Legnano 1176
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Legnano 1176

Una battaglia per la libertĂ 

Paolo Grillo

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Legnano 1176

Una battaglia per la libertĂ 

Paolo Grillo

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Ha ispirato una delle opere giovanili di Giuseppe Verdi e riecheggia nell'inno di Mameli, a ricordare la vittoria degli italici sugli stranieri; Ăš stata messa in scena nei kolossal cinematografici ed Ăš uno dei simboli del partito della Lega Nord, che ha come eroe Alberto da Giussano. Miti, leggende e fantasie letterarie hanno costruito l'immaginario della battaglia di Legnano che ha segnato la storia d'Italia e dell'intera Europa. I fatti perĂČ andarono diversamente. 29 maggio 1176: nelle campagne a nord-ovest di Milano, l'imperatore Federico Barbarossa affronta l'esercito delle cittĂ  italiane raccolte nella Lega Lombarda con un esito che all'epoca pochi si sarebbero aspettati. PerchĂ© avvenne lo scontro, come si svolse la battaglia, quali furono le ragioni dei contendenti, quali eventi precedettero il conflitto? Quale disegno politico aveva Federico Barbarossa e cosa rivendicavano i Comuni? Con gli strumenti della storia militare, Paolo Grillo segue passo passo le fasi della battaglia, scende fra le linee dei combattenti e svela cosa c'Ăš dietro quell'amara sconfitta: a Legnano si affrontarono in realtĂ  due forme contrapposte di organizzazione militare. L'Impero, da una parte, con la sua struttura aristocratica, era ben rappresentato dalla celebre e quasi imbattibile cavalleria pesante teutonica. I Comuni, dall'altra, si incarnavano nella collettivitĂ  in armi dei fanti, che combattevano fianco a fianco ai cavalieri, da uomini liberi, decisi a battersi per la difesa della patria comune. Due mondi diversi, uno prossimo alla fine, l'altro – quello dei cittadini d'Italia – solo all'inizio.

