II. La nascita: due differenti livelli di arretratezza
La «questione meridionale» nacque all’atto stesso della formazione dello Stato unitario. Con ciò non si vuole intendere che fu il nuovo Stato a creare, a partire dal 1860-61, le condizioni di inferiorità economica e civile del Mezzogiorno rispetto al Nord, interrompendone uno sviluppo economico brillantemente avviato e riducendo la popolazione del Sud alla miseria e all’emigrazione. Questa tesi è stata sostenuta in sede storiografica a partire dagli anni settanta del Novecento da correnti molto critiche nei confronti della politica economica dello Stato liberale1 ed è stata rilanciata successivamente dalle frange più accese di un neo-borbonismo pervicacemente abbarbicato al mito di primati del tutto immaginari del Mezzogiorno preunitario, che i piemontesi e lo Stato unitario avrebbero distrutto2. Si intende invece più semplicemente e anche, se si vuole, banalmente, che, senza lo Stato unitario, non avremmo avuto una «questione meridionale» come problema nazionale italiano. Si sarebbe continuato a indagare sulla condizione economica, sociale, civile, politica, del Regno delle Due Sicilie, anche mettendola in toto o in parte a confronto con quella di altri Stati, come sin dal Seicento aveva fatto esplicitamente il cosentino Antonio Serra, il primo a riscontrare un’inferiore capacità del Regno di Napoli di creare ricchezza e accumulare metalli preziosi rispetto agli altri Stati italiani ed europei3; o come avevano fatto nel Settecento celebri illuministi come Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani, Giuseppe Maria Galanti, Eleonora de Fonseca Pimentel4, e nell’Ottocento studiosi come Luigi Blanch o Matteo de Augustinis. Essi avevano implicitamente o esplicitamente confrontato vari aspetti e problemi della vita economica e civile meridionale con quelli di altri Stati della penisola e d’Europa. Qualunque fosse però il loro termine di paragone, la condizione del Mezzogiorno restava sempre un problema interno dei Regni di Napoli e di Sicilia o delle Due Sicilie, e su di essi soltanto ricadeva il compito di provvedere a risolverlo. Con l’Unità d’Italia le condizioni del Sud cessarono di essere un problema esclusivo del Sud e dei meridionali, e divennero un problema dell’intera comunità nazionale, chiamata a farsene carico nel quadro di un progetto di modernizzazione che partiva, peraltro, dalla consapevolezza che non solo il Mezzogiorno, ma l’intera Italia aveva un lungo cammino e un grande sforzo da compiere per raggiungere i traguardi che i paesi più progrediti del vecchio continente avevano già guadagnato.
La nota frase scritta da Luigi Carlo Farini a Cavour, «Altro che Italia. Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni [sic], son fior di virtù civile»5, fu certo una delle primissime e più eclatanti manifestazioni della disconoscenza del Mezzogiorno da parte del ceto politico settentrionale e dell’approccio di supponente superiorità, se non di razzismo, col quale la classe dirigente del Nord entrò in contatto con la realtà meridionale; ma fu anche la prima espressione di sincera preoccupazione e sgomento per la complessità di una problematica che non sarebbe stato più compito del soppresso Stato meridionale affrontare, bensì di quello italiano, rappresentato in quel momento dallo stesso Farini come primo responsabile della luogotenenza. Uno Stato che, come già detto, nasceva con il dichiarato obiettivo di riscattare l’intero territorio nazionale, e non il solo Mezzogiorno, dalla debolezza politica e militare e dall’arretratezza economica e sociale che, pur con le diversificate gradazioni e specificità esistenti tra le sue diverse regioni e macroaree, affliggeva l’intera penisola rispetto al contesto europeo più forte e progredito.
