X. Tradizioni dell’Italia antica e greco-romana nelle cucine regionali italiane
1. Le cucine regionali da Nord a Sud.
È stato osservato1 che in Italia non esiste una cucina nazionale, come in Francia, per esempio, ma una cucina variabile regione per regione in base ai prodotti diversi e alla tradizione storica che ha visto la penisola divisa per secoli in tanti Stati più o meno grandi. Si è dimenticato però che prima degli staterelli ci sono stati i Romani che da un lato in qualche modo hanno tramandato usanze di popoli italici precedenti e dall’altro hanno certamente unificato i modi del loro mangiare pur conservando alcune caratteristiche locali dovute alla diversa disponibilità dei prodotti in base al clima e alla natura dei terreni. I Romani lo hanno fatto del resto con la religione, con l’architettura, con il diritto, con la lingua. E se è vero che ancora oggi le statistiche indicano2 che nella dispensa degli italiani, da nord a sud con piccole varianti, sono presenti, almeno nella media della popolazione, soprattutto pane e cereali, latte, formaggi e uova, frutta e ortaggi, a parte un significativo aumento dell’acquisto della carne, si deve dedurre che la base dell’alimentazione contiene ancora gli elementi che erano presenti in quella degli antichi Romani o, per meglio dire, delle antiche genti italiche. Ha ragione pertanto, secondo noi, Carlo Petrini quando scrive che
gli italiani a tavola in qualche modo esistevano da secoli, nonostante tutte le loro diversità. Anzi, sono state proprio queste, dall’Impero romano a oggi, a dare vita a un dialogo interno e ad accogliere prodotti e stili alimentari che arrivarono prima con i barbari, poi dall’Oriente con la via delle spezie e dalle scoperte del Nuovo Mondo, quindi con le cucine delle corti europee e così via fino alle trovate tecnologiche dell’industria alimentare globale […]. Dunque conservare la memoria, il paesaggio, salvare dall’estinzione prodotti tradizionali non sono, come molti sostengono, esercizi sterili, nostalgici o anti-progresso. Con pieno spirito di apertura sono invece un’assicurazione sul progresso, che consente di continuare ad abbeverarci alla più forte risorsa creativa che abbia a disposizione l’uomo: la diversità3.
Per individuare tali persistenze della tradizione culinaria dell’Italia antica e greco-romana nella cucina odierna delle nostre regioni abbiamo scelto di dividere l’Italia in tre macro-regioni: il Nord che corrisponde all’antica Gallia cisalpina e transpadana e comprende Piemonte, Lombardia, Triveneto, Liguria ed Emilia Romagna; il Centro con i due versanti adriatico e tirrenico rappresentati da Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise; il Sud con le regioni magnogreche di Campania, Basilicata (l’antica Lucania), Puglia, Calabria, Sicilia e aggiungiamo la Sardegna, la quale ha tuttavia una tradizione un po’ diversa. Faremo quindi tre discorsi generali citando in dettaglio ricette e ingredienti caratteristici dell’una e dell’altra macro-regione.
Per le ricette antiche da mettere a confronto con le attuali, abbiamo infine scelto non quelle che richiedevano ingredienti strani o rari, come poppe e vulve di scrofa, lingue di fenicottero e altre preziosità del genere imbandite sulla tavola dei ricchi epuloni del tempo e ad essi solo destinate, ma quelle alla cui base erano utilizzati alimenti di facile reperimento e di uso comune, cioè le farine, i formaggi freschi e stagionati, le verdure dell’orto e quelle che crescevano spontanee nei campi, il miele, il latte, le uova, i polli, i conigli, il maiale, i pesci e i dolci, ingredienti tutti che si possono trovare anche oggi sulla lista della spesa.
