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Biopolitica e filosofia

Roberto Esposito

  1. 240 pages
  2. Italian
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Biopolitica e filosofia

Roberto Esposito

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Da qualche tempo nessuno dei grandi eventi che scuotono il mondo Ăš piĂș interpretabile fuori della categoria di biopolitica: dovunque si volga lo sguardo, la questione del bĂ­os appare al centro di tutte le traiettorie politicamente significative. E tuttavia, a tale straordinario rilievo non corrisponde una adeguata chiarezza sul significato del concetto. Esso sembra percorso da un'incertezza di fondo, da un'inquietudine semantica, che lo espone a letture diverse e contrastanti. CiĂČ che, in tale contrasto, resta irrisolta Ăš la domanda posta per la prima volta da Michel Foucault: come mai la relazione sempre piĂș diretta della politica con la vita rischia di produrre un esito di morte? Cosa spinge irresistibilmente la politica della vita a ridosso del suo contrario?
Roberto Esposito cerca una risposta a questo interrogativo non soltanto nella genesi moderna della biopolitica - indagata per la prima volta in tutte le sue scansioni ed antinomie - ma anche nel suo estremo rovesciamento tanatopolitico nell'esperienza nazista. Contrariamente alla sostanziale rimozione operata dalla filosofia contemporanea, in questo libro si affaccia l'ipotesi altamente problematica che solo un confronto radicale con i dispositivi mortiferi del nazismo possa fornire le chiavi concettuali per penetrare l'enigma della biopolitica e tentarne una riconversione finalmente affermativa. Ma cosa vuol dire, propriamente, pensare nel rovescio del biopotere nazista? E come sciogliere il nodo che stringe vita e politica in una forma distruttiva di entrambe, senza smarrire la loro implicazione reciproca?

