Sherlock Holmes. La casa del male (Il Giallo Mondadori Sherlock)
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Sherlock Holmes. La casa del male (Il Giallo Mondadori Sherlock)

Gretchen Altabef

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Sherlock Holmes. La casa del male (Il Giallo Mondadori Sherlock)

Gretchen Altabef

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Per tre anni Sherlock Holmes Ăš sfuggito alla vendetta dei sicari di Moriarty. Gli hanno dato la caccia in ogni angolo del mondo per fargli pagare l'annientamento del loro capo, finchĂ© il grande investigatore ha trovato rifugio oltreoceano. In attesa che le acque si calmino, sotto la falsa identitĂ  del norvegese professor Sigerson insegna presso il college femminile di una cittadina sul fiume Hudson, a nord di New York. Ma Ăš destino che debba ben presto imbattersi in un caso degno della sua attenzione. Inserendosi nella comunitĂ  locale, vessata dalle intimidazioni della criminalitĂ  organizzata che allunga i tentacoli sulle attivitĂ  commerciali, viene a sapere della scomparsa della moglie di un malavitoso. Costui sembra essersene sbarazzato e la famiglia di lei la sta cercando disperatamente. La donna potrebbe essere stata uccisa, e tuttavia la veritĂ  che emerge Ăš forse ancora piĂč atroce. Dunque il segugio londinese, seppur in incognito e lontanissimo da Baker Street, non potrĂ  esimersi dall'indagare sugli orrori che si celano dietro la facciata rispettabile di un ospedale psichiatrico. PiĂč che un istituto di igiene mentale, uno spaventoso girone dantesco.

