1. Le molte facce (e i tanti numeri) della flessibilitĂ
Nel nostro paese come in altri dellâUnione Europea, Francia e Germania in testa, organizzazioni e personaggi autorevoli chiedono ogni giorno, ormai da alcuni lustri, che sia accresciuta la «flessibilitĂ del lavoro». La richiesta si presenta in ogni contesto immaginabile. La avanzano o la difendono, nel corso dellâintero periodo, i saggi dei maggiori centri di ricerche economiche; i discorsi del governatore della Banca dâItalia, non importa se quello in carica o quello di prima; le dichiarazioni dei presidenti della Confindustria; gli articoli di fondo dei maggiori quotidiani; le pagine dei piĂč reputati organi economici, a partire dal «Sole-24 Ore»; le interviste tv degli uomini politici del centro-destra come del centro-sinistra; le dichiarazioni di ministri economici e di presidenti del Consiglio dâuna dozzina di governi almeno. Visto che sono citatissimi dalle suddette fonti â di solito con il codicillo che una maggior flessibilitĂ del lavoro «ce la chiede lâEuropa», oppure «ce la chiedono i mercati» â, si dia anche unâocchiata ai documenti della Commissione europea, dellâOcse (lâOrganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) o del Fondo monetario internazionale. Una volta compiuta una simile rassegna, piĂč o meno esaustiva in funzione del tempo disponibile, non ci si potrĂ sottrarre alla conclusione che lâaumento della flessibilitĂ del lavoro â con il quale sâintende una maggior diffusione dei lavori flessibili â rappresenti in assoluto uno dei bisogni piĂč seri e urgenti dellâeconomia italiana, nel quadro delle crescenti interdipendenze tra questa e lâeconomia mondiale.
Ma qual Ăš propriamente il senso dellâespressione «flessibilitĂ del lavoro», che nei testi di cui sopra non sempre viene esplicitato? Si usano definire flessibili, in generale, o cosĂŹ si sottintendono, i lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente lâorganizzazione della propria esistenza â nellâarco della vita, dellâanno, sovente perfino del mese o della settimana â alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano. Tali modi di lavorare o di essere occupati impongono alla gran maggioranza di coloro che vi sono esposti per lunghi periodi un rilevante costo umano, poichĂ© sono capaci di modificare o sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alle condizioni della prestazione lavorativa, il mondo della vita, il complesso dellâesistenza personale e familiare.
Allo scopo di poter discutere con qualche rigore sia di flessibilitĂ che del suo costo umano, occorre perĂČ cercar di precisare quel che sovente, quando si legge o si sente parlare di flessibilitĂ , rimane nel vago. Anzitutto, occorre stabilire quali sono le particolari forme che essa puĂČ assumere e quante sono realmente le persone che vi sono esposte. Per contare queste ultime occorre far fronte a numerose difficoltĂ di ordine metodologico e statistico. In secondo luogo, va rilevato che i costi umani del lavoro flessibile variano notevolmente, come entitĂ e tipologia, in funzione dei sistemi lavorativi, o modi di lavorare, nel cui ambito si applica al lavoratore un dato tipo di flessibilitĂ . Infine, Ăš possibile che lo stesso tipo di flessibilitĂ configuri per una persona oneri notevolmente diversi a seconda del suo livello di qualificazione, della professione, della fascia di etĂ , del genere, dello stato di salute, della storia lavorativa, perfino delle sue origini etniche. Questi diversi aspetti della flessibilitĂ sono trattati nei successivi capitoli; in questo ci si sofferma invece su definizione e numeri della flessibilitĂ .
Negli studi e in una parte delle statistiche relative al lavoro flessibile si usa distinguere tra due specie principali di flessibilitĂ , che gli esperti sogliono denominare, in modo alquanto criptico, numerica oppure funzionale, quantitativa oppure qualitativa, esterna o interna1. Per maggior chiarezza converrebbe invece parlare per un verso di flessibilitĂ dellâoccupazione, per lâaltro di flessibilitĂ della prestazione. La flessibilitĂ dellâoccupazione consiste nella possibilitĂ , da parte di unâimpresa, di far variare in piĂč o in meno la quantitĂ di forza lavoro utilizzata, ossia il numero dei lavoratori cui paga a un dato momento un salario, in relazione stretta con il proprio ciclo produttivo; ciĂČ che dovrebbe avvenire idealmente in tempo reale, ovvero con un ritardo minimo, approssimantesi a zero, rispetto al profilarsi dei picchi e delle valli del ciclo stesso. Detta possibilitĂ si realizza al meglio quando sussista unâampia libertĂ di licenziare o, in mancanza di questa, la possibilitĂ di occupare salariati (di proposito non scriviamo qui «assumere») facendo fronte al minor grado concepibile, nel contesto locale, di norme del diritto del lavoro che tendono a rendere duratura lâoccupazione.
