1. Al centro e ai margini
MARCO A. BAZZOCCHI
Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta costituiscono una parabola dentro la quale si inscrive il destino di molti intellettuali e scrittori, con il passaggio dagli entusiasmi per la ricostruzione, la forza propulsiva del cosiddetto boom economico ma anche l’inizio di un movimento opposto che crea dubbi e incertezze proprio quando è piú forte l’entusiasmo collettivo per la trasformazione del paese. È necessario calcolare con precisione queste due tendenze perché l’attività letteraria e il lavoro intellettuale si intrecciano con molta forza alla discussione politica e al dibattito sociale, dove si trovano faccia a faccia due classi che hanno reale bisogno di un confronto, la borghesia e il proletariato, e che spesso sono al centro delle opere di questo periodo.
La fine del fascismo ha dato avvio in Italia a un lungo periodo di ripensamento e di ricostruzione delle strutture politiche e sociali. Questo momento viene vissuto come una vera rinascita, l’entusiasmo della Resistenza e della Liberazione favorisce la nascita di molti racconti dedicati alle gesta eroiche di tante italiane e italiani che hanno combattuto il nemico nazifascista. Alcuni, come Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino (1947), diventeranno fondativi rispetto a un nuovo modo narrativo. Pavese, con La casa in collina del 1948, propone sotto le vesti di un professore torinese, Corrado, la propria esperienza di sfollato durante i tragici mesi della Resistenza, mentre i suoi compagni erano intenti a combattere e a lottare in prima persona. Altre opere sono invece sottoposte a un processo di decantazione, vedono la luce molti anni dopo. È il caso del tutto particolare di Fenoglio che rivolge la sua intera produzione letteraria alla Resistenza piemontese, pubblicando in parte le sue opere maggiori negli anni Sessanta; oppure di Carlo Cassola (Roma 1917 - Lucca 1987) che dedica alla Resistenza e all’immediato dopoguerra storie inquadrate secondo uno sguardo estraneo a moduli tragici e sempre all’insegna di intricati rapporti amorosi. Il primo romanzo, Fausto e Anna (1952), è ambientato in Toscana e ritrae la vicenda amorosa dei due protagonisti del titolo che si conclude con la presa d’atto che la fine della Resistenza coincide anche, e dolorosamente, con la rinuncia all’amore per Anna, al pari dei valori che avevano sostenuto la lotta di Fausto. Anche La ragazza di Bube, pubblicato nel 1960, racconta gli eventi immediatamente successivi alla guerra attraverso la prospettiva della relazione amorosa tra Bube e Mara, e il difficile ritorno alla normalità. A Vincenzo Meneghello, originario di Malo (da qui il titolo del romanzo Libera nos a Malo, 1963, dedicato al mondo contadino italiano), spetta invece il compito di raccontare la Resistenza vicentina. Nei Piccoli maestri (1964), l’ambientazione della guerra è l’Altopiano di Asiago, dove un gruppo di giovani intellettuali affronta con pochi mezzi il nemico tedesco. Anche se la guerra è finita da anni, Meneghello (espatriato in Inghilterra) rielabora il sentimento della vergogna di essere sopravvissuto, ma soprattutto fa emergere la consapevolezza di appartenere a un paese che non è riuscito a impedire il rafforzarsi del regime fascista ed è arrivato a doversene liberare passando attraverso una guerra civile.
Un altro fatto importante da cui partire è che l’Italia, nel giro di pochi anni, si mostra a un pubblico vasto in tutti gli aspetti che finora erano rimasti nascosti: il mondo delle provincie e delle campagne, i luoghi del Sud che in pochi avevano visitato, la povertà delle periferie cittadine e la precarietà della vita quotidiana, le prime avvisaglie dell’urbanizzazione e della trasformazione del paesaggio. Questi fenomeni coinvolgono, in un modo o nell’altro, la generazione di scrittori che, nati negli anni Venti, hanno partecipato alla Resistenza e hanno conosciuto da vicino i drammi della fine del fascismo. Gli anni che seguono sono quelli in cui si deve ricostruire un paese tenendo conto che l’ultima fase del fascismo ha creato una vera guerra civile, come ha scritto lo storico Claudio Pavone1, cioè una guerra interna alla società tra sostenitori e oppositori al regime.
Per chi guarda al panorama complessivo è necessario prestare attenzione ai film del neorealismo, dove emerge esplicitamente l’Italia povera delle periferie, a opere a metà tra il saggio e il racconto, come Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, ma anche alle discussioni intellettuali che portano dal «Politecnico» di Vittorini, una rivista concepita secondo un modello divulgativo originale, a «Officina», una rivista successiva dove domina la figura di Pasolini che vuole rilanciare un discorso intorno alla funzione della poesia e della letteratura nella nuova realtà italiana. E dobbiamo tener conto delle intenzioni con cui le case editrici iniziano a diffondere sul territorio una serie di opere concepite secondo una precisa progettualità: pensiamo a Einaudi che commissiona a Italo Calvino il lavoro intorno alle Fiabe italiane (1956), prima raccolta che supera i confini delle regioni e delle tradizioni dialettali, o, al contrario, pensiamo a Pasolini che riceve l’incarico dall’editore Guanda di compilare un’antologia della Poesia dialettale del Novecento (1952), a cui fa seguito Canzoniere italiano. Antologia della Poesia popolare (1955)2. Con queste ricerche emerge un patrimonio linguistico e culturale che corrisponde all’idea di letteratura legata al popolo di cui ha parlato Gramsci nei suoi Quaderni e nei suoi articoli di un decennio prima. Un volume fondamentale è in questo caso proprio Letteratura e vita nazionale di Gramsci, che esce nel 1950 da Einaudi all’interno di un’edizione tematica dei Quaderni.
