I. Le rivoluzioni democratiche del 1989
Non è sempre coll’andare di male in peggio, che si cade nelle rivoluzioni. Avviene più spesso che un popolo, dopo aver sopportato senza lagnarsi, e quasi con indifferenza, le leggi più dure, le respinga violentemente quando il peso ne diventa meno grave. Il regime abbattuto da una rivoluzione vale, quasi sempre, meglio di quello che lo ha immediatamente preceduto, e l’esperienza ci insegna che il momento più pericoloso per un cattivo governo è, di solito, quello in cui esso comincia a riformarsi.
Alexis de Tocqueville, L’Ancien Régime e la Rivoluzione (1856)
L’invenzione democratica, ai nostri giorni, consiste in tutte le proteste, in tutte le rivolte provenienti dall’Est che ne restituiscono il senso. Sono esse a ricordarci che la democrazia non è, essenzialmente, borghese. E allo stesso tempo queste rivolte ci insegnano le fragilità, i fallimenti, le contraddizioni di un tipo di Stato che a un certo punto – forse a lunghissimo termine – cederà sotto un urto rivoluzionario.
Claude Lefort, L’Invention démocratique (1981)
Sarà più difficile per noi abbattere il muro che abbiano in testa che per una impresa demolitrice abbattere quello vero.
Peter Schneider, Il saltatore del muro (1982)
La scena si svolge al Castello di Praga il 17 novembre 1999. Intorno a Václav Havel, per commemorare il decimo anniversario della fine del comunismo in Europa dell’Est, si sono ritrovati i principali protagonisti politici del 1989: George Bush, Margaret Thatcher, Helmut Kohl, Michail Gorbačëv e Lech Wałęsa1. La celebrazione si trasforma rapidamente in un dibattito sul tema: a chi spetta il merito maggiore di quell’evento? Due elementi stridono con l’atmosfera che si respirava all’indomani della Rivoluzione di velluto: l’eclisse degli attori locali a favore di quelli internazionali e l’eclisse di Gorbačëv a vantaggio dei decisori occidentali. Il presidente Bush pone l’accento sul contributo decisivo dato dagli Stati Uniti alla fine del comunismo e della guerra fredda. Thatcher evoca la «rivoluzione conservatrice» di cui essa stessa fu il simbolo assieme a Ronald Reagan, il mercato e la libera impresa che hanno sconfitto un sistema statalista oppressivo e chiuso. Kohl dà naturalmente rilievo alla riunificazione pacifica ed esemplare della Germania, che prefigurò quella di tutta l’Europa. Wałęsa ricorda ai presenti che non ci sarebbero stati né il 1989 né alcuna riunificazione senza Solidarność, richiamando così il debito della nuova Europa nei confronti della Polonia. Prende infine la parola Gorbačëv, stupendosi del fatto che si parli di vincitori e vinti, quasi a richiamare lo spirito di quella guerra fredda alla quale egli aveva voluto porre termine. Per poi aggiungere, a proposito dell’uscita dei paesi dell’Europa dell’Est dal blocco sovietico: «Ho dato loro la libertà senza chiedere cosa ne avrebbero fatto…».
Per Havel la lezione da trarre (un invito alla modestia per i politologi e per coloro che credono di conoscere le «leggi» di sviluppo delle società) riguardava l’«imprevedibilità della storia»2. Nessuno aveva previsto il 1989, anche se non mancarono specialisti di varie scienze sociali pronti a dimostrare, a posteriori, che la fine del sistema comunista era ineluttabile.
Il dibattito praghese a un decennio dai fatti è rivelatore delle contrastanti percezioni che del 1989 avevano i protagonisti e del modo con cui, con lo scorrere degli anni, questa rilettura sia diventata anche una questione politica. A Est, nell’immediato post-1989 si relativizzava il peso dei fattori internazionali, mettendo l’accento sul moto di liberazione dei popoli. A Ovest si privilegiava la vittoria delle democrazie nella guerra fredda, che permetteva alle dinamiche interne e alle aspirazioni delle «nazioni imprigionate» di esprimersi. Fu ovviamente l’interazione fra i due aspetti – decomposizione del sistema e uscita dalla guerra fredda – che permise l’avvento di un nuovo ordine europeo.
Marx aveva definito il comunismo come la «soluzione dell’enigma della storia». Il 1989 pone coloro che non credono alla «fine della storia» di fronte all’enigma della scomparsa del comunismo.
