Vendetta pubblica
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Vendetta pubblica

Il carcere in Italia

Marcello Bortolato, Edoardo Vigna

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  1. 160 pages
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Vendetta pubblica

Il carcere in Italia

Marcello Bortolato, Edoardo Vigna

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«Lasciamoli marcire in carcere!»: dietro questo slogan – che tanto piace a parte dell'opinione pubblica e a certi politici in cerca di facili consensi – c'Ăš la negazione del nostro Stato di diritto.

SĂŹ, perchĂ© secondo la Costituzione italiana la pena deve prima di tutto rieducare: chi Ăš in prigione Ăš parte della nostra comunitĂ  e i detenuti, prima o poi, comunque escono. D'altra parte i dati statistici lo dimostrano: in Italia la recidiva degli ex detenuti Ăš record – sette su dieci tornano a delinquere – ma la percentuale precipita all'uno per cento per l'esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare. Evidentemente c'Ăš bisogno di andare esattamente in direzione contraria alla 'vendetta pubblica'.

Un saggio lucido e necessario su un tema scottante e divisivo.

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Informations

Éditeur
Editori Laterza
Année
2020
ISBN
9788858142981

1.
Ritorno ai fondamentali:
la pena secondo la Costituzione

“Devono soffrire, devono pagare per ciĂČ che hanno fatto”. Nel discorso pubblico, come abbiamo visto, nonostante la Costituzione abbia affermato in modo inequivocabile che la pena ha finalitĂ  rieducativa, Ăš ancora consolidata l’idea che invece debba servire – appunto – a una vendetta. Una vendetta pubblica. In realtĂ  oggi la pena non ha un’unica funzione. La teoria giuridica piĂč accreditata, infatti, Ăš quella della sua natura polifunzionale: deve servire, cioĂš, a piĂč cose, e a tutte insieme.
Partiamo proprio da quella che piace tanto al populismo forcaiolo. Non a caso Ăš la funzione piĂč antica, quella propria delle civiltĂ  arcaiche: la funzione retributiva. Insomma, quella di punire e basta. La pena inflitta dallo Stato sostituisce la vendetta privata: non si permette ai singoli cittadini di vendicare il torto subĂŹto, ma se ne attribuisce il potere allo Stato. In quest’ottica la pena Ăš, appunto, una semplice vendetta: pubblica, ma vendetta. Retribuire il male con altro male.
C’ù poi una seconda funzione: chiamiamola special-preventiva. Qui la pena Ăš volta a prevenire il rischio che vengano commessi altri reati proprio da quella persona. Questo approccio nasce dalle teorie positivistiche dell’Ottocento, epoca in cui si era cominciato a scandagliare le cause profonde del reato. Per semplificare, fu allora che si iniziĂČ a ritenere che l’uomo delinque per vari fattori, spesso di natura personale soggettiva, perfino antropologica – Ăš il momento in cui si definiscono le teorie criminologiche di Cesare Lombroso –, oppure sulla base di condizioni socio-familiari. Al di lĂ  della bontĂ  dei ragionamenti, ciĂČ che conta Ăš che allora s’iniziĂČ a sostenere che per prevenire i delitti occorre agire su quelle condizioni. La pena, perciĂČ, non ha piĂč una funzione di retribuzione, ma la sua natura Ăš quella di contenere la pericolositĂ  sociale del singolo individuo agendo sulle cause che la determinano.