Debolezza politica e arretratezza economica dell’intera penisola che non era affatto semplice superare. Venivano entrambe da tempi lontani e dipendevano non solo da cause interne, ma anche, come ben sappiamo, da cause esterne. Sul piano militare e politico si risaliva almeno alla fine del XV secolo con la discesa di Carlo VIII di Francia e l’inizio dell’età delle preponderanze straniere nella penisola; sul piano economico e sociale alla prima metà del XVII secolo, con l’affermazione dei grandi imperi coloniali di Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Inghilterra e l’avvio della decadenza del sistema manifatturiero dell’Italia centro-settentrionale. Tuttavia, quanto al divario economico tra Italia ed Europa avanzata, la situazione era diventata veramente grave dalla fine del Settecento in poi, quando la rivoluzione industriale era sopraggiunta a scavare tra paesi sviluppati e paesi arretrati abissi di natura e dimensioni sconosciute e neppure immaginabili nei secoli precedenti6. Inoltre sul piano delle risorse energetiche essenziali per l’industrializzazione l’Italia si era ritrovata a pagare duramente il fatto di essere quasi del tutto priva di miniere di carbone a elevato contenuto calorico.
Le classi politiche e dirigenti risorgimentali erano riuscite con la proclamazione del Regno d’Italia a ridurre drasticamente l’inferiorità politica e militare rispetto all’Europa, conquistando l’indipendenza e l’Unità. Il governo si trovava però di fronte a un’arretratezza della società italiana nei processi di modernizzazione civile, di crescita produttiva e in particolare di industrializzazione rispetto all’Inghilterra e all’Europa settentrionale, di gran lunga superiore a quella che separava tra di loro le due macroaree della penisola. Fu anche per questo che uomini politici meridionali come Mancini, Spaventa, Crispi ritennero possibile il riscatto economico-sociale del Mezzogiorno solo nel contesto di quello dell’intera economia nazionale: questione italiana rispetto all’Europa quindi, prima che meridionale in Italia, e nel 1861 tutt’altro che in via di soluzione, bensì di aggravamento.
Lo diceva il rapporto tra redditi dei diversi Stati – grandezza per quei tempi non misurabile con precisione, ma comunque unanimemente ritenuta indicativa dell’inferiorità italiana7 –; ma lo dicevano soprattutto quegli indicatori dello sviluppo produttivo ben noti quantitativamente e qualitativamente anche ai contemporanei che avevano viaggiato e conosciuto l’Europa industrializzata. Nella rete idroviaria, nella viabilità ordinaria, ma soprattutto in quella ferroviaria e nella navigazione a vapore – i due settori che stavano segnando la rivoluzione dei trasporti su scala mondiale – l’Italia a metà Ottocento era surclassata nettamente da diversi paesi europei e dagli Stati Uniti8. Un autentico abisso si era aperto nelle attività industriali in senso stretto e in particolare nell’utilizzazione della principale fonte energetica di quei tempi: il carbone. L’Inghilterra, che nel 1800 ne produceva circa 10 milioni di tonnellate all’anno, nel 1861 raggiungeva gli 85 milioni, la Francia 9,4, la Germania 18,7, il Belgio 10, l’Austria 3,6. Contro questi valori stava una produzione italiana di 34 000 tonnellate, e non c’erano prospettive di rimuovere a breve tale grave handicap naturale. Un parziale rimedio sarebbe arrivato soltanto a fine Ottocento con la trasportabilità dell’energia idroelettrica.
Per quanto riguarda l’industria manifatturiera, nel 1869, a detta del veneto Alessandro Rossi, nel settore dei pettinati di lana, contro 10-12 000 fusi italiani, ne erano impiantati 320 000 in Germania, 1,4 milioni in Inghilterra, 1,75 milioni in Francia. Per la filatura del lino e della canapa, negli anni dell’unificazione l’Italia contava circa 24 000 fusi, contro 150 000 del Belgio, 500 000 della Francia, 1,4 milioni della Gran Bretagna9. Nella filatura del cotone i 453 000 fusi installati in Italia erano ben poca cosa di fronte ai circa 5,5 milioni di fusi della Francia e ai circa 30 milioni dell’Inghilterra. Nel 1861 la produzione di ferro in Italia era di 30 000 tonnellate, contro le 230 000 dell’Austria, le 312 000 del Belgio, le 592 000 della Germania, le 967 000 della Francia, i 3 772 000 di tonnellate dell’Inghil-terra. E il fatto più preoccupante era che l’industria del cotone inglese era decollata quasi dal nulla nell’ultimo ventennio del Settecento, e quella del ferro inglese a fine Settecento ne produceva 90 000 tonnellate, ossia solo tre volte le circa 30 000 prodotte dall’Italia. Nel 1861, mentre la situazione italiana era mutata di poco per il cotone e rimasta sostanzialmente immutata per il ferro, i due principali rami dell’industria inglese erano giunti a una produzione notevolmente superiore rispetto a quella italiana: la cotoniera di almeno 66 volte e la siderurgica di 123 volte.