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Informations

Éditeur
Editori Laterza
Année
2012
ISBN
9788858103784

1. Le ambizioni di un giovane imperatore

1. Un nuovo imperatore

All’inizio dell’ottobre 1154, Federico I, con al seguito 1.800 cavalieri (una forza piccola, ma certo non trascurabile secondo gli standard dell’epoca), si affacciĂČ al passo del Brennero, preparandosi a scendere per la prima volta in Italia. Da due anni Federico regnava, col titolo di re dei Romani, sull’Impero d’Occidente, un grande Stato sovranazionale composto dai regni Teutonico (ossia la Germania), Italico (l’Italia centro-settentrionale) e Burgundo (la Borgogna). Federico, nato alla fine del 1122, aveva all’epoca poco piĂč di trent’anni e lo scopo principale del suo viaggio era ricevere la corona imperiale a Roma. Detto il Barbarossa, a causa della sua barba fulva, almeno dal 1138 aveva iniziato a partecipare alla vita pubblica a fianco del padre, duca di Svevia e fratello dell’imperatore Corrado III. Il giovane era stato educato secondo il codice della cavalleria e gli era stato trasmesso un sistema di valori legato alla forza fisica, all’abilitĂ  con le armi, al coraggio in battaglia, tutte qualitĂ  che aveva avuto modo di dimostrare partecipando alla seconda crociata, fra il 1147 e il 1148.
L’ascesa al trono di Federico era stata promossa quale soluzione al conflitto che per oltre un quarto di secolo, dalla morte di Enrico V nel 1125, aveva travagliato il regno di Germania, a causa della dura competizione per il trono fra le casate degli Hohenstaufen, che erano duchi di Svevia, e i Welfen, o Guelfi, che signoreggiavano sulla Baviera e sulla Sassonia. La carica di re di Germania, che portava con sĂ© quella di imperatore, infatti, non era ereditaria e il titolo veniva assegnato con un’elezione da parte dei principi laici ed ecclesiastici. Gli elettori, perĂČ, potevano venir manipolati o cambiare opinione, sicchĂ© dal 1127 si ebbero due pretendenti alla sovranitĂ , ossia il re effettivo, Lotario III di Sassonia, e l’anti-re Corrado di Hohenstaufen. Nel 1133 Lotario ottenne a Roma la corona imperiale e sconfisse militarmente Corrado che, nel 1134, decise di fare un passo indietro. Tre anni dopo, perĂČ, Lotario morĂŹ e il titolo passĂČ all’Hohenstaufen, col nome di Corrado III, che si trovĂČ a sua volta a lottare contro le pretese dei parenti di Lotario, in particolare di Guelfo VI, che fu sconfitto in battaglia a Flochburg nel 1150. Scontri e rivolte si sedarono soltanto nel 1152, alla morte di Corrado III, con l’elezione di Federico Barbarossa, candidato ideale per la pacificazione, in quanto nipote di Corrado per parte di padre e di Guelfo VI per parte di madre.
L’elezione al trono tedesco e imperiale fece di Federico il sovrano della piĂč grande entitĂ  politica dell’Europa occidentale, che si estendeva sull’intera Germania, dal Reno all’Elba, su parte dell’attuale Francia settentrionale, sulla Borgogna (sovranitĂ  rafforzata nel 1156, grazie alle nozze fra Federico e Beatrice di Borgogna), sulla Provenza, che all’epoca si estendeva dalle Alpi al Rodano, e sull’Italia centro-settentrionale. L’Impero, perĂČ, presentava anche grandi debolezze, se paragonato alle piĂč piccole ma piĂč compatte e gerarchizzate monarchie che negli stessi anni governavano l’Inghilterra, la Francia, la Spagna settentrionale e l’Italia meridionale.
Il sovrano di Germania era designato nel corso di una grande assemblea che riuniva i grandi principi ecclesiastici e laici che governavano le diverse regioni in cui era diviso il territorio. Il re era il signore di tutti costoro, ai quali attribuiva terre e poteri pubblici nel corso di importanti cerimonie, tramite la consegna simbolica di alcuni stendardi. Le cariche erano ereditarie, ma il sovrano poteva spossessarne i titolari in caso di tradimento o di mancata obbedienza e poteva rivendicarne il controllo se venivano a mancare eredi ufficiali. I principi, perĂČ, non erano solo personaggi soggetti, ma anche i necessari interlocutori del re, che agiva sempre con il loro supporto seguendone i consigli e garantendone i buoni rapporti reciproci. Nel regno Teutonico il re non si proponeva come fonte della legge e non pronunciava quasi mai sentenze senza il consenso e l’approvazione dell’assemblea dei nobili. Le norme formali contavano poco, mentre era discriminante il ruolo dell’onore nello stabilire le gerarchie e i rapporti fra i principi laici ed ecclesiastici. Lo «Stato» era concepito quale «onore collettivo» che spettava ai suoi rettori difendere e in tali termini si esprimeva il Barbarossa quando rivendicava il diritto-dovere di proteggere l’honor imperii. La nobiltĂ  tedesca era potente e orgogliosa e il meccanismo dell’elezione al trono faceva sĂŹ che il sovrano potesse essere considerato un primus inter pares, nominato alla carica da persone dotate di pari dignitĂ . La conflittualitĂ  fra i diversi potentati locali era altissima e poco poteva l’imperatore contro di essa, poichĂ© il diritto alla guerra privata era una prerogativa a cui gli aristocratici non erano disposti a rinunciare. Insubordinazioni e rivolte erano sempre in agguato contro i regnanti che non si fossero comportati correttamente nei confronti dei principi.