Quindi, tanto piĂč un soggetto Ăš pericoloso, tanto piĂč la pena nei suoi confronti dovrĂ  essere elevata e soprattutto duratura, trasformandosi di fatto in misura di sicurezza, cioĂš “di polizia”: finchĂ© non viene meno la sua pericolositĂ  sociale non viene meno la misura. Che quindi Ăš indeterminata, mentre nel caso serva come “retribuzione” non puĂČ che essere determinata: a un danno preciso non puĂČ che corrispondere altrettanto male (retaggio del remotissimo codice babilonese di Hammurabi, un principio fissato quasi quattromila anni fa). Nella prevenzione speciale, invece, bisogna attuare forme di contenimento nei confronti di un soggetto perchĂ© lo si ritiene socialmente pericoloso in base a caratteristiche personologiche oppure sociali: quindi nei suoi confronti l’internamento non cesserĂ  finchĂ© l’individuo non tornerĂ  a essere innocuo.
C’ù poi la terza grande funzione, quella della deterrenza: la prevenzione generale. La pena Ăš rivolta non alla persona del reo, come la prevenzione speciale, particolare, ma alla generalitĂ  dei cittadini, quindi a coloro che ancora non hanno commesso il reato. La pena, minacciando un male, deve fare in modo che tutti gli altri cittadini non siano, per dirla in termini religiosi, “indotti in tentazione”. Deve spaventare la generalitĂ  dei consociati affinchĂ© non commettano reati. In questo caso la pena puĂČ anche essere sproporzionata alla reale offensivitĂ  del comportamento: ciĂČ che conta non Ăš retribuire un male con un male uguale o contrario, ma – se lo scopo Ăš quello di evitare il piĂč possibile che un reato si verifichi – anche solo il rischio puĂČ essere punito con una pena elevatissima.
Infine c’ù l’ultima funzione della pena classica: la difesa sociale, il mero contenimento a scopo di difendere la collettivitĂ  dai soggetti pericolosi che spesso perĂČ si trasforma nella pura esclusione di coloro che vivono ai margini della societĂ , che non si vogliono vedere, con cui non ci si vuole confondere, con forme piĂč o meno legali di “detenzione sociale”.
È chiaro che, di fronte a queste teorie classiche, l’irrompere della funzione rieducativa con l’articolo 27 della Costituzione sia stato una rivoluzione.
Come si ù già detto, nell’ordinamento italiano, la Carta fondamentale della Repubblica ha assegnato alla pena una finalità precisa: quella di rieducare. Ma osserviamo da dove ù arrivato quel principio. È nato in un contesto culturale in cui si pensava – forse in parte ingenuamente – che il reo fosse una persona che o non avesse mai avuto un’educazione o l’avesse perduta. C’erano teorie pedagogiche che consideravano il criminale come un bambino che dovesse essere educato o ri-educato. Una parola, “rieducazione”, che ù stata poi attualizzata e declinata dalla giurisprudenza (soprattutto dalla Corte Costituzionale) in termini di “risocializzazione” o meglio ancora di “reinserimento sociale”: ù a questo, in definitiva, che la pena deve tendere.
Cosa significa tutto questo? Vuol dire che il legislatore puĂČ assegnare alla pena di volta in volta una funzione o retributiva, o piĂč retributiva, o piĂč special-preventiva, o piĂč general-preventiva, ma ciĂČ che conta Ăš che comunque, in tutti i casi, la pena tenda al reinserimento sociale. Un esempio: la normativa introdotta sulla guida in stato di ebbrezza e sul cosiddetto omicidio stradale. Sono state previste, a mero scopo di deterrenza, pene severissime: in realtĂ  si tratta di reati di “mero pericolo”, cioĂš senza danno, benchĂ© sanzionati in maniera durissima, oppure di reati solo colposi (omicidio stradale). Nel caso della guida in stato di ebbrezza si punisce addirittura la mera condotta, anche quando non provoca nessun incidente e ci si mette semplicemente alla guida dopo aver assunto un certo quantitativo di alcol. È evidente: qui la pena non ha nessuna funzione retributiva. Si vuole evitare il piĂč possibile il rischio che succedano incidenti stradali. È un reato di pericolo e la pena qui ha un mero scopo di deterrenza.
Cosa dice la Costituzione? Che va bene anche la prevenzione generale, ma che quella pena, nel momento in cui viene erogata, e tanto piĂč quando viene eseguita (compito della magistratura di sorveglianza), deve avere comunque uno scopo rieducativo. Quindi la pena deve essere utile a reinserire socialmente chi ha commesso un reato.
