Spot & Post del terzo settore
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Spot & Post del terzo settore

Quando la comunicazione sociale diventa anche social

Guido Di Fraia

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  1. 136 pagine
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Quando la comunicazione sociale diventa anche social

Guido Di Fraia

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Come si stanno evolvendo i linguaggi e i temi della comunicazione del terzo settore? Gli enti italiani sono stati capaci di comprendere e abbracciare la rivoluzione digitale? In altre parole, la comunicazione sociale è diventata anche social? Questo libro è il risultato di un'ampia ricerca promossa da Mediafriends e condotta dall'Università IULM di Milano. L'indagine ha preso in esame: 30 anni di spot pubblicitari relativi a enti del terzo settore trasmessi dalle reti Mediafriends; la comunicazione sui social media da parte di 800 enti. I risultati mettono in luce la progressiva affermazione di un generale senso di individualismo e sfiducia verso le istituzioni. Ma dimostrano anche che gli enti del terzo settore, nella loro attività quotidiana e tramite la comunicazione (certamente migliorabile, soprattutto sui social media) si fanno testimoni e baluardi di dimensioni etiche e valoriali di cui il Paese ha, oggi, quanto mai bisogno.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2019
ISBN
9788820391133
Argomento
Business
Capitolo 1
Andare controcorrente: caratteristiche del terzo settore oggi
di Guido Di Fraia e Barbara Pianca
Il terzo settore è la manifestazione della scelta di una parte dei cittadini di attivarsi per il bene comune. Il suo universo valoriale fa riferimento a una visione solidale ed etica della vita e del mondo. Ciò lo pone in antitesi rispetto alla narrazione dominante della contemporaneità, che rappresenta un’umanità priva di prospettive e di morale. Proprio la crescente vitalità del terzo settore (e più in generale dei valori etici) ci fa ipotizzare, o quantomeno auspicare, di esserci avviati verso il passaggio a una nuova narrativa.
Responsabilità del bene comune
Una delle principali correnti filosofiche contemporanee ha definito la realtà recente con il termine di epoca postmoderna. Per tratteggiarne le caratteristiche, il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman ha introdotto il concetto di “modernità liquida” (Bauman, 1999). Questa lettura riflette sugli esiti della crisi delle ideologie e dei partiti, conseguente alla crisi dello Stato, che perde forza a fronte dell’avanzamento dei processi di globalizzazione e soprattutto a fronte del rafforzamento dei colossi economici sovranazionali. Ne deriva il ritratto di un cittadino che ha rinunciato a dare fiducia alla ragione – e quindi anche alle idee – e si muove in un ambiente liquido dove trova senso nell’esperienza consumistica attraverso l’acquisto, compulsivo perché mai del tutto appagante. Abbandonato dalla certezza dello Stato, impegnato nella ricerca di senso personale nell’ambiente dei consumi e a gestire la frustrazione che ne deriva, il cittadino, secondo questa narrazione, non ha ampiezza di visuale per guardare al senso comune, intrappolato in un estremo individualismo che si manifesta spesso in derive narcisistiche. È, si potrebbe dire, affaticato a occuparsi di sé. Non solo: dovendo apprendere a vivere in un contesto in continuo mutamento, sente il bisogno di rimanere mutevole anche lui, e quindi trova strategico rifiutare il commitment nella vita relazionale privata e pubblica.