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Informations

Éditeur
Mondadori
Année
2022
ISBN
9788835717560
1

Avvertimento a New York

“Fari, ragazzo mio. Segnali luminosi del futuro! Capsule contenenti ciascuna centinaia di piccoli semi vividi, da cui sorgerĂ  la piĂč saggia e migliore Inghilterra dell’avvenire.”
JOHN H. WATSON, Il patto navale
Il professor Moriarty aveva trionfato dall’aldilà. Incalzato senza respiro dai suoi letali sicari, sotto quella pressione avevo finito per ridurmi tale e quale a loro. Per quasi tre anni l’augusto detective Sherlock Holmes era stato morto e sepolto, cancellato dagli annali e dalla memoria del mondo. Ma, proprio come il “Napoleone del crimine”, anche la memoria poteva ingannare.
Approdai a New York e diedi inizio alla mia ricerca nella biblioteca pubblica della Quinta Strada. Dopo cena, gustandomi la pipa, trovai sul “Times” i dettagli che mi servivano. Taylor, rettore del Vassar College, avrebbe tenuto una conferenza quella sera al Murray Hill Hotel, fra Park Avenue e la Quarantesima, a meno di un chilometro da lì. Feci in modo di trovarmi al pub e, somministrata al barista una mancia, di venirgli presentato.
— Ecco, quello ù il rettore — disse con un cenno del capo.
Poi portĂČ al tavolo di Taylor la consumazione e nel farlo gli porse il mio biglietto da visita. Taylor mi invitĂČ con un gesto.
— È un piacere, rettore — gli dissi porgendogli la mano. — La reputazione del Vassar College sta avendo una grande risonanza, anche se non priva di voci critiche.
— Si sieda qui con me, Sigerson. Ho appena letto quel suo magnifico articolo. — E scostĂČ per me una sedia dal tavolo. — Lei non Ăš certo una persona mondana. Che cosa fa qui?
— Sono in convalescenza dopo un incidente — risposi. — Quasi tutte le mie conferenze e lezioni hanno luogo di necessità presso l’Istituto norvegese delle scienze di Trondheim, ma ora come ora la mia priorità ù un posto tranquillo dove poter recuperare le forze per uno o due mesi. Ha qualche consiglio da darmi?
Taylor rimase ad ascoltare intento e perplesso: chiaramente mi stava valutando. Poi la sua espressione si rasserenĂČ. — In cittĂ  non troverĂ  di sicuro la quiete che ricerca. Il nome “Poughkeepsie” viene dall’espressione degli indiani Pequot apo-keep, che significa “porto sicuro”. Ritengo che il santuario da lei agognato possa essere proprio il Vassar College. Pensi che manna saranno le sue avventurose esplorazioni per le nostre studentesse di antropologia! Che ne dice, professore?
Presi il treno di mezzanotte sullo scorcio finale dell’inverno di quel 1894 per recarmi a Poughkeepsie, nello Stato di New York. A sette giorni, due ore e trentadue minuti da casa. Sul treno mi trovai solo; all’ultima fermata scesi sulla piattaforma e scoppiai a ridere. Mi avvolgeva una nebbia densissima che veniva dal fiume Hudson e che faceva del suo meglio per oscurare lampioni a gas non piĂč vivaci di un fuoco fatuo. Mi rilassai per un attimo in quel consolante anonimato, contemplando la locomotiva che entrava in deposito con un ultimo sbuffo di vapore bollente che andava a perdersi nella nebbia fredda e bagnata. Aspirai dalla sigaretta e notai il forte crepitio del ghiaccio del fiume che si spaccava, il che mi consentĂŹ di valutare a che distanza mi trovassi. Non vidi, ma udii chiaramente, attraverso il sipario mobile della nebbia, un suono di zoccoli sul selciato e l’odore pulito di cavalli ben tenuti. Feci appena in tempo a tirarmi indietro all’uscire fragoroso di una carrozza da quel denso grigiore, tra fragore di ruote e urla di vetturino. Urlai per fermarla, senza successo. Scomparve nella caligine, accompagnata da qualche stridio di falchi notturni. Pensai che un assassino, lĂŹ, avrebbe potuto fare il colpo e sparire indisturbato.
— Vettura, signore?
Voltai la schiena al fiume, raccolsi i miei bagagli e corsi verso l’apparizione. — Al Vassar College, in Raymond Avenue, grazie.
Un’assenza che non avrebbe dovuto eccedere i sei mesi si era trasformata in un esilio di anni. Agognavo Londra, rivedere Watson e soprattutto Sherlock Holmes. Attraversammo la cittadina buia e addormentata. Due pinnacoli illuminati sorgevano in cima a due colline, separati dal nero della notte come da un braccio di mare. A nord era un precipizio crudamente rischiarato, quasi scavato a coltellate nella nebbia. A sud, la luce di una sommitĂ  piĂč dolce sfarfallava nella nebbia: fu lĂŹ che la vettura si diresse.