In effetti, codeste norme sono viste in generale da molte imprese, e dalle loro maggiori associazioni, quali la Confindustria, come un preoccupante fattore di rallentamento del flusso di lavoratori in entrata e in uscita da unâazienda. Tra il polo della libertĂ di licenziamento e quello del divieto di licenziare se non per gravi motivi, la possibilitĂ di avere a disposizione buon numero di lavoratori occupabili con un grado elevato di flessibilitĂ rappresenta per le imprese un compromesso accettabile, che molte di esse provano, ad ogni buon conto, a sospingere verso il primo polo.
La flessibilitĂ dellâoccupazione si traduce prevalentemente, allorchĂ© rientra nel quadro del diritto del lavoro â ciĂČ che per molte persone non avviene, come vedremo subito â, in una variegata tipologia di contratti lavorativi, che sono detti atipici per distinguerli dal normale o tipico contratto di lavoro di durata indeterminata e a tempo pieno. Vanno perciĂČ considerati come indicatori di flessibilitĂ dellâoccupazione anzitutto i diversi contratti per dipendenti di durata determinata, o a termine, che possono variare da pochi mesi a due-tre anni; poi i contratti a tempo parziale; i contratti di lavoro in affitto, che un tempo si chiamava interinale, mentre il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, attuativo della legge 30/2003, lo chiama «in somministrazione», e puĂČ applicarsi a individui o a gruppi di lavoratori; i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, che sotto il profilo giuridico configurano un lavoro autonomo, perĂČ designato sovente «parasubordinato» per distinguerlo dal lavoro realmente indipendente dellâartigiano o del professionista; di lavoro a progetto (idem); i contratti di lavoro ripartito (in questo caso due persone si dividono nel giorno o nella settimana un unico posto di lavoro a tempo pieno); ancora, i contratti di lavoro intermittente e di prestazione occasionale. Tutti questi contratti atipici coesistono in numerose imprese a fianco dei contratti a tempo indeterminato, che continuano ad applicarsi alla maggioranza dei lavoratori dipendenti in attivitĂ , mentre per quanto riguarda i nuovi ingressi al lavoro, come media nazionale, dal 2005 in poi, i contratti atipici hanno rappresentato oltre la metĂ del totale.
La flessibilitĂ della prestazione si riferisce per contro allâeventuale modulazione, da parte dellâimpresa, di vari parametri della situazione in cui i salariati che al suo interno operano â a cominciare dai dipendenti a tempo indeterminato e orario pieno, ma compresi pure gli atipici â prestano la loro attivitĂ . Sotto questa rubrica vengono quindi collocati: lâarticolazione differenziale dei salari, praticata per ancorarli ai meriti individuali o alla produttivitĂ di reparto o di impresa; le modificazioni degli orari, intese ad accrescere vuoi lâutilizzazione degli impianti, vuoi lâaderenza alle singolaritĂ del ciclo produttivo, su archi temporali che vanno da poche ore durante il giorno (come nel caso degli orari che permettono di scegliere lâora di ingresso o di uscita) sino a un intero anno (come nel caso della cosiddetta annualizzazione, degli orari pluriperiodali, delle «banche del tempo»).
Rientrano quindi nella rubrica delle prestazioni flessibili lâintroduzione, le diverse tipologie e le variazioni cicliche di modalitĂ quali: il lavoro a turni; gli orari slittanti, per cui capita ogni tot settimane di dover lavorare il sabato e la domenica; gli orari pluriperiodali o annualizzati, in base ai quali la media «normale» delle 40 ore settimanali puĂČ venire raggiunta, nellâanno, lavorando per tot settimane con orari molto piĂč lunghi e per altre con orari molto piĂč brevi; lo straordinario e le sue ricorrenti variazioni; le improvvise variazioni dâorario comprese entro una fascia di ore e/o giorni in cui il lavoratore ha dato la propria disponibilitĂ (comuni nella grande distribuzione, dove si cerca di far coincidere il numero di addetti presenti con il flusso quotidiano della clientela); le variazioni delle condizioni di lavoro, ivi compresa la condivisione del posto o dei mezzi di produzione (macchina utensile, scrivania, sportello o pc in rete che siano); le improvvise variazioni del ritmo, del tipo e del luogo di lavoro che appaiono necessarie per fare fronte a occasionali disfunzioni del ciclo produttivo; i trasferimenti di personale tra reparti o tra sedi; gli spostamenti del luogo di lavoro (come nel telelavoro) ovvero la soppressione dâun luogo definito in cui il lavoro debba venire svolto (come nei casi piĂč avanzati di «ufficio mobile», ma anche in molti casi piĂč tradizionali di attivitĂ di trasporto).