Nonostante la marina mercantile italiana fosse la quarta d’Europa, le distanze erano abbastanza contenute rispetto alla marina tedesca, ma rispetto a quella francese o inglese erano macroscopiche e in chiara crescita10. Conseguentemente l’industria cantieristica italiana, senza un’industria siderurgica e meccanica all’altezza di quelle estere, continuava a varare soprattutto naviglio a vela e scafi in legno ed era rimasta in forte ritardo nella costruzione di scafi in ferro e con propulsione a vapore11. Gli unici rami di industria nei quali la penisola poteva vantare posizioni di primato su scala europea erano quelli dell’estrazione dello zolfo, di cui la Sicilia deteneva il monopolio mondiale, e della seta greggia, per l’80% circa dislocata nel Centro-nord e il 20% nel Sud. Tuttavia la produzione di zolfo non alimentava alcuna industria chimica italiana, non aveva ancora un grande peso strategico nell’ambito dell’industria manifatturiera, era controllata quasi del tutto da imprenditori e mercanti inglesi e veniva quasi integralmente esportata. La seta greggia, della cui produzione l’Italia aveva il primato in Europa, costituiva la maggiore voce di esportazione del commercio estero italiano, ma era un semilavorato, quasi per intero esportato per essere impiegato nelle industrie francesi e inglesi, che dominavano col loro prodotto tessuto e rifinito i mercati europei, incluso quello italiano. Secondo alcuni calcoli dei contemporanei, l’85% circa delle operazioni effettuate dai lavoratori italiani per arrivare alla seta filata doveva considerarsi di tipo agricolo.
Non ingannino dunque i dati del censimento del 1861 sugli occupati, che registrano per l’Italia un numero di addetti alle attività industriali superiore ai 3 milioni. Quei dati si riferivano non solo agli occupati in senso stretto nell’industria, ma a quelli dell’insieme delle attività secondarie, comprendenti gli artigiani delle città e, specie nel Sud, tutto l’esercito di agricoltori di ogni tipo, incluse le donne, impegnati nell’industria a domicilio nei periodi morti dei lavori campestri. Ancora nel 1874 i risultati dell’inchiesta sull’industria italiana valutavano gli addetti a quella in senso stretto a 382 000, di cui ben 200 000 nel ramo serico, buona parte dei quali erano lavoratori «pluriattivi» nelle campagne e non certo operai di fabbrica.
Del tipo di economia e di società ancora prevalente in Italia parlavano d’altronde chiaro le condizioni di vita della maggior parte della popolazione. Esse erano appena superiori a quelle di mera sussistenza e, al Nord come al Sud, a metà Ottocento le aspettative medie di vita erano di circa 32 anni, con tassi di natalità del 37,6‰ e mortalità del 30,3‰: una situazione alquanto peggiore di quella inglese, francese, svedese, danese12, nonostante le durissime condizioni di vita della classe operaia anglo-francese. Molto basso in Italia era anche il livello dell’istruzione elementare, con un tasso di analfabetismo medio della popolazione in età scolare del 75%, nettamente più alto di quello dei paesi del Centro-nord dell’Europa: in Belgio, Francia e Impero asburgico esso era infatti compreso tra il 40 e il 50%, in Inghilterra e Galles era del 30%, in Prussia e Scozia non superava il 20%, in Svezia era al di sotto del 10%13.
