1. La filosofia dopo il nazismo.
1. Che nel nazismo la biopolitica abbia sperimentato la piĂș terrificante forma di realizzazione storica, non vuol dire che ne abbia condiviso il destino di autodistruzione: a differenza di quanto si potrebbe pensare, la fine del nazismo non ha significato in nessun modo la fine della biopolitica. Ipotizzarlo vorrebbe dire non soltanto ignorare la genesi lunga, radicata nella stagione moderna, di questâultima, ma sottovalutarne lâampiezza di orizzonte. Non Ăš stata la biopolitica un prodotto del nazismo, ma semmai il nazismo lâesito estremo e perverso di una particolare versione di biopolitica. Gli anni che ci separano dal crollo del regime ne costituiscono la piĂș cospicua riprova: non soltanto il rapporto diretto tra politica e vita non si Ăš per nulla allentato, ma appare, al contrario, in continuo incremento. Nessuna delle questioni di interesse pubblico â che per altro Ăš sempre piĂș difficile distinguere da quello privato â Ăš interpretabile fuori da una connessione profonda e spesso immediata con la sfera del bĂos1. Dal rilievo crescente dellâelemento etnico nelle relazioni tra popoli e Stati, alla centralitĂ della questione sanitaria come indice privilegiato di funzionamento del sistema economico-produttivo, alla prioritĂ dellâordine pubblico nei programmi di tutti i partiti, quello che si registra da ogni parte Ăš un tendenziale schiacciamento della politica sul dato puramente biologico, se non sul corpo stesso di coloro che ne sono al contempo soggetti ed oggetti. Immissione del lavoro nella sfera somatica, cognitiva, affettiva degli individui, incipiente traduzione dellâazione politica in operazioni di polizia interna ed internazionale, aumento a dismisura dei flussi migratori di uomini e donne deprivati di ogni identitĂ giuridica e ridotti allo stato di semplice sussistenza non sono che i tratti piĂș evidenti del nuovo scenario2. Se poi si guarda alla progressiva indistinzione tra norma ed eccezione legata allo stabilizzarsi di legislazioni di emergenza, si ha un ulteriore segno della sempre piĂș netta caratterizzazione biopolitica della societĂ contemporanea. Che la ricerca ossessiva di sicurezza nei confronti della minaccia terroristica sia diventata il perno di tutte le attuali strategie governative dĂ la misura della trasformazione in atto: alla politicizzazione del biologico, giĂ iniziata nella tarda modernitĂ , risponde adesso unâaltrettanto intensa biologizzazione del politico che fa della conservazione riproduttiva della vita lâunico progetto fornito di legittimitĂ universale.
Da questo punto di vista, anzi, si deve registrare la generalizzazione al mondo intero non soltanto di quella politica della vita che il nazismo â certo in forme irripetibili â tentĂČ invano di esportare fuori dalla Germania, ma anche della sua specifica tonalitĂ immunitaria e, piĂș precisamente, autoimmunitaria. Che la salvaguardia della vita biologica sia diventata la questione largamente dominante di quelle che un tempo si chiamavano politica interna e politica estera â adesso sovrapposte nel corpo unificato di un mondo senza esterno e dunque anche senza interno â Ăš un riscontro impressionante dellâassoluta coincidenza che ormai si verifica tra biopolitica ed immunizzazione. Lo spostamento finale in questa direzione Ăš stato determinato, a cinquantâanni dal crollo del nazismo, dallâimplosione del comunismo sovietico. Ă come se, alla fine di quella che ancora si autointerpretava come lâultima e piĂș compiuta delle filosofie della storia, la vita â la lotta per la sua protezione/negazione â fosse divenuta lâunico orizzonte di senso della politica mondiale3. Se ancora durante la guerra fredda la macchina immunitaria funzionava attraverso la produzione di paura reciproca e dunque con effetto di deterrenza rispetto alla catastrofe sempre minacciata, ma proprio perciĂČ mai attuata, oggi, almeno a partire dallâ11 settembre del 2001, essa richiede uno scatenamento di violenza effettiva da parte di tutti i contendenti. Lâidea â e la pratica â di guerra preventiva costituisce il punto piĂș acuto di questo avvitamento autoimmunitario della biopolitica contemporanea. Nel senso che in essa â nella figura autoconfutativa di una guerra volta ad evitare la guerra â il negativo della procedura di immunitĂ si raddoppia su se stesso fino ad occupare lâintero quadro: la guerra essendo non piĂș il rovescio sempre possibile, ma lâunica realtĂ effettuale, della coesistenza globale. Dove quello che importa non Ăš solo la specularitĂ che in questo modo si determina tra avversari pure differenziati nella responsabilitĂ e nella motivazione di partenza, ma lâesito controfattuale che la loro condotta necessariamente innesca: vale a dire la moltiplicazione esponenziale di quegli stessi rischi che si vorrebbero evitare, o almeno ridurre, attraverso strumenti destinati invece inevitabilmente a riprodurli intensificati. Come nelle piĂș gravi malattie autoimmuni, anche nel conflitto planetario in corso Ăš lâeccesso di difesa a rovesciarsi rovinosamente sullo stesso corpo che continua ad attivarlo e potenziarlo. Il risultato Ăš unâassoluta identificazione degli opposti: tra pace e guerra, attacco e difesa, vita e morte sembra consumarsi qualsiasi scarto differenziale. Che la minaccia piĂș forte, o almeno quella avvertita come tale, sia oggi costituita da un attentato biologico ha un significato ben preciso: e cioĂš che non Ăš piĂș solo la morte ad insidiare la vita, ma la vita stessa a costituire il piĂș micidiale strumento di morte. E del resto che cosâĂš un terrorista kamikaze, se non un frammento di vita che si scarica sulla vita altrui con lâintento di portarvi la morte?