La potenza dell’imperatore era costituita soprattutto dalle vastissime proprietĂ  della Corona – che nel regno di Germania includevano approssimativamente 120 fra cittĂ  e borghi, 195 castelli, 2.900 aziende agrarie –, alle quali si aggiungevano i beni propri della famiglia del sovrano eletto. Questi aveva inoltre il potere di nominare gli abati di circa 120 monasteri. Federico dedicĂČ una grande cura al patrimonio familiare e a quello demaniale, cercando di costituire, con una politica di acquisti e di scambi, un vasto e compatto territorio sottoposto al suo dominio diretto. Altra grande risorsa a disposizione dell’imperatore era il controllo sull’elezione di tutti i vescovi e gli arcivescovi del regno di Germania, una cinquantina, che a loro volta governavano su importanti cittĂ  e vasti territori. Per rafforzare il controllo sugli alti prelati, gli imperatori li legavano a sĂ© anche con giuramento feudale, al momento di attribuire loro i poteri temporali sulle loro diocesi. In questo modo l’imperatore poteva disporre di una fortissima influenza sulle scelte dei principi ecclesiastici, che spesso erano i suoi piĂč stretti e fidati collaboratori.
A differenza di quanto avveniva in Inghilterra o in Sicilia, perĂČ, non esistevano imposte generali, incassabili in tutto il regno, mancava il controllo statale sui principali pedaggi e non vi erano norme fisse e costanti per la mobilitazione degli eserciti. Inoltre, Palermo, Londra e, poco piĂč tardi, Parigi stavano diventando le capitali, sede fissa dei re e dei loro principali organi di governo, che proiettavano la loro autoritĂ  sul territorio per mezzo di una rete di ufficiali, mentre i sovrani tedeschi erano itineranti: non esistevano rappresentanti locali fissi della Corona e, per far percepire la sua presenza, Federico, come i suoi predecessori, doveva spostarsi fisicamente da un capo all’altro del suo Stato, facendosi seguire dalla sua corte e convocando periodiche assemblee regionali durante le quali amministrava la giustizia e concedeva udienza ai sudditi. Dato che si spostava in continuazione, la corte imperiale non disponeva di quelle infrastrutture che si stavano sempre piĂč affermando quali indispensabili strumenti di governo. Il tesoro dello Stato doveva essere stipato in alcuni cassoni corazzati che, sotto nutrita scorta, seguivano il perenne ambulare del sovrano; peggio ancora, gli archivi regi erano modestissimi, quasi inesistenti, e l’imperatore non disponeva di mezzi efficaci per conoscere le sue entrate, quanti cavalieri dovevano fornirgli i vassalli e i principi o il numero degli uomini che erano tenuti a prestargli obbedienza. L’uso dei documenti scritti era limitato e la loro conservazione alquanto problematica: per ricostruire la storia dei tempi del Barbarossa disponiamo di poco piĂč di un migliaio di atti emessi dalla cancelleria imperiale, mentre per lo stesso arco di tempo quelli inglesi sono circa 5.000 e quelli papali oltre 10.000. Tutto ciĂČ era particolarmente dannoso nei rapporti con i signori e i nobili, poichĂ©, non esistendo registrazioni attendibili, tutte le prestazioni militari ed economiche dovevano essere contrattate di volta in volta e potevano subire imponenti variazioni a seconda dei rapporti di forza esistenti.
Da quando Ottone il Grande, nell’anno 962, aveva conquistato il regno Italico e riunito le corone d’Italia e di Germania entro l’Impero (che noi convenzionalmente chiamiamo Sacro Romano Impero, ma che all’epoca era l’Impero tout court), il sovrano teutonico governava anche la parte centro-settentrionale della nostra penisola.
Le due parti che componevano l’Impero erano assai differenti, per estensione, per evoluzione sociale, per strutture politiche e per vitalitĂ  economica. Mentre in Germania il possesso di terre e di contadini rappresentava ancora la principale e quasi unica forma di ricchezza, in Italia fiorivano ormai da oltre un secolo le cittĂ , la servitĂč andava rarefacendosi se non scomparendo, la circolazione monetaria era intensissima, i commerci e la produzione artigianale rappresentavano un potentissimo motore di prosperitĂ  collettiva e di mobilitĂ  sociale. La differenza fra le economie dei due regni Ăš illustrata in maniera efficacissima dal cosiddetto TafelgĂŒterverzeichnis, un sintetico elenco delle proprietĂ  della Corona (dette «curie») redatto probabilmente nell’XI secolo e fatto accuratamente ricopiare verso il 1174, alla vigilia della quinta discesa in Italia del Barbarossa che porterĂ  alla battaglia di Legnano. Ebbene, le curie tedesche fornivano esclusivamente servizi in natura, dando pollame, maiali, uova, formaggi, birra, vino o ospitalitĂ  ai rappresentanti regi; le curie italiche, invece, pagavano una grande quantitĂ  di denaro, pari all’imponente somma di 5.600 marchi d’argento. O, almeno, avrebbero dovuto pagarla, poichĂ© finchĂ© il sovrano rimaneva in Germania nessuno si preoccupava di riscuotere i suoi tributi. Se voleva avere a disposizione denaro contante, dunque, l’imperatore doveva avere facile accesso alla penisola italiana ed esercitarvi il proprio controllo.
L'Italia e l'Impero