L’enorme complesso del Vassar emerse come una fluttuante cima himalayana. Matthew Vassar si era ispirato nella progettazione al romanico d’epoca napoleonica del Palais des Tuileries, in mattoni rossi. Nondimeno, una volta varcati i cancelli, l’edificio si configurava come un’isola di luce. Scoprii che la maggior parte dell’università era radunata in cinque unità edilizie di cinque piani, insolitamente collegate una all’altra. Il padiglione centrale combinava quanto ci si poteva aspettare di trovare in un’università inglese: aule, biblioteca, pinacoteca, cappella, mensa, sale di ritrovo, uffici e l’appartamento del rettore Taylor. I padiglioni esterni erano adibiti agli alloggi dei professori, dove sarei stato anch’io per le successive sei settimane. Le ali che univano i cinque corpi principali erano destinate agli alloggi delle studentesse, organizzati in appartamenti di quattro locali ciascuno. Il college si trovava sprofondato in un frutteto che sarebbe presto fiorito, in mezzo ad ampi prati ondulati. In altri edifici di questa rivoluzionaria istituzione erano ospitati l’osservatorio astronomico, il laboratorio dei fratelli Vassar e il museo. Lo Smith Building, di recente costruzione, accoglieva mille studentesse. Le concezioni di Vassar stavano prendendo piede: il suo college era stato il primo negli Stati Uniti a offrire regolari corsi di laurea alle donne, parificati a quelli di Oxford e di Yale.
Adottai la spavalderia del mio antico alias europeo. L’esploratore dell’Istituto norvegese delle scienze, professor Sigerson, fu ricevuto con calore dai colleghi. Fui dapprima condotto nel mio appartamento, situato nel secondo padiglione al pianterreno, quindi cenai sul tardi con un eccellente sformato d’agnello nel salotto della facoltà. Fra un brindisi e l’altro alle mie imprese di esploratore, ebbi modo di apprezzare il vino dello Stato di New York.
Il mattino dopo mi svegliai riposato eppure piuttosto disorientato. Sbattendo le palpebre nell’azzurritĂ  del mattino, allungai una mano non alla pistola, ma alle sigarette e ai fiammiferi, e aspirai una lunga boccata di fumo quale primo respiro della giornata, poi indugiai pigramente a letto, finendo la sigaretta. Quindi mi alzai, la spensi, mi lavai, mi asciugai e mi pettinai. Baffi e barba squadrata erano in ordine. Avevo almeno un completo pronto e per il resto mi sarei recato da un sarto in cittĂ . Mi passai le dita fra i capelli lunghi. La piĂč banale toilette, dopo tanti anni di vita selvatica, mi pareva un miracolo, a cui anelavo come alla cocaina.
Ispezionai le mie ferite nello specchio dell’armadio. I punti che il dottor Pointon mi aveva applicato sulla nave avevano tenuto bene. Pulii la sutura, non trovai segni d’infezione e rifeci la fasciatura. Poi mi occupai della pistola e la caricai, indossai come richiesto il frac e misi l’arma nella tasca interna. Il taccuino lo lasciai nel cassetto. Inoltre indossai delle insegne accademiche che mi erano state prestate e poi, con il bastone nella mano destra e la sinistra stretta a pugno dietro la schiena, mi avviai alla mia prima colazione al Vassar canticchiando l’“Aria dei gioielli” del Faust.
Era una radiosa mattina di sabato, 24 febbraio, e il sole accendeva le alte finestre del Vassar e intiepidiva l’aria, dissipando gli ultimi brandelli di nebbia. New York, come Parigi, era troppo formidabilmente grande per poter essere tenuta sotto controllo e vi sarei stato preda di chiunque conoscesse bene la città. Di contro, il fatto che il campus del Vassar fosse così fuori mano era per me la sua principale attrattiva. La sala da pranzo dei professori era situata al pianterreno. Le finestre, sui due lati, davano sui vialetti degli edifici delle studentesse, che ricordavano quelli di un villaggio, oppure su pini, magnolie, salici e querce e sui viali lastricati che conducevano all’osservatorio e al laboratorio. Le scure pannellature delle pareti e del soffitto, e il legno parimenti scuro di tavoli e sedie, alla luce delle lampade a gas, delle candele e del fuoco ardente nel camino, riscaldarono il mio vecchio cuore di londinese.
Il rettore Taylor mi fece cenno di raggiungerlo al suo tavolo presso una delle finestre e subito mi versĂČ una tazza di caffĂš, quindi mi si rivolse a bassa voce. — Sigerson, ho una ragione particolare per volerla qui al Vassar.
Aguzzai le orecchie.
— Il suo pragmatico approccio etnografico e il fatto che qui nessuno la conosca la renderebbero un osservatore distaccato e al tempo stesso esperto di un certo spregevole fenomeno. Ma non da questo dipende il suo status di professore: si senta pienamente libero di rifiutare la mia proposta.
— La prego, Taylor, mi dica quello che ha in mente — replicai, poi chiusi gli occhi e mi disposi ad ascoltarlo in atteggiamento meditativo.
— Il direttore del birrificio Vassar ù stato minacciato da uno sgradevole individuo dedito ad attività inaudite nella nostra onesta Poughkeepsie. Vorrei che valutasse la situazione e me ne riferisse; tra noi due, sommando la nostra esperienza, potremmo venirne a capo. Le interessa?