Non si puĂČ che ripartire da qui, allora. Dalla Costituzione.
L’articolo 27 stabilisce la finalità rieducativa. Una rivoluzione. Pochissime costituzioni al mondo hanno inserito l’esecuzione della pena nel loro testo. In quella inglese si parla di prigione, di diritto di difesa, di diritti dell’imputato, di Habeas Corpus, il principio (tanto citato nei polizieschi) che tutela l’inviolabilità personale e il diritto dell’arrestato di conoscere la causa del suo arresto e di vederla convalidata da un magistrato.
Quella italiana parla proprio di “rieducazione”. PerchĂ©? Intanto Ăš il caso di ricordare che i costituenti erano stati in molti casi detenuti. Proprio cosĂŹ: erano persone che avevano conosciuto il carcere negli anni del fascismo. Nel momento in cui hanno scritto la legge fondamentale, hanno detto: noi che abbiamo provato sulla nostra pelle che cosa Ăš la prigione dobbiamo dire qualcosa sulla pena. E cosĂŹ hanno scritto parole fondamentali. Primo: la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanitĂ . Hanno affermato cioĂš il divieto della pena disumana, il divieto della tortura, che alcuni di loro avevano subĂŹto nelle carceri del regime. Un principio riconosciuto – in seguito – in tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo, da quella dell’Onu alla Convenzione europea.
Poi, perĂČ, si sono sentiti in dovere di orientare lo sguardo verso il futuro. E hanno detto: la pena deve essere utile. Non puĂČ, non deve essere mera retribuzione. Non puĂČ, non deve essere mera prevenzione speciale. Non puĂČ, non deve essere mera deterrenza.
Deve invece servire a qualcosa. La pena deve svolgere la sua funzione nel recupero della persona. Chi subisce la pena, alla fine della pena stessa deve essere possibilmente una persona diversa da quella che era al momento del suo inizio, e tanto piĂč diversa rispetto al momento in cui ha commesso il reato, un tempo che spesso Ăš ormai molto lontano.
Questa ù la grande scommessa del carcere e dell’esecuzione della pena.
Ma per capire come “rieducare” Ăš utile – forse necessario – porsi anche un’altra domanda. PerchĂ© si delinque? Quella che riguarda l’eziologia del reato Ăš una domanda complessa, ma dal percorso della risposta discendono varie conseguenze. Si commette un crimine perchĂ© si ha il libero arbitrio di scegliere di fare il male o lo si sceglie (anche) perchĂ© si Ăš nati in un certo quartiere, in un certo ambiente, in una certa famiglia, sotto un certo modello genitoriale?
L’ottica della prima grande riforma dell’ordinamento penitenziario della Repubblica Italiana, approvata nel 1975, con cui si cambiava il regolamento in vigore dall’epoca fascista (1931), era questa: causa del reato ù la deprivazione sociale. Erano gli anni Settanta, anni di grande sviluppo del welfare. Visto che la Costituzione aveva fissato il principio che il reo va riabilitato, lo Stato decise di conseguenza di investire creando gli assistenti sociali e la magistratura di sorveglianza.
E dunque, se si delinque perchĂ© socialmente deprivati, nel momento in cui lo Stato interviene attraverso la pena e i suoi strumenti, l’aspettativa Ăš che, finita la pena, saranno state rimosse quelle cause, e il condannato non tornerĂ  piĂč al reato.
Se invece si ammette solo il libero arbitrio, la pena non puĂČ che essere retributiva. Chi ha scelto il male, male avrĂ . È una sua responsabilitĂ  e soprattutto Ăš stata una sua libera scelta. Responsabilmente accetterĂ  anche le conseguenze del male commesso: il carcere, la sofferenza, la privazione della libertĂ . L’ottica precedente all’articolo 27 era stata proprio quella dell’emenda: si espia la pena perchĂ© ci si deve redimere nel proprio animo. La matrice Ăš evidentemente religiosa: chi pecca deve purgarsi, alla fine di questa lunga sofferenza forse cambierĂ  e, se si sarĂ  emendato, sarĂ  una persona diversa.
