche un po’.
E finalmente, piano piano, torna il sonno.
1. I versi sono tratti dal canto popolare italiano Bella ciao.

14.

Amerí, Amerigo, svegliati, che sta tornando tuo fratello Luigi. Fai presto, alzati dal letto, questo ù il posto suo. Io con gli occhi ancora chiusi le dico: e io? Dove mi metto, io? Tu?, fa mia mamma Antonietta. Tu mo stai là sopra, dalla signora

Apro gli occhi ed Ăš mattina. Dalla finestra di fronte al letto si vedono campi marroni e i rami degli alberi scheletriti per il freddo, con sopra quattro foglie secche. Non ci sono altre case, nessuno passa, neanche una voce.
La signora ù in cucina, in fondo al corridoio. La osservo di spalle: prepara il mangiare e ascolta la radio. Io l’avevo vista solo nelle case delle signore che qualche volta mi regalavano le pezze usate. Sulla tavola ci sono: una tazza con il latte, il pane, un vasetto con la marmellata rossa, il burro, un pezzo di formaggio bello grande. Chissà se pure Tommasino ha trovato tutto questo ben di dio a casa del baffone. E poi coltello, forchetta, cucchiaino, tazze e piattini tutti uguali, dello stesso colore.
Si Ăš vestita di nuovo con la camicetta bianca e la gonna grigia. Non mi ha visto ancora, la vorrei chiamare ma mi imbarazzo. Non sembra piĂș quella di stanotte. Dalla radio si sentono le parole di un signore che parla veloce. Dice: bambini, ospitalitĂ , treno, malattie, Partito comunista, Sud, miseria. Stanno parlando di me. La signora smette di tagliare il pane per ascoltare, butta fuori l’aria tutta insieme, come faceva Capa ’e fierro ma senza cerchietti di fumo, poi ricomincia a tagliare.
Dopo un poco si gira e fa la faccia sorpresa. – Ah, sei qui? – Sono entrato proprio adesso. – Non ti avevo sentito. Hai fame? Ho preparato qualcosa, non so se ti piace. – A me piace tutto, – rispondo.
Mangiamo insieme senza parlare. Solo di notte parla assai, la signora, di giorno no. Ma tanto io sono abituato, pure mia mamma Antonietta non tiene mai genio di chiacchierare, soprattutto a prima mattina.
Quando finisco, la signora dice che deve andare a lavorare e che mi porta a casa di sua cugina Rosa, quella che tiene i figli, e poi mi viene a prendere quando ha finito. Io dico va bene, ma mi torna la tristezza nella pancia. Mia mamma Antonietta mi ha dato a Maddalena, Maddalena mi ha consegnato alla signora Derna, Derna mi manda a casa di sua cugina Rosa, e questa Rosa chissà a chi mi vorrà mollare. Come nella ninna nanna dell’uomo nero.
Insieme alla signora torno nella camera dove ho dormito. Dalla finestra non si vede piĂș il cielo, nĂ© i campi nĂ© gli alberi. Cerco di pulire le lastre con la mano, ma niente. Non Ăš il vetro che Ăš sporco, Ăš l’aria: fuori ci sta un velo di fumo che ricopre tutte le cose. Mi siedo sul bordo del letto. – Vuoi che ti aiuti a vestirti? – chiede lei. Gli abiti con cui sono arrivato non li vedo piĂș. Sullo scrittoio, perĂČ, Ăš appoggiata la mela che avevo in tasca, di mia mamma Antonietta. – Faccio da solo, grazie, – rispondo. Da un armadio di legno scuro la signora tira fuori i vestiti: maglie di lana, pantaloni, camicie. Erano del figlio piĂș grande di Rosa e adesso sono miei. – A me mi sembrano nuovi, – dico. Sopra la scrivania ci sono anche dei quaderni e una penna. Dice che dovrĂČ andare a scuola. – Un’altra volta? GiĂ  ci sono andato! – mi lamento io. – Devi andarci ancora, tutti i giorni, mica sai giĂ  tutto, tu! – È vero: nessuno nasce imparato, – rispondo. E per la prima volta ci mettiamo a ridere tutti e due insieme.
Mi guardo dentro allo specchio con i vestiti nuovi e vedo uno che mi somiglia ma non sono io. La signora mi infila il cappotto e il cappello, dice: aspetta, e va nell’altra stanza. Quando ritorna tiene in mano una spilla rossa con sopra il cerchietto giallo e il martello, uguale a quella che tiene lei. Si siede vicino a me e mi appunta la spilla sopra al cappotto. È lo stesso disegno che ho visto sulle bandiere dei comunisti nel palazzo di via Medina. Quindi vuol dire che adesso mi hanno fatto comunista pure a me. Chissà se il giovinotto biondo l’ha risolta poi quella questione meridionale, mi viene in mente ogni tanto. – Siamo pronti? – chiede e mi tocca le lentiggini con la punta delle dita. – Sí, signora, cioù, volevo dire
 Derna –. Lei fa la faccia di quando a tombola esce proprio il numero tuo per fare cinquina.
E cosĂ­ ce ne andiamo, mano nella mano. I suoi passi non sono veloci come quelli di mia mamma Antonietta. Lei non mi lascia indietro. Oppure sono io che vado piĂș svelto, per paura che rimango solo nell’aria grigia.

