Capitolo 1
Le aziende familiari non sono come sembrano
In Italia ci capita di essere affetti da un particolare e acuto tipo di provincialismo: siamo così smaniosi nel voler applicare le mode degli altri grandi paesi che ogni tanto riusciamo a reimportare ciò che noi stessi abbiamo inventato, esportato e insegnato a tutto il mondo. Ne sono un esempio: le banche, il cinema e gli acceleratori di start up (oggi si chiamano così, ma sono i nostri distretti industriali nella loro infanzia). Ci critichiamo l’ombelico, mentre il mondo ci guarda con ammirazione, solo non capisce perché abbiamo sempre la testa bassa.
The Economist, sobrio, ultraliberale e noto per il suo inglese e sottile piacere a fustigare l’Italia ha dedicato negli ultimi anni una serie di articoli e approfondimenti alle imprese familiari, riconoscendo all’Italia di essere uno dei grandi paesi in cui il capitalismo familiare fiorisce.
In questa fioritura non sono mancati casi patologici, ma non ha senso guardare all’albero che cade e non alla foresta. È possibile che un pezzo marcio di capitalismo abbia fossilizzato alcuni settori industriali per decenni, ma è il mutato contesto macroeconomico che lo spazzerà via: dall’euro alla vigilanza bancaria europea. Intanto gli imprenditori che hanno portato i loro prodotti all’estero quando le svalutazioni della lira li aiutavano, continuano a farlo oggi, in un “mondo piatto” dove i vantaggi li hanno altri.
Mentre fuori dall’Italia ci elogiano per le nostre aziende familiari, in Italia queste sono accompagnate da alcuni miti di cui moltissima gente, giornalisti, esperti, banchieri (e bancari) ecc., sono assolutamente certi. Prima di discutere di capitalismo familiare e di manager di aziende di famiglia è necessario affrontarli uno a uno.
Il primo mito è “le aziende familiari sono piccole”. Il 60% delle aziende quotate in Italia e il 33% di quelle quotate negli USA sono a controllo familiare. Wal Mart, la più grande azienda del mondo per fatturato, è stata fondata da Sam Walton e ancora oggi detenutadai suoi discendenti, e non si tratta di un caso; nella grande distribuzione sono familiari Auchan, Esselunga, IKEA, Burger King, Benetton, Zara.
Sono aziende familiari: Bacardi, Bombardier, Danone, Oetker/Cameo, Sumitomo, Banco Sanatander, Samsung, El Corte Inglés, NewsCorp/Sky, McGraw-Hill, New York Times, Motorola, Neiman Marcus, ABInBev (Stella Artois,Beck’s, Budweiser, Löwenbräu, Stella Artois).
Delle dieci più grandi aziende automobilistiche mondiali otto sono familiari. Le famiglie Quandt (BMW), Toyoda, Ford, Agnelli (FCA), Porsche/Piech (Volkswagen) stanno guidando giganti dell’industria durante la più grande crisi economica che il capitalismo abbia conosciuto, e in molti casi sono tornati alla presidenza della società per rafforzare il legame tra azienda e famiglia. I simboli del capitalismo diffuso, GM e Chrysler, non hanno resistito che pochi mesi alla crisi e oggi nel settore, oltre le famiglie, l’unico azionista sono i governi che possiedono, o hanno posseduto, quote rilevanti di Renault, GM e dal 2014 Peugeot.
Il secondo mito è: “dalla tuta alla tuta in tre generazioni” o, in versione italiana, “la prima generazione crea, la seconda mantiene, la terza distrugge”; con termini diversi il concetto si ritrova in moltissime lingue e culture. Una generazione ha una durata tra i 25 e i 30 anni, quindi, tre generazioni sommano circa 75/90 anni. La speranza di vita di una multinazionale quotata al NYSE (la borsa di New York) è tra i 40/50 anni. Questo significa che, mediamente, le aziende familiari sono più longeve delle grandi aziende quotate, che hanno dalla loro il vantaggio di accedere ad un mercato finanziario efficiente e una dimensione che dovrebbe metterle al riparo dai rischi del mercato.
Il terzo mito è “guadagnano meno”. Sul punto accademici, analisti e investitori dibattono da decenni, questo sta a dimostrare che avere una posizione netta non è possibile. Quello che è pacificamente dimostrato, e in fondo intuitivo per il tipo di azionista che le possiede, è che le aziende familiari distribuiscono più dividendi.