1. L’inizio della fine…
Il rapido e spettacolare crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est nel 1989 è stato vissuto e resta nella memoria collettiva come una sollevazione pacifica di popoli mossi dall’aspirazione alla libertà e alla sovranità, che ha infranto i muri e fatto vacillare gli apparati totalitari. Le immagini che ne rimangono – diffuse in diretta nella prima rivoluzione ad essere trasmessa dalla televisione – mostrano una folla gioiosa che demolisce pezzo per pezzo il Muro di Berlino, e una volta compiuta l’opera ascoltò il violoncellista Mstislav Rostropovič suonare l’Inno alla gioia. Oppure quella di Praga, che ogni sera si radunava sempre più numerosa piazza San Venceslao, dove Václav Havel, figura emblematica della Rivoluzione di velluto, annunciava che «la storia si è rimessa in marcia» e che «il potere è ritornato al popolo». L’autunno dei popoli del 1989 come un’eco della «primavera dei popoli» del 1848, dunque, più che un «1789 bis» (André Fontaine), anche se l’idea di un contributo est-europeo alle commemorazioni del bicentenario della Rivoluzione francese poteva apparire seducente osservandola da Parigi. La rapidità con cui si diffondono le sollevazioni e il mescolarsi, nell’ispirare i ricongiungimenti, del motivo democratico a quello nazionale, rafforzano tale analogia. Il 1989 reinventa il mito del Popolo che, alla maniera di Jules Michelet, prende in mano il proprio destino.
Una lettura in chiave meno storica del 1989, ma che in fondo va nello stesso senso, mette sul medesimo piano la liberazione dei popoli e l’emancipazione delle società civili. Essa pone l’accento sulla forza crescente dei movimenti sociali in un contesto in cui la disgregazione dell’antico regime apriva nuovi spazi di libertà, permettendo il convergere del dissenso post-1968, eredità delle esperienze e degli insuccessi precedenti, con una nuova generazione contestatrice di studenti, artisti e giovani operai. È il paradigma polacco esteso a tutta l’Europa centrale.
Più che dai dibattiti intellettuali e dalle strategie politiche, l’atteggiamento della «generazione dell’89» era caratterizzato dall’aspirazione all’apertura e dalla distanza, dall’ironia, dalla derisione nei riguardi del regime. La gioventù e gli ambienti «alternativi» sono allo stesso tempo più radicali nelle loro rotture e meno preoccupati dai residui ideologici di un sistema agonizzante. Propriamente parlando, non sono contro il regime, ma a fianco o già oltre. È questo intervento di settori dinamici, e il cambio generazionale, che ritroviamo anche alle manifestazioni dell’«Alternativa arancione» in Polonia, nell’iniziativa degli studenti che hanno dato vita a Fidesz in Ungheria (al quale potevano aderire solo i minori di trentacinque anni), di quelli riuniti intorno alla rivista «Mladina» in Slovenia o nel movimento studentesco ceco la cui manifestazione, il 17 novembre 1989, innescò a Praga la Rivoluzione di velluto, dando l’impronta all’atmosfera e allo spirito del tempo; è per questo che Padraic Kenney ha potuto presentare il 1989 come un «carnevale di rivoluzioni»3. È il 1989 «visto dal basso», con forme di contestazione nuove e mutevoli via via che i limiti della tolleranza ufficiale diventano più sfumati e che la paura si dissolve. Il risveglio di una generazione e quello di una società civile, che si trasformano in attori protagonisti della rivoluzione del 1989.
L’enfasi sull’azione collettiva è essenziale per comprendere la forza e l’imprevedibilità delle dinamiche della mobilitazione avvenuta negli spazi pubblici nazionali e le loro interazioni con i processi transnazionali nei quali il contagio o quello che i politologi chiamano «l’effetto dimostrativo» possono esprimersi in pieno. È una delle chiavi dell’«effetto domino» che ha travolto il comunismo dell’Est europeo nell’autunno del 1989.
I tempi forti e i simboli sono ben noti. A cominciare dal celebre direttore d’orchestra Kurt Masur, figura di spicco dei raduni quotidiani che avvennero nell’ottobre di quell’anno alla Nikolaikirche di Lipsia. Da lì il movimento si propagò verso Dresda e Berlino. A Praga, a novembre, fu Havel ad assurgere a principale drammaturgo di una «rivoluzione di velluto» il cui teatro era la piazza San Venceslao e il cui quartier generale era un teatro dal nome predestinato: Lanterna magica. In queste rivoluzioni, soprattutto nella fase finale, si coglieva una dimensione festosa, e vi erano ampiamente rappresentati intellettuali, artisti e musicisti. Ciò fa senza dubbio parte della cultura della contestazione e del vissuto collettivo che ha caratterizzato la fine pacifica di due fra le più dure dittature comuniste. È la crescente forza delle mobilitazioni a indurre le autorità della Germania orientale a fare concessioni, e lo stesso avviene a Praga, dove il regime viene accusato di negoziare con il Forum civico. Fra una sessione di negoziati e l’altra, il braccio di ferro si svolge per strada, fra un potere in decomposizione e una società che si sta risvegliando, rendendo obsoleti gli accordi strappati solo qualche giorno prima. Fra il primo negoziato del 26 novembre e il 10 dicembre, data delle dimissioni del presidente della Repubblica Gustav Husák, le mobilitazioni di piazza, che culminano in una manifestazione di 750000 persone, fanno precipitare la situazione. A differenza dell’esempio polacco, la «tavola rotonda» cecoslovacca si riunisce sotto la formidabile pressione della piazza, che assicura un esito positivo al negoziato e trascina i rappresentanti del Forum civico a formulare rivendicazioni sempre più audaci4: la libertà di espressione e di associazione, un governo a maggioranza non comunista, e infine le dimissioni del presidente Husák. Partiti per ultimi, i cecoslovacchi si ritrovano in breve tempo in prima fila nel cambiamento del regime.