Non corrisponde alla narrazione della liquidità contemporanea la storia di quei cittadini che, a fronte di uno Stato incapace di tutela, si sono assunti la responsabilità di agire per il bene comune. L’impegno civile ha attraversato il Novecento rafforzandosi in particolare a partire dal Dopoguerra, attraverso la fioritura delle ideologie degli anni Sessanta e Settanta e arrivando a maturazione nei floridi anni Ottanta. Questo fenomeno oggi si esprime anche attraverso un terzo settore i cui principi di fraternità, eguaglianza sociale e sussidiarietà si pongono come riferimenti valoriali solidi – aggettivo qui introdotto in contrapposizione a “liquido” – a tal punto da dimostrarsi capaci, in alcuni casi, di sopperire alle mancanze del settore pubblico. Di questi principi parla il Forum nazionale del terzo settore, che dal 1997 rappresenta ai tavoli ministeriali quasi novanta organizzazioni nazionali di secondo e terzo livello1. Nel 2014 questa realtà ha partecipato al dibattito sulla redazione di una riforma legislativa che ordinasse la materia, chiedendo che la ratio del legislatore considerasse il terzo settore “in primis quale luogo della libera e autonoma partecipazione dove cittadini attivi organizzati svolgono, senza finalità di lucro, attività di promozione umana e sociale e di utilità sociale realizzando così i principi di fraternità, eguaglianza sociale, sussidiarietà” (Linee guida per una Riforma del terzo settore, Commento e contributo del Forum nazionale terzo settore, 12 giugno 2014): ecco, in una frase, come il terzo settore vede se stesso o almeno ciò che vorrebbe essere.
Nel terzo settore dunque il cittadino sceglie di attivarsi per il bene pubblico, in contrapposizione alla narrazione dominante che lo vuole passivo perfino quando manifesta dissenso nei confronti del potere costituito. Questa lettura infatti presuppone che il cittadino maturi un’indignazione disorganizzata e priva di progettualità e che, pur sposando determinati valori etici del terzo settore, si limiti a un matrimonio ideologico. Al contrario, il terzo settore si contraddistingue proprio per la sua operatività, dando vita al cittadino attivo per eccellenza. Questo concetto è un’emanazione del tema della democrazia partecipativa e viene comunemente utilizzato per esplicitarla. Un’attitudine che sottende la percezione di sé come parte di un insieme più grande, in netta opposizione con le tendenze individualistiche sopra descritte, tanto più perché il sentimento di appartenenza attiva quello di responsabilità: come l’individuo si prende cura di sé, così l’individuo parte di un gruppo si prende cura del gruppo, perché lo riguarda. In altre parole, essere cittadini attivi significa da un lato riconoscere i propri diritti e i propri doveri come cittadini di uno Stato di diritto, dall’altro lato partecipare attivamente alla costruzione della società, cioè del “nostro”. Tra le organizzazioni del terzo settore ne esiste una, fondata nel 1978, che si chiama proprio CittadinanzAttiva e che “promuove l’attivismo dei cittadini per la tutela dei diritti, la cura dei beni comuni, il sostegno alle persone in condizioni di debolezza”. La sua mission esplica in modo chiaro l’attitudine controcorrente del terzo settore: “La nostra missione fa riferimento all’articolo 118, ultimo comma, della Costituzione, proposto proprio da noi e recepito nella riforma costituzionale del 2001. L’articolo 118 riconosce l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale e, sulla base del principio di sussidiarietà, prevede per le istituzioni l’obbligo di favorire i cittadini attivi. La parola d’ordine di CittadinanzAttiva è ‘perché non accada ad altri’: il nostro ruolo è denunciare carenze, soprusi, inadempienze, e agire per prevenirne il ripetersi mediante il cambiamento della realtà, dei comportamenti, la promozione di nuove politiche, l’applicazione delle leggi e del diritto. Siamo convinti che ‘fare i cittadini sia il modo migliore di esserlo’, cioè che l’azione dei cittadini consapevoli dei propri poteri e delle proprie responsabilità sia un modo per far crescere la nostra democrazia, tutelare i diritti e promuovere la cura quotidiana dei beni comuni2.”
Gratuità come fonte di ricchezza