Soffermiamoci su questo percorso logico: Ăš quello che ha prodotto la pena espiata in celle singole sul modello religioso – appunto – del convento. In realtĂ , perĂČ, anteriormente all’idea del carcere moderno, si era sviluppata in Olanda, all’inizio del Cinquecento, l’idea della “casa-lavoro”. Con l’inurbamento, conseguenza della prima industrializzazione, dalle campagne era arrivata nelle cittĂ  dell’Europa del Nord un’enorme massa di contadini affamati, fra carestie e pestilenze. Non tutti riuscivano a trovare lavoro: vagabondi, oziosi, violenti d’ogni specie delinquevano nei centri urbani. Sorse la necessitĂ  di contenere in qualche modo questa folla per evitare che le grandi cittĂ  europee diventassero invivibili. Tra le altre, Amsterdam, appunto. E lĂŹ vennero create le case-lavoro indirizzate a fornire un’occupazione. Con un’idea in piĂč. Chi aveva commesso un reato poteva essere a buon titolo costretto a fare qualcosa che non avrebbe voluto fare: lavorare.
Nacque così il concetto del lavoro forzato “moderno” (un’idea antica, di stampo schiavistico, che esisteva già al tempo dei romani): si venne infatti a creare un’enorme forza lavoro da utilizzare per le prime fabbriche. Le grandi manifatture del Seicento vennero in parte sostenute proprio dal lavoro dei criminali: non di persone che liberamente sceglievano di lavorare, ma di gente che veniva messa a faticare come punizione per aver commesso un reato. Forza lavoro, tra l’altro, molto a buon mercato, quasi gratis, visto che bastava dar loro solo il necessario per sostenersi. Un pezzo di pane, una coperta.
Nessuno, ancora, pensava di farli dormire in una cella tutto il giorno e di non farli uscire mai all’esterno.
Quando nasce allora il carcere attuale, con le celle? Nel Settecento, in Inghilterra, quando si Ăš cominciato a dire: attenzione, il male Ăš frutto di una libera scelta. Con il liberalismo, si Ăš poi affermata l’idea che non si puĂČ costringere nessuno a fare qualcosa contro la sua volontĂ : oggi la vediamo espressa proprio nel divieto, presente in tutte le dichiarazioni di diritti dell’uomo, dei lavori forzati. Io ti posso obbligare a stare in una cella e subire la pena, non ti posso forzare a lavorare.
Ne conseguì che l’unico modo per sanzionare chi compiva un delitto fosse di fargli espiare una pena. E quale miglior sistema di quello utilizzato dai monaci che se ne stavano soli nelle celle, a pane e acqua, per purificarsi dal peccato? È lì che fa la sua apparizione il carcere cellulare. Lo stesso concetto di cella, proprio delle celle dei monaci, prende corpo in quel momento.
Nell’Ottocento il carcere era simile al convento, con le stesse regole di vita: pranzo in refettorio, l’attività della giornata suddivisa secondo le ore – quelle in cui si poteva uscire a prendere l’aria, quelle in cui si doveva pregare – e così via. Qualcosa che ritorna anche oggi. Ma il detenuto era lasciato in un certo senso abbandonato: non gli si davano strumenti per lavorare e tanto meno per studiare.
Quando nasce il Positivismo fondato sulle nuove scoperte scientifiche, ci si comincia a chiedere: perchĂ© una persona delinque? Le risposte sono varie: perchĂ© Ăš nato povero, oppure perchĂ© ha una malattia. Addirittura c’ù chi arriva a dire perchĂ© c’ù sempre un difetto a livello cerebrale... Per evitare che commettano reati, la risposta viene sviluppata cosĂŹ: studiamo il reo, vediamo dove si puĂČ agire per impe...

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