2. Come si Ăš posta la filosofia contemporanea di fronte a questa situazione? Che tipo di risposta ha fornito alle questioni â letteralmente di vita e di morte â che la biopolitica ha aperto nel cuore del Novecento e che ancora oggi, diversamente ma non meno intensamente, torna a proporre? Lâatteggiamento sicuramente piĂș diffuso Ăš stato quello della rimozione, o addirittura dellâignoranza, del problema. La veritĂ Ăš che si Ăš semplicemente ritenuto che il crollo del nazismo dovesse trascinare nellâinferno da cui era sorto anche le categorie che ne avevano segnato il profilo. Lâaspettativa piĂș diffusa Ăš stata che tra politica e vita â cosĂ funestamente saldate negli anni trenta e quaranta â si sarebbero ricostituite quelle mediazioni, istituzionali e concettuali, che avevano consentito la costruzione e la tenuta dellâordine moderno. Si poteva discutere â come ancora oggi si continua stancamente a fare â se si dovesse auspicare un ritorno di sovranitĂ statale minacciata dallâinvadenza di nuovi attori sovranazionali o piuttosto unâestensione della logica dei diritti allâintera arena dei rapporti internazionali, ma sempre allâinterno del vecchio quadro analitico di matrice hobbesiana, magari con qualche spruzzo di cosmopolitismo kantiano. Salvo poi dover scoprire che tale modello non funziona piĂș â che non restituisce quasi nulla della realtĂ in atto, e tantomeno fornisce attrezzi validi per prefigurarne la trasformazione. E ciĂČ non soltanto per lâincongruenza di continuare a contrapporre opzioni â quali quelle dei diritti individuali e del potere sovrano â fin dallâinizio reciprocamente funzionali lâuna allo sviluppo dellâaltra, dal momento che non si danno diritti senza un potere sovrano, nazionale o imperiale, che ne imponga il rispetto, cosĂ come non esiste sovranitĂ priva di un qualche fondamento giuridico: non a caso Ăš proprio in nome dei diritti umanitari che oggi si autolegittima lo spiegamento piĂș impressionante di potenza sovrana da parte dello stato-impero americano. Ma, piĂș in generale, per la semplice ragione che non Ăš possibile ripercorrere la storia allâindietro â che il nazismo, piĂș ancora del comunismo, ha tracciato una soglia rispetto alla stagione precedente che rende impraticabile ogni riproposizione aggiornata dei suoi apparati lessicali. A partire da quella soglia, insieme storica ed epistemologica, la questione della biopolitica non Ăš piĂș eludibile. PuĂČ, anzi deve, essere rovesciata rispetto alla configurazione tanatologica che ha assunto nella Germania hitleriana, ma non saltata a ritroso verso la stagione moderna, se non altro perchĂ© proprio da essa contraddittoriamente Ăš scaturita, sia pure con modalitĂ ed intensitĂ diverse da quelle che ha successivamente assunto.