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2015
ISBN
9788858419366

Capitolo quinto

Filosofia del bĂ­os

1. La filosofia dopo il nazismo.
1. Che nel nazismo la biopolitica abbia sperimentato la piĂș terrificante forma di realizzazione storica, non vuol dire che ne abbia condiviso il destino di autodistruzione: a differenza di quanto si potrebbe pensare, la fine del nazismo non ha significato in nessun modo la fine della biopolitica. Ipotizzarlo vorrebbe dire non soltanto ignorare la genesi lunga, radicata nella stagione moderna, di quest’ultima, ma sottovalutarne l’ampiezza di orizzonte. Non Ăš stata la biopolitica un prodotto del nazismo, ma semmai il nazismo l’esito estremo e perverso di una particolare versione di biopolitica. Gli anni che ci separano dal crollo del regime ne costituiscono la piĂș cospicua riprova: non soltanto il rapporto diretto tra politica e vita non si Ăš per nulla allentato, ma appare, al contrario, in continuo incremento. Nessuna delle questioni di interesse pubblico – che per altro Ăš sempre piĂș difficile distinguere da quello privato – Ăš interpretabile fuori da una connessione profonda e spesso immediata con la sfera del bĂ­os1. Dal rilievo crescente dell’elemento etnico nelle relazioni tra popoli e Stati, alla centralitĂ  della questione sanitaria come indice privilegiato di funzionamento del sistema economico-produttivo, alla prioritĂ  dell’ordine pubblico nei programmi di tutti i partiti, quello che si registra da ogni parte Ăš un tendenziale schiacciamento della politica sul dato puramente biologico, se non sul corpo stesso di coloro che ne sono al contempo soggetti ed oggetti. Immissione del lavoro nella sfera somatica, cognitiva, affettiva degli individui, incipiente traduzione dell’azione politica in operazioni di polizia interna ed internazionale, aumento a dismisura dei flussi migratori di uomini e donne deprivati di ogni identitĂ  giuridica e ridotti allo stato di semplice sussistenza non sono che i tratti piĂș evidenti del nuovo scenario2. Se poi si guarda alla progressiva indistinzione tra norma ed eccezione legata allo stabilizzarsi di legislazioni di emergenza, si ha un ulteriore segno della sempre piĂș netta caratterizzazione biopolitica della societĂ  contemporanea. Che la ricerca ossessiva di sicurezza nei confronti della minaccia terroristica sia diventata il perno di tutte le attuali strategie governative dĂ  la misura della trasformazione in atto: alla politicizzazione del biologico, giĂ  iniziata nella tarda modernitĂ , risponde adesso un’altrettanto intensa biologizzazione del politico che fa della conservazione riproduttiva della vita l’unico progetto fornito di legittimitĂ  universale.
Da questo punto di vista, anzi, si deve registrare la generalizzazione al mondo intero non soltanto di quella politica della vita che il nazismo – certo in forme irripetibili – tentĂČ invano di esportare fuori dalla Germania, ma anche della sua specifica tonalitĂ  immunitaria e, piĂș precisamente, autoimmunitaria. Che la salvaguardia della vita biologica sia diventata la questione largamente dominante di quelle che un tempo si chiamavano politica interna e politica estera – adesso sovrapposte nel corpo unificato di un mondo senza esterno e dunque anche senza interno – Ăš un riscontro impressionante dell’assoluta coincidenza che ormai si verifica tra biopolitica ed immunizzazione. Lo spostamento finale in questa direzione Ăš stato determinato, a cinquant’anni dal crollo del nazismo, dall’implosione del comunismo sovietico. È come se, alla fine di quella che ancora si autointerpretava come l’ultima e piĂș compiuta delle filosofie della storia, la vita – la lotta per la sua protezione/negazione – fosse divenuta l’unico orizzonte di senso della politica mondiale3. Se ancora durante la guerra fredda la macchina immunitaria funzionava attraverso la produzione di paura reciproca e dunque con effetto di deterrenza rispetto alla catastrofe sempre minacciata, ma proprio perciĂČ mai attuata, oggi, almeno a partire dall’11 settembre del 2001, essa richiede uno scatenamento di violenza effettiva da parte di tutti i contendenti. L’idea – e la pratica – di guerra preventiva costituisce il punto piĂș acuto di questo avvitamento autoimmunitario della biopolitica contemporanea. Nel senso che in essa – nella figura autoconfutativa di una guerra volta ad evitare la guerra – il negativo della procedura di immunitĂ  si raddoppia su se stesso fino ad occupare l’intero quadro: la guerra essendo non piĂș il rovescio sempre possibile, ma