2. I comuni italiani

Anche se il problema delle cittĂ  nel 1154 non era urgente, Federico sapeva sicuramente che nella penisola accadevano grandi novitĂ . Da almeno mezzo secolo le maggiori cittĂ  del Centro e del Settentrione si erano date una nuova forma di autogoverno, in cui la possibilitĂ  di esercitare il potere pubblico non derivava dall’alto, da un’investitura regia o da un diritto ereditario, ma veniva attribuita dal basso, grazie al consenso della collettivitĂ  dei cittadini. Ogni anno, infatti, veniva eletto un collegio di ufficiali, i quali avevano il compito di assicurare il governo della cittadinanza, l’amministrazione della giustizia e la difesa del territorio urbano. Il nome di questa nuova istituzione era «comune».
L’Italia centro-settentrionale non era l’unica regione europea dove le cittĂ  erano in fermento. L’evento piĂč clamoroso si era verificato a Laon, nella Francia settentrionale, dove nel 1107 il vescovo aveva autorizzato l’autogoverno cittadino e dove, cinque anni piĂč tardi, la popolazione al grido di «Comune!» si ribellĂČ con le armi al tentativo compiuto dal prelato di ritornare sui suoi passi. Il re Luigi VI represse nel sangue la rivolta, ma l’atto suscitĂČ impressione e preoccupazione, tanto che uno dei maggiori intellettuali dell’epoca, Guiberto di Nogent, si sentĂŹ in dovere di condannare il comune, «pessimo nome» grazie al quale i servi acquisivano un’illecita libertĂ  e disobbedivano ai loro giusti signori. Fra il 1127 e il 1128 le cittĂ  di Bruges, Gand e Ypres assunsero il ruolo di protagoniste nel conflitto di successione scoppiato per la titolaritĂ  della contea delle Fiandre e riuscirono a ottenere ampi margini di libertĂ , sebbene successivamente erosi dalla reazione del conte. Anche nel cuore della terra imperiale non mancavano gli sconvolgimenti. All’Impero era soggetta Cambrai, dove il comune era stato autorizzato nei primi anni del XII secolo, anche se nel 1107 il vescovo Walcher, appoggiato dall’imperatore Enrico V, riuscĂŹ a tornare sui suoi passi e ad annullare il privilegio prima concesso. Mentre il Barbarossa muoveva verso l’Italia, in altre cittĂ  importanti come Treviri e Magonza tirava aria di rivolta: nel 1154 ve ne erano solo le prime avvisaglie, ma negli anni successivi il pernicioso esempio italiano si sarebbe esteso diffusamente, obbligando Federico prima a ordinare severamente di non creare «nuovi comuni» in tali cittĂ , poi, nel 1163, a disporre una severa punizione contro Magonza, i cui cittadini ribelli avevano ucciso l’arcivescovo tre anni prima.
Regno di Francia, regno Teutonico, Fiandre rappresentavano solo la punta dell’iceberg. Da oltre un cinquantennio le cittĂ  erano in subbuglio nell’intera Europa, ma ciĂČ nonostante in queste regioni sembrava possibile imbrigliare il movimento comunale o quanto meno indirizzarlo verso il rafforzamento e la crescita della potenza regia: le comunitĂ  ribelli venivano represse e punite, le associazioni sciolte oppure poste sotto il controllo e la protezione particolare del sovrano, che se ne serviva per contrastare il potere della nobiltĂ  locale. In Italia non era cosĂŹ: a partire dagli ultimi anni dell’XI secolo, i comuni urbani avevano acquisito incontrastati un peso e una forza enormi, conquistando una piena autonomia di governo e proiettando il loro potere su gran parte delle campagne circostanti.
Identificare una «data di nascita» dei comuni italiani Ăš impossibile, poichĂ© tutto ciĂČ che possediamo sono alcuni documenti nei quali viene menzionata la nuova magistratura dei consoli. Considerato perĂČ che solo una piccola parte degli atti scritti all’epoca ci Ăš stata tramandata, questi documenti possono talvolta essere posteriori anche di decenni alla prima comparsa del comune stesso. In generale, si puĂČ ritenere che la maggior parte delle cittĂ  si sia data proprie forme di autogoverno tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo. Si trattava del periodo della cosiddetta «lotta per le investiture», durata dal 1076 al 1122, durante la quale papi e imperatori