15.

– Fumano assai, qua sopra! Non si riesce manco a vedere la strada.
– Non ù fumo, ù nebbia, – dice lei. – Ti spaventa?
– No. Mi piace che le cose prima sono nascoste e poi spuntano fuori a sorpresa.
– Questa ù la casa di mia cugina Rosa. Quando ù bel tempo si vede anche dalla tua finestra, ma con la nebbia scompare.
– Pure a me piacerebbe scomparire, qualche volta, ma noi nel Meridione la nebbia non ce l’abbiamo ancora.
Derna suona il campanello, accanto c’ù una targhetta. – Cosa c’ù scritto? – chiedo. – Benvenuti, – risponde lei. – L’hanno scritto per noi? – Ma no, ù il cognome di mio cognato, – e un po’ le viene da ridere.
Ci apre un ragazzo con i capelli castani che gli arrivano alle spalle, gli occhi chiari chiari e un piccolo spazio in mezzo ai denti davanti. Abbraccia Derna e le dà un bacio, fa la stessa cosa con me. – Tu sei il bambino che ù venuto con il treno? Io nel treno non ci sono mai andato. Com’ù?
– Stretto, – dico.
– Questo giubbetto non ù tuo: lo portava mio fratello lo scorso inverno, – dice un altro bambino che arriva correndo dal fondo del corridoio. È alto quanto me e ha gli occhi neri.
– Mio, tuo
 che cosa vuol dire? È di chi ha bisogno, – lo rimprovera un signore alto e magro, con i baffi rossicci e gli occhi azzurri. – Rosa, mi starai mica crescendo un fiĂČl fasĂ­sta?
– Bel modo di accogliere questo poverino, che ne ha già passate tante! – dice la moglie. Ha un bambino piccolo in braccio e mi fa segno di seguirla in soggiorno. – Non ci siamo nemmeno presentati: io sono Rosa, la cugina di Derna, lo spiritoso con i baffi ù mio marito Alcide e questi sono i nostri ragazzi: Rivo, che ha dieci anni, Luzio, che deve farne sette, e Nario, che non ne ha ancora uno.
I nomi dei figli io non li capisco e me li devo far ripetere tre volte. Da noi le persone si chiamano Giuseppe, Salvatore, Mimmo, Annunziata o Linuccia. Poi ci stanno i contrannomi: Zandragliona, Pachiochia, Capajanca, Naso ’e cane
 Il nome vero non se lo ricorda piĂș nessuno. Io, per esempio, se mi chiedono come fa di nome e cognome Capa ’e fierro, non lo so dire.
Qua sopra Ăš differente. Dice il padre che quei nomi se li Ăš inventati proprio lui e non ci stanno tra i santi del calendario, perchĂ© lui manco ci crede ai santi. Al calendario sĂ­. A Dio no. Dice che cosĂ­, quando li chiama tutti insieme, fanno la parola: Rivo-Luzio-Nario! A questo punto mi guarda e aspetta. Io capisco che va trovando qualche cosa da me. Poi scoppia a ridere da solo facendo tremare i baffi. Nel vicolo mio nessuno che conosco tiene i baffi, tranne la Pachiochia, che perĂČ Ăš femmina, quindi non vale. Allora, per fargli piacere, mi metto a ridere pure io, ma per finta, perchĂ© non ho capito la battuta.
Derna saluta e va a lavorare, dice che torna a prendermi piĂș tardi. Anche il marito di Rosa se ne va. Lo aspettano in una casa importante, gente che sta bene, coi figli che vanno al conservatorio, lui gli deve accordare il pianofo...

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