l’unica realtĂ  effettuale, della coesistenza globale. Dove quello che importa non Ăš solo la specularitĂ  che in questo modo si determina tra avversari pure differenziati nella responsabilitĂ  e nella motivazione di partenza, ma l’esito controfattuale che la loro condotta necessariamente innesca: vale a dire la moltiplicazione esponenziale di quegli stessi rischi che si vorrebbero evitare, o almeno ridurre, attraverso strumenti destinati invece inevitabilmente a riprodurli intensificati. Come nelle piĂș gravi malattie autoimmuni, anche nel conflitto planetario in corso Ăš l’eccesso di difesa a rovesciarsi rovinosamente sullo stesso corpo che continua ad attivarlo e potenziarlo. Il risultato Ăš un’assoluta identificazione degli opposti: tra pace e guerra, attacco e difesa, vita e morte sembra consumarsi qualsiasi scarto differenziale. Che la minaccia piĂș forte, o almeno quella avvertita come tale, sia oggi costituita da un attentato biologico ha un significato ben preciso: e cioĂš che non Ăš piĂș solo la morte ad insidiare la vita, ma la vita stessa a costituire il piĂș micidiale strumento di morte. E del resto che cos’ù un terrorista kamikaze, se non un frammento di vita che si scarica sulla vita altrui con l’intento di portarvi la morte?
2. Come si Ăš posta la filosofia contemporanea di fronte a questa situazione? Che tipo di risposta ha fornito alle questioni – letteralmente di vita e di morte – che la biopolitica ha aperto nel cuore del Novecento e che ancora oggi, diversamente ma non meno intensamente, torna a proporre? L’atteggiamento sicuramente piĂș diffuso Ăš stato quello della rimozione, o addirittura dell’ignoranza, del problema. La veritĂ  Ăš che si Ăš semplicemente ritenuto che il crollo del nazismo dovesse trascinare nell’inferno da cui era sorto anche le categorie che ne avevano segnato il profilo. L’aspettativa piĂș diffusa Ăš stata che tra politica e vita – cosĂ­ funestamente saldate negli anni trenta e quaranta – si sarebbero ricostituite quelle mediazioni, istituzionali e concettuali, che avevano consentito la costruzione e la tenuta dell’ordine moderno. Si poteva discutere – come ancora oggi si continua stancamente a fare – se si dovesse auspicare un ritorno di sovranitĂ  statale minacciata dall’invadenza di nuovi attori sovranazionali o piuttosto un’estensione della logica dei diritti all’intera arena dei rapporti internazionali, ma sempre all’interno del vecchio quadro analitico di matrice hobbesiana, magari con qualche spruzzo di cosmopolitismo kantiano. Salvo poi dover scoprire che tale modello non funziona piĂș – che non restituisce quasi nulla della realtĂ  in atto, e tantomeno fornisce attrezzi validi per prefigurarne la trasformazione. E ciĂČ non soltanto per l’incongruenza di continuare a contrapporre opzioni – quali quelle dei diritti individuali e del potere sovrano – fin dall’inizio reciprocamente funzionali l’una allo sviluppo dell’altra, dal momento che non si danno diritti senza un potere sovrano, nazionale o imperiale, che ne imponga il rispetto, cosĂ­ come non esiste sovranitĂ  priva di un qualche fondamento giuridico: non a caso Ăš proprio in nome dei diritti umanitari che oggi si autolegittima lo spiegamento piĂș impressionante di potenza sovrana da parte dello stato-impero americano. Ma, piĂș in generale, per la semplice ragione che non Ăš possibile ripercorrere la storia all’indietro – che il nazismo, piĂș ancora del comunismo, ha tracciato una soglia rispetto alla stagione precedente che rende impraticabile ogni riproposizione aggiornata dei suoi apparati lessicali. A partire da quella soglia, insieme storica ed epistemologica, la questione della biopolitica non Ăš piĂș eludibile. PuĂČ, anzi deve, essere rovesciata rispetto alla configurazione tanatologica che ha assunto nella Germania hitleriana, ma non saltata a ritroso verso la stagione moderna, se non altro perchĂ© proprio da essa contraddittoriamente Ăš scaturita, sia pure con modalitĂ  ed intensitĂ  diverse da quelle che ha successivamente assunto.