si scontrarono per stabilire chi dovesse detenere il potere di nominare i vescovi (vescovi che, ricordiamolo, spesso avevano anche ampie competenze di governo civile). In gran parte delle cittĂ  dell’Italia centro-settentrionale si ebbero tensioni legate alla lotta per le investiture: non era raro che due prelati, uno scelto da Roma e uno dal sovrano, si contendessero la stessa cattedra, cercando di trovare l’appoggio della cittadinanza. In queste condizioni, a differenza di quanto era accaduto nei decenni precedenti, non era possibile affidare il governo urbano al vescovo e ai suoi collaboratori: gli abitanti dovettero fare da sĂ© e si diedero proprie strutture amministrative riunendosi in collettivitĂ  giurate – che comprendevano tutti coloro che risiedevano entro le mura urbane e nelle loro immediate vicinanze – ed esprimendo propri rappresentanti che presero il nome di «consoli», con un richiamo certamente non casuale alla magistratura che aveva caratterizzato i tempi d’oro della Roma repubblicana.
Per cercare di comprendere cosa potevano pensare l’imperatore e la sua corte della situazione che si era andata definendo in Italia, disponiamo fortunatamente di una testimonianza importantissima. Al seguito di Federico vi era una figura particolare, Ottone, arcivescovo di Frisinga, zio paterno dello stesso imperatore. Ottone, nato verso il 1112, nel 1133 si era ritirato come monaco del monastero cistercense di Morimond, in Borgogna, ma aveva poi lasciato la quiete del chiostro per affiancare e consigliare il giovane nipote. Personaggio di grande cultura e di altrettanto grande curiositĂ , Ottone si vide attribuire nel 1157 l’incarico ufficiale di narrare le gesta del nuovo sovrano, compito che espletĂČ fino alla sua morte, avvenuta nel 1158. Le parole di Ottone ci restituiscono, dunque, ciĂČ che degli eventi italiani poteva colpire un colto nobiluomo tedesco, che guardava con interesse misto a perplessitĂ  quello che accadeva nelle cittĂ  della penisola. Poco piĂč che quarantenne, egli aveva ormai un retroterra di idee saldamente formatesi, ma conservava una profonda vivacitĂ  intellettuale, che lo portĂČ a comprendere acutamente la novitĂ  rappresentata dai comuni e a darne una descrizione di chiarezza non comune nel suo Gesta Friderici.
Scriveva dunque Ottone:
I latini imitano ancor oggi la saggezza degli antichi romani nell’ordinamento delle cittĂ  e nella gestione della cosa pubblica. Essi amano infatti la libertĂ  a tal punto che, per sfuggire alla prepotenza del potere, si reggono secondo l’arbitrio di consoli, anzichĂ© di potenti che comandino. Siccome fra loro vi sono tre ordini, cioĂš quello dei feudatari maggiori (capitani), dei valvassori e della plebe, per limitarne la superbia eleggono non da uno solo di questi gruppi, ma da tutti i predetti consoli. PerchĂ© poi non si lascino prendere dalla libidine di comandare, li cambiano quasi ogni anno. Da ciĂČ deriva che, essendo tutta quella regione fermamente suddivisa fra le cittĂ , ciascuna di esse costringe coloro che abitano nella sua diocesi ad obbedirle e a stento in una terra cosĂŹ grande si trova un qualche nobile o qualche uomo di rilievo che non sia soggetto agli ordini della sua cittĂ . Hanno anche l’uso di chiamare questi territori su cui comandano i loro «comitati». Inoltre, perchĂ© non manchino le risorse con cui affrontare i loro vicini, non si fanno problemi ad elevare alla condizione di cavaliere e alle dignitĂ  di governo i giovani di umili condizioni e addirittura gli artigiani che si occupano di spregevoli arti meccaniche, che le altre genti tengono lontano come la peste dagli uffici piĂč onorevoli e liberali. Da ciĂČ consegue che esse sono di gran lunga superiori a tutte le cittĂ  del mondo per ricchezza e potenza. A tal fine si avvantaggiano non solo, come si Ăš detto, per la saggezza delle loro istituzioni, ma anche per l’assenza dei sovrani, che abitualmente rimangono al di lĂ  delle Alpi.
SovranitĂ  popolare, mobilitĂ  e apertura sociale, ...

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