Adam Roberts, che ha posto l’Europa dell’Est al centro di uno studio comparativo dei movimenti di «resistenza civile», ritiene che «la resistenza civile fu uno dei fattori che fra il 1989 e il 1991 mise fine al potere del partito comunista in numerosi paesi, e attraverso ciò alla guerra fredda»5. La resistenza civile, secondo la definizione che ne dà questo studioso, «opera mediante diversi meccanismi di pressione, aumentando il costo che l’avversario deve sostenere per perseguire una determinata linea politica, indebolendone la capacità di attuarla o anche affossando completamente le sue fonti di legittimazione e di potere interno o internazionale. Un obiettivo di numerose campagne consiste nel provocare dissenso e defezioni nel regime dell’avversario e nella sua base».
Tuttavia questa presentazione partecipe di una rivoluzione libertaria centrata sugli attori non dispensa da un’analisi del contesto e, inoltre, degli aspetti strutturali e congiunturali della grande svolta, di questo «episodio decisivo»6 (Ziblatt) col quale la storia cambia radicalmente. E il riferimento alle «rivoluzioni di velluto» merita di essere relativizzato in diversi punti. Innanzi tutto i paesi che hanno davvero conosciuto una breve rivoluzione «carnevalesca», come Berlino e Praga, erano il fanalino di coda. Ma la felice conclusione e l’immagine degli scioperi di Épinal non dovrebbero essere confusi con la dinamica profonda con cui si attuò il passaggio di potere negoziato fra i rappresentanti del regime comunista e quelli dell’opposizione democratica7.
Se infatti si mette l’accento su questa dinamica interna degli sconvolgimenti del 1989, allora bisogna innanzi tutto puntare i riflettori su Varsavia e Budapest. Perché proprio da lì prese avvio lo smantellamento dei fondamenti del vecchio regime comunista, mediante un’interazione fra la decomposizione delle istituzioni, la pressione della società e i dietrofront o le fughe in avanti dell’ala riformista del partito. Fu un processo lento, che conobbe una forte accelerazione nel 1989, ma rimase incentrato su una transizione negoziata: la tavola rotonda a Varsavia nel febbraio del 1989 era senza dubbio meno spettacolare della folla assembrata davanti alla Porta di Brandeburgo a novembre, ma ai polacchi piace a buon diritto ricordare che la caduta del Muro non avrebbe avuto luogo senza il preventivo smantellamento del potere comunista nel loro paese.
L’accelerazione della storia avvenuta nel 1989 fu allora riassunta dalla formula di Timothy Garton Ash: «Polonia dieci anni, Ungheria dieci mesi, Ddr dieci settimane, Cecoslovacchia dieci giorni». E si potrebbe proseguire sulla stessa linea: Romania dieci ore, Albania dieci minuti… La rapidità e la simultaneità furono i due aspetti caratterizzanti della straordinaria accelerazione della storia nel 1989.
Ma quando è cominciato l’inizio della fine? Nel 1980 con Solidarność, come suggerisce la formula citata? Nel 1968 con la primavera di Praga, se si assume come fattore decisivo l’esaurimento dell’ideologia e si considera l’influenza che quella esperienza avrebbe avuto vent’anni più tardi su Gorbačëv e sul suo entourage? Oppure bisogna risalire al 1956, con la rivoluzione ungherese che inaugurò l’era delle fratture interne al blocco comunista? Sono rari coloro che in Europa centrale fanno riferimento alla rivolta degli operai di Berlino del 1953, perché quell’evento non ebbe poi un seguito in un movimento di opposizione nella Ddr e perché, in certo modo, fu all’origine tanto della costruzione del Muro quanto della sua successiva scomparsa. Ci sono, com’è evidente, molti aspiranti al titolo di autori della «svolta decisiva». Non sono fra loro necessariamente incompatibili, e in ogni caso hanno il merito di mettere in evidenza che la caduta del comunismo non è un evento iniziato nella primavera del 1...