Se poi guardiamo alle vicende intellettuali, notiamo che gli autori maggiori mostrano, negli anni Cinquanta, un aspetto completamente diverso da quello che noi oggi identifichiamo nella loro opera complessiva: Calvino pubblica nel 1952 Il visconte dimezzato, nel 1957 (a puntate, su «Officina») il romanzo I giovani del Po, sempre nel 1957 La speculazione edilizia e raccoglie parte dei suoi racconti sotto il titolo Gli amori difficili, nel 1958 La nuvola di Smog. Si tratta di opere nate dalla volontà di analizzare forme diverse di quella che si chiamerà alienazione, cioè la crisi individuale di personaggi che si muovono in luoghi spesso ostili o inquietanti: crescono le anonime periferie delle città, vengono distrutte le bellezze naturali, si comincia a parlare di inquinamento. La nuvola di smog che compare immobile nel cielo del racconto di Calvino è immagine di un incubo che grava sul paese. Nel 1955 Calvino usa un’espressione ricavata da Giaime Pintor, il «midollo del leone», per indicare «un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia», contro le derive irrazionalistiche e decadenti3. Vuole individuare quale sia il personaggio romanzesco adatto a rappresentare la nuova epoca, e sostituire l’io lirico-autobiografico della poesia ermetica che ha dominato anche nella narrativa della Resistenza. Non c’è piú bisogno di trascendenza né di drammi interiori, tantomeno di irrazionalismo o di crudeltà, non è adatto il dialetto e neanche quell’«utilizzazione squisita del materiale linguistico plebeo»4 che nascondono una compiacenza verso mondi arcaici o popolari. Calvino non pensa a uno scrittore che voglia fotografare la realtà (l’allusione polemica è al neorealismo), ma a uno scrittore che sappia agire nella storia, in modo attivo, guardando al futuro, compiendo un’operazione educativa e morale, costruendo anzi una «trincea morale». Parlando del protagonista anonimo del suo racconto in grigio, La nuvola di smog, Calvino dice che il suo personaggio «vuole» guardare il grigiore, vuole cioè esplicitamente entrare in rapporto con una realtà storica ed esistenziale che l’immagine della nuvola sintetizza5.
Il lavoro di Pasolini (forse è anche pensando a lui che Calvino polemizza contro l’uso dei dialetti) si muove in una direzione parallela e complementare: l’autore parte da un rapporto empatico con un mondo socialmente lontano, quello dei contadini friulani, si rende conto dell’importanza dei dialetti, poi, all’inizio degli anni Cinquanta, arriva a Roma e capisce subito qual è la condizione sociale di una classe destinata a sparire, il sottoproletariato, verso cui si dirigono prima alcune inchieste e dopo i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Però Pasolini fa in poesia quello che Calvino vorrebbe in prosa: cioè rifiuta l’io lirico ermetico e si autorappresenta in situazioni personali da cui emerge una esplicita volontà di denuncia e di critica contro la realtà che lo circonda. La sua diventa una «rabbia» sempre piú crescente e calata nella storia, una presa di posizione contro la borghesia che sta occupando tutto il territorio sociale per estromettere coloro che si situano ai margini, i diseredati, i poveri. In questi mondi destinati a scomparire Pasolini va a cercare le forze rivoluzionarie capaci di mettere in crisi la mentalità borghese (questa è la sua interpretazione del marxismo, vicina in certi punti al pensiero di Walter Benjamin).
Nella diversità assoluta di linguaggi espressivi, Calvino e Pasolini iniziano a prendere atto, verso la metà del decennio, di una serie di disastri storici incipienti. La loro appartenenza a un pensiero di origine marxista (declinato in modi diversi) non impedisce per esempio la loro presa di distanza dal partito, soprattutto dopo i fatti d’Ungheria e il XX Congresso del Pcus: la Russia si rivela una potenza aggressiva, il Partito comunista una macchina implacabile. Calvino pubblica su «Città aperta» (25 luglio 1957) il racconto La bonaccia delle Antille, un’allegoria ispirata alle atmosfere di Conrad che allude all’incapacità del Partito comunista di prendere decisioni risolutive nei confronti del predominio della Democrazia cristiana (ne seguirà un contrasto con Togliatti, ma Calvino continua a votare Pci e nel 1979 dichiara: «erano anni d’una tensione sociale dura, di lotte rischiose, di discriminazioni, di drammi collettivi e individuali»6).
Pasolini invece si è distaccat...