2. Le regioni del Nord: Piemonte.
Il Piemonte ha una tradizione storica differente rispetto alle altre regioni del Nord, almeno per ciò che riguarda gli ultimi secoli, perché divenne regno indipendente, con l’annessione della Liguria, in seguito al Trattato di Utrech del 1749. Ha invece comuni con loro molti alimenti e prodotti. Innanzi tutto la polenta (la puls dei Romani), che ha sempre avuto l’utile effetto di riempire lo stomaco e sedare i morsi della fame delle classi meno abbienti. Certo ai tempi di Roma non si trattava di polenta di mais, cereale delle Americhe. Nella Roma antica, come pure nel medioevo, c’era però il grano di spelta (di cui abbiamo già parlato), detto anche grano di farro, la cui coltivazione è antichissima: risale infatti a settemila anni fa. Allora era difficile ottenerne la farina, perché il rivestimento è talmente attaccato al chicco che si può togliere solo ricorrendo alla torrefazione. Questo grano, privato più o meno bene del suo rivestimento, veniva battuto nel mortaio con pestelli foderati di ferro. Le persone abbienti potevano però permettersi l’alica, un tipo di farina simile alla semola che dava una polenta bianca ottenuta dal farro sbiancato e raffinato. Con la migliore si poteva fare la polenta di semolino che si preparava con gli ingredienti indicati da Apicio (De re coq. V, V, 1).
Alicam vel sucum tisanae (Polentina di semola) Trita della semola messa a bagno la vigilia e lavala bene. Falla cuocere a fuoco vivo. Quando avrà bollito, metti olio quanto occorre, un mazzetto di aneto, cipolla secca, santoreggia e colocasia4e lascia cuocere fino a ottenere una crema. Per dare gusto al sugo mettici coriandolo verde e sale tritati insieme e fa’ bollire. Quando avrà ben bollito, leva il mazzettino e versa la crema in un’altra casseruola. Per evitare che attacchi e abbia a sentire di bruciaticcio manipolala con cura. Schiacciane bene i grumi e passala al setaccio nella casseruola sulla colocasia. Trita pepe, levistico, un po’ di puleggio secco, cumino e siler montano in modo che ne sia bene coperta e bagnala di miele, aceto, vino cotto e garum. Versa tutto ciò nella casseruola sulle parti sporgenti della colocasia in modo da coprirla bene. Fa’ bollire a fuoco lento.
Come si vede, si tratta di una ricetta in agrodolce.
Oggi in Piemonte, con il semolino ricavato dalla semola di grano duro, si fa una ricetta simile.
Ingredienti: semola di grano duro, latte, aromi, sale, scorza grattugiata di limone, tuorli d’uovo s.q. della semola, pangrattato, olio.
Preparazione: versare nel latte la semola e girarla fino a ottenerne una polentina morbida, aromatizzarla solo con il sale e la scorza grattugiata di limone (più delicato dell’aceto, ma ai tempi di Roma antica il limone, usato solo in medicina, era sconosciuto in cucina) e incorporarvi i tuorli d’uovo. Una volta raffreddata (e questa è la novità della ricetta attuale piemontese rispetto a quella apiciana), spianare la polentina su un vassoio e quando è diventata dura, ritagliarne delle losanghe; passarle nell’uovo e nel pangrattato e friggerle in olio.
Il nome con cui la ricetta è chiamata, quasi a ricordare l’antica, probabilmente è dovuto al fatto che viene preparata con il latte.
Fra le polente che si preparano in Piemonte è il caso di ricordare la panizza, un piatto delle montagne cuneesi che è possibile trovare anche in Liguria. Si tratta di una polenta di farina di ceci, legume sconosciuto ai tempi di Catone, ma già noto a quelli di Varrone e ormai diffuso nel I secolo, come attesta Marziale, il quale ci fa sapere che i ceci si vendevano bolliti come cibo di strada (Epigr. I, 46, 5; I, 103, 10). Apicio, dopo aver suggerito nella prima parte di gustare i ceci fritti con garum, vino e pepe, ne dà un’altra ricetta (aliter faseolus sive cicer, De re coq. V, VIII, 2).
Faseolus sive cicer (Fagioli o ceci) Fa’ bollire i ceci, mettili poi (dopo averli schiacciati) in una padella con delle uova, finocchio verde, pepe, garum, un po’ di caroenum (mosto cotto) e da’ al composto la forma di pesce. Se vuoi, li puoi mangiare anche come sono, come d’abitudine.
Dalla ricetta ci sembra di poter dedurre che si tratta di una polenta o purea di farina di ceci alla quale si dà, una volta cotta, la forma del pesce secondo l’abitudine dei cuochi romani che amavano dare alle pietanze una forma che non rispondeva al contenuto.
La panizza piemontese è molto simile.
Ingredienti:...