Nella narrazione della società liquida, l’uomo sperimenta il dolore di un’esperienza soggettiva che non è più strutturata per lo scambio relazionale. Anche laddove il bisogno di appartenenza e comunità si manifesta in forme chiuse e regressive: “Rimossa in nome dell’utile e dell’autorealizzazione, la pulsione al legame riaffiora in forme inevitabilmente estreme e violente, […] una coesione emotiva tesa a rinsaldare e a riaffermare, attraverso l’esclusione del diverso, identità localistiche e autoreferenziali. La comunità distruttiva sembra oggi perfettamente descrivere quel proliferare di identità collettive e locali, siano esse etniche, religiose, ideologiche, che rinascono nel seno stesso delle democrazie mettendone radicalmente in crisi ogni modello di negoziazione e intesa. Nella società dello slegamento e della disaffezione, della perdita di senso e di valori, riaffiora, con la forza negativa del ritorno del rimosso, un desiderio di identificazione e di appartenenza che si esprime in forme ostili ed esclusive” (Pulcini, 2001, p. 167). Non entrando in relazione con gli altri in maniera autentica – nella forma dell’amor di sé, della filia rousseauiana – gli altri rimangono estranei, sconosciuti e perciò indifferenti o addirittura da allontanare perché percepiti come potenzialmente pericolosi proprio in virtù di questo distorto bisogno di comunità. L’unico altro modo di appagare il bisogno di appartenenza è quello di apparire adeguato come consumatore tra i consumatori.
La società così descritta appare permeata dalla condanna a uno stato di mancanza innanzitutto identitaria. Mancano certezze, valori, radici; dal punto di vista sociale manca la percezione della tutela da parte delle istituzioni, mentre dal punto di vista individuale manca il senso di soddisfazione esistenziale completa (ma forse, prima ancora, manca un’adeguata interrogazione dei bisogni correlati). Proprio perché manca tanto, tutto costa caro all’uomo postmoderno. Si spiega così il motivo per cui gli costi tanto dare: la società dei consumi gli insegna a mercificare e assegnare un prezzo a oggetti e relazioni e lo induce a percepire di non avere mai abbastanza.
La ritrosia alla gratuità è dunque connessa con la percezione della scarsità. Nel terzo settore, che affonda le proprie radici nella gratuità, qual è invece la percezione connessa? Rispondiamo, con l’intenzione di giustificare questa affermazione in seguito: la percezione della ricchezza. Secondo la teoria del dono della filosofa e sociologa contemporanea Martha Nussbaum, l’individuo trova nella gratuità la risposta ai propri bisogni di comunità e appartenenza, evitando di soddisfarsi nel modo narcisistico e talora distruttivo sopra descritto (Nussbaum, 2004, 2011). La scelta di dare gratuitamente è motivata dall’obiettivo di produrre ricchezza sociale e, dal punto di vista individuale, anche da quello di ottenerne per sé, anche se non intesa in termini economici.
La scelta di dare gratuitamente è motivata dall’obiettivo di produrre ricchezza sociale.
Osserviamo da vicino i volontari. Il terzo settore – pur constando di organizzazioni strutturate con forza lavoro regolarmente retribuita, dove anzi di recente si assiste a una significativa e progressiva professionalizzazione – si connota attraverso la sua matrice volontaristica, riconosciuta anche dalla recente riforma che assegna un ruolo centrale al volontariato. Secondo il nuovo Codice del terzo settore, il volontario è “una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà” (Codice del terzo settore, Titolo III, art. 17, comma 2). Il 23 luglio 2014 l’ISTAT ha pubblicato il documento “Attività gratuite a beneficio di altri”, offrendo per la prima volta dei dati (riferiti al 2013) sul lavoro volontario in Italia e dichiarando che circa un italiano su otto svolge almeno una volta al mese attività gratuite a beneficio di altri o della comunità, per un totale di 126 milioni di ore al mese e un impegno medio mensile individuale di 19 ore. Si tratta di 6,63 milioni di cittadini, il 12,6% della popolazione nazionale, tra i 55 e i 64 anni per il 15,9% e laureati per il 22,1%.
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