Il quarto mito è: “non hanno capitali” o nella versione giornalistica “sono capitalisti senza capitali”. Il punto non è quanti soldi hai, ma se le azioni si devono “contare” o “pesare”. Il mondo finanziario è pieno di esempi, metodi e strutture per fare in modo che le azioni vengano “pesate”, tutti esistenti e in un qualche modo accettati dal mercato: piramidi di controllo, categorie di azioni con diritti diversi, premi di fedeltà ecc. La cosa interessante è notare come il provincialismo italiano abbia fatto diventare la nostra regolamentazione più rigida e ostile a questi tipi di controllo rispetto ad altre piazze finanziarie più evolute, Olanda, UK, USA, o semplicemente più concrete, Francia e Germania.
Da quando la rivoluzione industriale ha diviso il ruolo dell’azionista dal ruolo dell’imprenditore operativo si è generato un rapporto nuovo tra chi mette i soldi e non ha un ruolo nella gestione e chi, mettendo o meno i soldi, ha un ruolo nella gestione. Molta della teoria finanziaria nata dall’Agency Theory mira a regolare questo rapporto e ad allineare gli interessi dei manager e dei proprietari. Il capitalismo familiare prevede una terza figura: l’azionista di maggioranza, la famiglia che ha, più del singolo piccolo investitore, interesse a gestire e guidare il manager.
Anche quando la famiglia possiede una quota piccola dell’azienda, ma questa quota rappresenta una parte rilevante della ricchezza della famiglia, essa rappresenta una garanzia per gli altri investitori. GM è fallita con soci che possedevano anche il 3/5% dell’azienda, ma GM rappresentava l’1% del patrimonio del socio. La famiglia Ford possiede meno del 6% della Ford Motor Company (in buona parte attraverso una fondazione costituita da Henry Ford I), ma questo 6% rappresenta buona parte della ricchezza e del motivo di stare in affari della famiglia; Bill è il presidente della Ford e quando ha visto arrivare la crisi la famiglia ha fatto una riunione plenaria, si è chiesta se vendere l’azienda o rimanerci attaccata; ha deciso per la seconda opzione e ha salvato la Ford dal fallimento, rinunciando agli aiuti del governo americano.
“Contare le azioni” è stato uno dei cavalli di battaglia delle banche d’affari che gestendo grandi fondi di investimento, con soldi altrui, hanno fatto leva sulla loro forza finanziaria. È interessante notare che Goldman Sachs, tra le migliori se non la migliore banca d’affari, quando si è quotata ha stabilito che i partner avrebbero continuato ad avere un ruolo chiave nel controllo della società e avrebbero avuto diritto a metà dei profitti generati.
È molto probabile che la crisi attuale attutirà di molto l’arroganza finanziaria basata sulla mera quantità di denaro che si può gestire; una forte corrente di pensiero è addirittura arrivata a mettere in discussione la società ad azionariato diffuso come strumento utile del capitalismo.
Il quinto mito è: non sono meritocratiche. Ogni imprenditore di seconda generazione è visto, in Italia, come un figlio di papà, il fatto che le qualità dell’imprenditore possano essere favorite, trasferite, insegnate con l’esempio sembra non essere concepibile nella nostra cultura. Non che gli imprenditori di prima generazione, quelli che si son fatti da soli, siano poi molto più tenuti in conto della cultura italiana comune e questo, se può essere di consolazione alle generazioni che li seguono, è un gran male per il nostro paese e per il suo sviluppo. Il punto è molto semplice: ogni famiglia corre il rischio di nominare alla guida dell’azienda un incapace, di questo ne pagheranno le conseguenze gli altri azionisti (quando ci sono), i clienti ma soprattutto i dipendenti; la famiglia stessa, però, pagherà il conto vedendo distrutta la sua ricchezza. Le aziende familiari non sono più o meno meritocratiche delle altre aziende, sono, però, aziende in cui l’azionista principale paga di tasca sua questa mancanza di meritocrazia.
Il sesto, e ultimo, mito è: “sono una specie tipicamente italiana e vecchia”. Come detto sopra sono aziende familiari: Bacardi, Bombardier, Danone, Oetker/Cameo, Sumitomo, Banco Sanatander, Samsung, El Corte Inglés, NewsCorp/Sky, McGraw-Hill, New York Times, Motorola, Neiman Marcus, ABInBev (Stella Artois,Beck’s, Budweiser, Löwenbräu, Stella Artois); e la lista è puramente esemplificativa. Inoltre il Brasile, l’India, la Cina sono economie basate sul capitalismo familiare e non proprio le meno significative al mondo.
Il Capitalismo familiare è stato il sistema con cui si sono fatti gli affari da sempre, solo negli ultimi trent’anni, governati dal sistema finanziario, le cose sono sembrate cambiare. In questi anni di crisi, con la ritirata delle grandi banche d’affari e del sistema della finanza, le famiglie hanno ricominciato a tessere relazioni per fare affari insieme.
Capitolo 2
Dal singolo imprenditore alla famiglia imprenditoriale
Tutto quello che è stato scritto sul capitalismo fami...