— La ringrazio della fiducia che ripone in me, e sarĂČ lieto di darle una mano come potrĂČ â€” risposi.
Tornai quindi al tavolo dei grecisti e vidi il titolo in prima pagina del “Poughkeepsie Daily Eagle”: L’ICE YACHT CLUB DI POUGHKEEPSIE PRONTO ALLA REGATA NAZIONALE. La colazione risultĂČ proficua: ne ricavai il nome del vincitore della regata dell’anno prima e quelli del miglior barbiere e del miglior sarto in cittĂ . Un articolo nelle pagine interne annunciava: I FRATELLI HOUDINI! DIRETTAMENTE DALL’ESPOSIZIONE MONDIALE COLOMBIANA. Il celebre duo si sarebbe esibito per tutta quella settimana alla Collingwood Opera House di Poughkeepsie. Cercai poi qualche cronaca di Londra.
Dopo aver attraversato l’Atlantico per risvegliarmi in un paese nuovo, quando la vettura mi lasciĂČ in Main Street mi trovai circondato da uomini con lunghi spolverini, cappelli a cilindro e bombette, fra il ticchettio rassicurante e civilizzato dei bastoni da passeggio, richiami e lazzi ad alta voce fra commensali di fabbrica e l’allegria piĂč contenuta di donne strette nei busti, con le mani inguantate. Poughkeepsie, come vidi, era una florida cittadina industriale di medie dimensioni, che doveva la sua prosperitĂ  ai cantieri navali, a diverse fabbriche e alle birrerie, attivitĂ  favorite dalla sua posizione privilegiata sul fiume Hudson.
Il luogo deputato a raccogliere i pettegolezzi migliori e così farsi un’idea realistica del luogo era ovviamente la bottega del barbiere. Attraversai Main Street e sbirciai nella vetrina della barberia Saunders, gremita di una clientela variopinta e apparentemente di ottimo umore. Al Vassar mi erano state raccomandate le forbici di Harold. Quando entrai, Harold stava tenendo banco in una seria discussione che impegnava tutti gli astanti. La fama del mio alias mi costrinse ad annuire ai signori presenti. Appesi cappotto e cappello.
— Professor Sigerson, venga, venga, si sieda
 Una spuntatina?
— Sì, barba e baffi, ma senza accorciarli. — Con una mano davanti alla bocca aggiunsi: — Voglio anche che me li ossigeni.
Harold mi avvolse al collo un asciugamano riscaldato, ramazzĂČ i capelli sul pavimento intorno alla poltrona e lavĂČ forbici e pettini, quindi mi tolse con delicatezza l’asciugamano. Poi, anche lui riparando la bocca con la mano, mi disse: — Come desidera, e senza costi aggiuntivi. Ci vedremo tutte le settimane per una regolata.
Annuii, dopodiché il barbiere mi cosparse i capelli e la barba di un fetido linimento, quindi mi avvolse il capo in un asciugamano.
Intanto continuava il suo discorso. — È stato Pinto, l’italiano. Sta cercando di portare la mafia nella nostra Poughkeepsie.
— La mafia? — disse un altro barbiere.
— Sì, scommesse e una certa “assicurazione”.
— Nessuna delle due cose ù illegale — osservai.
— È vero, Sigerson. Ma ù il modo in cui costui riscuote i suoi debiti. Ha picchiato e minacciato con il coltello il vecchio Ferguson. — A queste parole, tutti gli sguardi si volsero verso di lui.
— E Ferguson ù andato alla polizia? Da quanto dura questa faccenda?
— Ferguson Ăš venuto qui a farsi medicare le ferite appena due settimane fa. È stato il primo. No, alla polizia non ha voluto dire niente. — Harold rimosse l’asciugamano e con questo mi tolse da barba e capelli il grosso del linimento. — È tipico di quelle organizzazioni scegliere con cura le vittime e assicurarsi che non richiedano la protezione della legge, come sarebbe loro diritto fare. Vengono indotte a temere proprio l’istituzione che era solita garantire la giustizia nella loro vita. Sistema spaventoso, ma efficace. — Si era intanto messo al lavoro sulla mia barba. — Quel delinquente Ăš venuto anche da me, poco tempo fa, per vendermi la sua assicurazione, ma ha ricevuto il trattamento che merita, da quel rifiuto umano che Ăš: l’ho buttato fuori a colpi di scopa. Mi arriva qui. — E con il rasoio indicĂČ il proprio torace. La bottega risuonĂČ di risate.
— Quando? Pinto era solo o con altri?
— È sgusciato dentro alla chiusura, ieri, mentre stavo spazzando. Jamison — indicĂČ il socio — se n’era giĂ  andato.
— La tiene d’occhio, sicuramente. FinchĂ© la questione non sarĂ  risolta, le consiglio di non restare qui da solo quando chiude.
— Tu che ne dici, Jay? — disse Harold. Tutti si girarono a guardare Jamison.
— Sono con te! Che cosa vuoi che faccia, quello? Sapevi che sta vendendo casa? Me l’ha detto Jerry, lo stavo radendo stamattina. Pinto ha messo fuori un cartello di “Vendesi”.
— Allora forse si toglierà spontaneamente dai piedi. La polizia che cos’ha detto?
— Niente. “Torna quando avrai qualcosa di concreto” mi hanno detto.
— Che idioti — osservai. — Ma lei ha detto loro di Ferguson, e di come si comporta Pinto?
— Sì. Vorrei che mi ...

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