Chi aveva fin dall’inizio colto questa radice moderna della biopolitica – sia pure in una chiave interpretativa che ne rigettava la ragione e addirittura la legittimitĂ  semantica – era stata Hannah Arendt. Contrariamente alla tesi piĂș diffusa che lega la modernitĂ  al dispiegamento della politica, ella non soltanto la riconduceva ad un esito di spoliticizzazione, ma imputava quest’ultimo proprio all’emergenza della categoria di vita in sostituzione di quella, greca, di mondo-in-comune. Il punto di passaggio decisivo, all’interno di tale schema interpretativo, Ăš costituito dal Cristianesimo. Esso rappresenta, infatti, l’orizzonte originario in cui per la prima volta si afferma il concetto della sacralitĂ  della vita individuale, sia pure declinato in senso ultraterreno. BasterĂ  che la modernitĂ  lo secolarizzi, spostando il baricentro dall’ambito celeste a quello terreno, per provocare quel ribaltamento prospettico che fa della sopravvivenza biologica il bene piĂș alto. Da allora «sola a poter essere immortale, immortale come il corpo politico nell’antichitĂ  e come la vita individuale nel Medioevo, fu la vita stessa, il processo vitale della specie umana»4. Ma Ăš appunto l’affermazione della conservatio vitae moderna rispetto all’interesse greco per il mondo comune ad avviare, secondo la Arendt, quel processo di depoliticizzazione pervenuto al suo culmine allorchĂ© il lavoro per la soddisfazione delle necessitĂ  materiali Ăš divenuto la forma prevalente dell’agire umano. A partire da quel momento
... nessuna delle facoltĂ  superiori dell’uomo fu piĂș necessaria per connettere la vita individuale con la vita della specie; la vita individuale divenne parte del processo vitale, e lavorare, assicurare la continuitĂ  della propria vita e di quella della propria famiglia, fu tutto quanto bastava. CiĂČ che non era richiesto, perchĂ© non occorreva per il metabolismo della vita con la natura, era o superfluo o giustificato solo in termini di peculiaritĂ  della vita umana distinta dal resto della vita animale5.
È esattamente quel processo che Foucault avrebbe definito di lĂ­ a poco in termini di biopolitica – la vita individuale integrata nella vita della specie e distinta, attraverso una serie di cesure interne, in zone di differente valore. Ma Ăš anche il punto in cui il discorso della Arendt assume una direzione diversa e divergente da quella intrapresa dal filosofo francese6: dal momento che l’ingresso sulla scena del mondo moderno della questione della vita coincide con il ritiro della politica sotto la duplice pressione del lavoro e della produzione, il termine di ‘biopolitica’ – come anche quello, marxiano, di ‘economia politica’ – risulta sfornito di senso. Se l’attivitĂ  politica Ăš considerata in linea di principio eterogenea alla sfera della vita biologica, non potrĂ  mai darsi un’esperienza, appunto bio-politica, situata precisamente al loro punto di incrocio. Che tale conclusione poggi sul presupposto non verificato secondo cui l’unica forma valida di attivitĂ  politica Ăš quella riconducibile all’esperienza della pĂłlis greca – di cui viene assunta in maniera irriflessa la separazione paradigmatica tra ambito privato dell’ídion e ambito pubblico del koinĂłn – determina il punto cieco cui l’autrice perviene in merito al problema della biopolitica: dove c’ù autentica politica non puĂČ aprirsi uno spazio di senso per la produzione della vita e dove si dispiega la materialitĂ  della vita non puĂČ piĂș configurarsi qualcosa come un agire politico.
3. La veritĂ  Ăš che la Arendt non ha pensato a fondo la categoria di vita. E dunque non ne ha potuto interpretare filosoficamente il rapporto con la politica. CiĂČ Ăš particolarmente sorprendente per l’autrice che piĂș di ogni altro ha elaborato il concetto di totalitarismo – a meno che non sia stato proprio questo a sottrarle, o almeno a velarle, la specificitĂ  di quella che Levinas aveva definito la ‘filosofia’ dell’hitlerismo. Del resto non sarebbe stato facile afferrarla – penetrare nella macchina della biopolitica nazista – a partire da una riflessione sulla politica fortemente segnata dal riferimento alla pĂłlis greca. Il problema – relativo non solo alla Arendt – Ăš che non si dĂ  accesso diretto dalla filosofia politica, moderna o premoderna che sia, alla biopolitica. Il nazismo, nella sua essenza biocratica, resta muto per il pensiero politico classico. Non Ăš un caso che un reale confronto filosofico con esso sia stato condotto, sia pure in forma implicita e spesso reticente, soltanto da un pensatore radicalmente impolitico come Heidegger. Ma egli potĂ© farlo – pensare nel rovescio della questione posta dal nazismo alla storia mondiale – perchĂ© partiva in un certo senso dal suo medesimo presu...

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Esposito, R. (2015) BĂ­os. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3427684/bos-biopolitica-e-filosofia-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Esposito, Roberto. BĂ­os. [edition unavailable]. EINAUDI, 2015. Web. 15 Oct. 2022.