A rendere ancor più critiche le difficoltà economiche e le condizioni di vita delle masse popolari europee si era aggiunta la straordinaria crescita demografica, che già nel Settecento aveva portato la popolazione del vecchio continente a superare qualunque precedente livello, e nella prima metà dell’Ottocento aveva assunto le dimensioni di una vera e propria bomba demografica che investiva con varianti abbastanza contenute tutti i paesi14. L’innalzamento dei livelli di produzione e produttività in agricoltura diveniva assolutamente indispensabile per far fronte all’accresciuto fabbisogno alimentare; ma anche e più sembrava necessario un salto di qualità e quantità nella produzione di beni secondari e nel potenziamento dei sistemi di circolazione delle merci che solo l’industrializzazione, l’infrastrutturazione e la modernizzazione generale dei servizi potevano assicurare, perché dai superiori tassi di crescita demografica dell’Inghilterra e delle altre aree industrializzate era sempre più evidente che quello industrialista era l’unico modello di sviluppo idoneo a sollevare le masse dall’indigenza e dalla miseria che le affliggeva da secoli.
Con ciò non si vuol intendere che i modelli di civiltà privi di industrializzazione non avessero nell’Ottocento e non abbiano oggi potenzialità di espressione di valori culturali e spirituali di levatura equivalente a quelli delle civiltà dell’industria e degli scambi, e neppure che non abbiano di per sé possibilità di risposta e soluzione in materia di squilibri tra popolazione e risorse e di malessere sociale delle popolazioni. Né si vuol negare che i «luoghi definiti Sud sono, al loro interno, complessi, creativi e capaci di generare le loro proprie modernità», e tanto meno che l’«agricoltura è ed è sempre stata importante e l’industrializzazione non può costituire la misura unica delle cose»15. Si vuole semplicemente dire che le condizioni di vita materiale e civile delle popolazioni d’Europa – ma si potrebbe dire anche del mondo – prima della rivoluzione industriale avevano caratteristiche ben note a tutti. Detto alla carlona: tassi di natalità e mortalità molto alti, tassi di mortalità infantile altissimi; aspettative di vita alla nascita quasi mai o di poco superiori ai 30 anni per i ceti più agiati, ancor meno per quelli più poveri; rese della cerealicoltura incredibilmente basse (generalmente 5-6 volte il seme); alimentazione delle masse popolari limitata a pochi generi commestibili, estremamente povera di contenuti calorici e proteici; fonti energetiche esclusivamente naturali; assenza pressoché completa, nelle abitazioni popolari, di servizi igienici e acqua corrente; alta frequenza di carestie e malattie infettive oggi quasi del tutto scomparse. E si vuol dire che tali non esaltanti condizioni sono state rimosse o sostanzialmente cambiate dapprima in Europa, poi anche in altre parti del mondo, solo con l’avvento della rivoluzione industriale. Sono cioè cambiate quando la produzione, il volume dei traffici mercantili, il livello quantitativo e qualitativo dei consumi di beni materiali non solo di ristrette élites ma di decine e centinaia di milioni di individui si sono elevati in misura esponenziale e sostanziale. Trattandosi di un insieme di fenomeni per lo più quantitativamente misurabili, la comparazione tra società diverse, per questi aspetti, ha piena legittimità e altrettanto legittima è l’applicazione ad esse dei concetti di sviluppo, sottosviluppo, arretratezza economica. In questa prospettiva continuiamo a parlare per l’Ottocento di questione italiana in Europa e di questione meridionale in Italia, una questione essenzialmente comparativa in riferimento allo sviluppo capitalistico e industriale di tipo inglese o euro-occidentale: l’unico dimostratosi in grado di far superare anche alle masse popolari la miseria e il malessere in cui esse erano rimaste avviluppate per millenni.
A metà del secolo XIX, dunque, alle due grandi sfide che gli Stati europei si trovavano a fronteggiare – quella demografica e quella dell’industrializzazione avviata dall’Inghilterra – l’Italia aveva risposto in misura abbastanza efficace alla prima e in misura pressoché irrilevante alla seconda. Alla crescita del fabbisogno alimentare conseguente alla bomba demografica l’Italia fino all’Unità aveva fatto fronte grazie a un incremento della produzione ...