La flessibilitĂ della prestazione viene regolata vuoi dai contratti collettivi imprese-sindacati a livello nazionale e a livello integrativo, vuoi dalle norme inserite in ciascuna tipologia di contratto atipico. I lavoratori toccati da queste forme di flessibilitĂ qualitativa sono parecchi milioni, posto che esse si applicano tanto a molti lavori a tempo pieno e durata indeterminata quanto a gran parte delle occupazioni flessibili di genere quantitativo menzionate prima. Peraltro le sovrapposizioni delle diverse modalitĂ di organizzazione del lavoro â per cui puĂČ capitare, ad esempio, che un certo numero di lavoratori facciano un turno di notte, con un paio dâore di straordinario, nella notte tra una domenica e un giorno festivo, numero che il mese dopo puĂČ essere maggiore o minore â rendono difficile pervenire a una stima piĂč precisa della quantitĂ di persone coinvolte in forme di flessibilitĂ della prestazione.
Di certo Ăš provato che anche questa forma di flessibilitĂ lavorativa comporta per chi vi Ăš esposto costi rilevanti, in specie quando succede che essa si combini, in capo alla stessa persona, con la flessibilitĂ dellâoccupazione. Ă altresĂŹ noto che molte imprese, piccole e grandi, impongono dosi addizionali di flessibilitĂ della prestazione facendo capire a coloro i quali hanno un contratto a termine, come dipendenti o parasubordinati, che dalla disponibilitĂ ad accettarla puĂČ dipendere il rinnovo del contratto in essere. Ă forse questo lâincubo principale dei lavoratori che hanno unâoccupazione sottoposta alle leggi economiche e alla legislazione della flessibilitĂ .
Nel seguito si tratterĂ soprattutto dei temi connessi alla flessibilitĂ dellâoccupazione, poichĂ© Ăš su questi ultimi che si Ăš concentrata da anni lâattenzione delle famiglie e dei sindacati da un lato, delle imprese, della politica e degli esperti di economia e di diritto del lavoro dallâaltro. Nondimeno, visto che la flessibilitĂ della prestazione, quella che incide direttamente sulle condizioni in cui si trova a operare chi un lavoro ce lâha, si cumula sovente con la flessibilitĂ dellâoccupazione a carico delle stesse persone, e che tra le due vi sono rapporti di scambio â poichĂ© in molti casi se non si accetta quella si rischia maggiormente di cadere sotto questa â saranno spesso introdotti anche riferimenti alla prima.
Sin qui abbiamo parlato di occupazione instabile o discontinua perchĂ© i relativi contratti, regolati dalle leggi vigenti, presentano una scadenza o unâaltra atipicitĂ , come il part time, a prescindere dal fatto che riguardino un dipendente a termine o un parasubordinato. Esiste perĂČ anche lâinstabilitĂ o discontinuitĂ dellâoccupazione dovuta al fatto che il contratto non esiste, ovvero Ăš soltanto verbale o implicito. Mi riferisco a quellâuniverso parallelo di lavori flessibili costituito dallâeconomia sommersa, che per sua natura non Ăš nĂ© regolato nĂ© regolabile. Comprende milioni di persone che non soltanto lavorano totalmente o parzialmente in situazioni irregolari, dal punto di vista contributivo e fiscale, ma sono anche â e questo Ăš lâaspetto cui andrebbe attribuito un maggior peso â totalmente prive di diritti.
Nellâeconomia sommersa concetti quali ferie, festivitĂ , assistenza sanitaria, misure di sicurezza e tutela della salute sul luogo di lavoro, previdenza, condizioni che lâambiente lavorativo deve rispettare, protezioni e vertenze sindacali, lavoro e compenso ordinario e straordinario, sono tutte parole prive di senso. In essa Ăš estrema la subordinazione al datore di lavoro, che ogni singolo giorno puĂČ esercitare la facoltĂ di assumere o licenziare, chiedere piĂč o meno ore, aumentare o diminuire la retribuzione. Inoltre, Ăš ben noto a chi lo osserva da vicino â a cominciare dagli ispettori del lavoro, ma anche da molti imprenditori â che esso Ăš strettamente intrecciato con lâeconomia formale. A tal punto che, ove simile universo venisse improvvisamente a mancare, lâeconomia regolare entrerebbe in crisi entro breve tempo.
Appare insomma del tutto improprio discutere di flessibilitĂ , quando non si prenda in considerazione sistematica questa larga parte del mercato del lavoro che della flessibilitĂ italiana Ăš elemento inseparabile. Non da ultimo, tale considerazione congiunta appare necessaria perchĂ© sono massicci e rapidi i passaggi da un bacino allâaltro del mercato del lavoro, il regolare e lâirregolare, il formale e lâinformale; passaggi da cui derivano cospicue opacitĂ e ambiguitĂ delle statistiche sullâoccupazione. Tra il 1992 e il 1994, ad esempio, scomparvero dalle rilevazioni dellâIstat 1.300.000 occupati. Tutti disoccupati? Non proprio. Gran parte...