Chi aveva fin dallâinizio colto questa radice moderna della biopolitica â sia pure in una chiave interpretativa che ne rigettava la ragione e addirittura la legittimitĂ semantica â era stata Hannah Arendt. Contrariamente alla tesi piĂș diffusa che lega la modernitĂ al dispiegamento della politica, ella non soltanto la riconduceva ad un esito di spoliticizzazione, ma imputava questâultimo proprio allâemergenza della categoria di vita in sostituzione di quella, greca, di mondo-in-comune. Il punto di passaggio decisivo, allâinterno di tale schema interpretativo, Ăš costituito dal Cristianesimo. Esso rappresenta, infatti, lâorizzonte originario in cui per la prima volta si afferma il concetto della sacralitĂ della vita individuale, sia pure declinato in senso ultraterreno. BasterĂ che la modernitĂ lo secolarizzi, spostando il baricentro dallâambito celeste a quello terreno, per provocare quel ribaltamento prospettico che fa della sopravvivenza biologica il bene piĂș alto. Da allora «sola a poter essere immortale, immortale come il corpo politico nellâantichitĂ e come la vita individuale nel Medioevo, fu la vita stessa, il processo vitale della specie umana»4. Ma Ăš appunto lâaffermazione della conservatio vitae moderna rispetto allâinteresse greco per il mondo comune ad avviare, secondo la Arendt, quel processo di depoliticizzazione pervenuto al suo culmine allorchĂ© il lavoro per la soddisfazione delle necessitĂ materiali Ăš divenuto la forma prevalente dellâagire umano. A partire da quel momento
... nessuna delle facoltĂ superiori dellâuomo fu piĂș necessaria per connettere la vita individuale con la vita della specie; la vita individuale divenne parte del processo vitale, e lavorare, assicurare la continuitĂ della propria vita e di quella della propria famiglia, fu tutto quanto bastava. CiĂČ che non era richiesto, perchĂ© non occorreva per il metabolismo della vita con la natura, era o superfluo o giustificato solo in termini di peculiaritĂ della vita umana distinta dal resto della vita animale5.
Ă esattamente quel processo che Foucault avrebbe definito di lĂ a poco in termini di biopolitica â la vita individuale integrata nella vita della specie e distinta, attraverso una serie di cesure interne, in zone di differente valore. Ma Ăš anche il punto in cui il discorso della Arendt assume una direzione diversa e divergente da quella intrapresa dal filosofo francese6: dal momento che lâingresso sulla scena del mondo moderno della questione della vita coincide con il ritiro della politica sotto la duplice pressione del lavoro e della produzione, il termine di âbiopoliticaâ â come anche quello, marxiano, di âeconomia politicaâ â risulta sfornito di senso. Se lâattivitĂ politica Ăš considerata in linea di principio eterogenea alla sfera della vita biologica, non potrĂ mai darsi unâesperienza, appunto bio-politica, situata precisamente al loro punto di incrocio. Che tale conclusione poggi sul presupposto non verificato secondo cui lâunica forma valida di attivitĂ politica Ăš quella riconducibile allâesperienza della pĂłlis greca â di cui viene assunta in maniera irriflessa la separazione paradigmatica tra ambito privato dellâĂdion e ambito pubblico del koinĂłn â determina il punto cieco cui lâautrice perviene in merito al problema della biopolitica: dove câĂš autentica politica non puĂČ aprirsi uno spazio di senso per la produzione della vita e dove si dispiega la materialitĂ della vita non puĂČ piĂș configurarsi qualcosa come un agire politico.
3. La veritĂ Ăš che la Arendt non ha pensato a fondo la categoria di vita. E dunque non ne ha potuto interpretare filosoficamente il rapporto con la politica. CiĂČ Ăš particolarmente sorprendente per lâautrice che piĂș di ogni altro ha elaborato il concetto di totalitarismo â a meno che non sia stato proprio questo a sottrarle, o almeno a velarle, la specificitĂ di quella che Levinas aveva definito la âfilosofiaâ dellâhitlerismo. Del resto non sarebbe stato facile afferrarla â penetrare nella macchina della biopolitica nazista â a partire da una riflessione sulla politica fortemente segnata dal riferimento alla pĂłlis greca. Il problema â relativo non solo alla Arendt â Ăš che non si dĂ accesso diretto dalla filosofia politica, moderna o premoderna che sia, alla biopolitica. Il nazismo, nella sua essenza biocratica, resta muto per il pensiero politico classico. Non Ăš un caso che un reale confronto filosofico con esso sia stato condotto, sia pure in forma implicita e spesso reticente, soltanto da un pensatore radicalmente impolitico come Heidegger. Ma egli potĂ© farlo â pensare nel rovescio della questione posta dal nazismo alla storia mondiale â perchĂ© partiva in un certo senso dal suo medesimo presu...