Manuale completo di fotografia
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Manuale completo di fotografia

Dalla tecnica al linguaggio fotografico

Enrico Maddalena

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  1. 368 pagine
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Dalla tecnica al linguaggio fotografico

Enrico Maddalena

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Questo libro, interamente a colori e ricco di immagini esplicative, tratta in maniera completa, chiara e approfondita sia la tecnica fotografica (analogica e digitale) sia il linguaggio fotografico, per rendere il lettore padrone del mezzo e consentirgli di produrre immagini che rispecchino i suoi intenti espressivi. Il testo è adatto sia agli appassionati che vogliono costruirsi una solida base tecnica e culturale, sia alle scuole di fotografia. In questa seconda edizione è stata inserita una parte dedicata al light painting, è stata aggiunta una tabella col significato delle sigle degli obiettivi di tutte le principali marche e sono state ampliate e aggiornate le parti sulla descrizione dei vari tipi di fotocamere. Grande spazio è stato dedicato anche alle descrizioni dei vari tipi di filtri neutri e del loro uso, ai formati di file immagine, ai vari tipi e caratteristiche delle schede di memoria. È stato inoltre aggiunto un intero capitolo sui generi fotografici. Sono stati infine inseriti numerosi schemi/diagrammi riassuntivi sulle regolazioni della fotocamera, sull'esposizione, sulle linee guida relative alla fotografia di paesaggio, al ritratto e allo still life, nonché sulla realizzazione di un portfolio.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2017
ISBN
9788820380076
Argomento
Arte
Categoria
Fotografia

1 Un po’ di storia

Ogni invenzione non è che la realizzazione di una idea che la precede e l’idea spesso nasce dall’osservazione di qualche fenomeno capace di incuriosire e affascinare.
L’idea della fotografia deve essere scaturita dall’osservazione di quelle immagini create dalla natura in modo automatico, vale a dire le ombre e le immagini riflesse negli specchi, e dal desiderio di catturarle, fissandole stabilmente su di un supporto.

Lo specchio

Gli specchi con le loro immagini riflesse hanno da sempre esercitato un grande fascino. Alcuni storici raccontano che, intorno al 1300 e in particolare in Francia, i pellegrini che assistevano in folle numerose all’ostensione di sacre reliquie nei santuari portavano con sé degli specchi legati a lunghe canne per poterle vedere anche dalle ultime posizioni.
Conservavano poi gelosamente questi specchi che “avevano contenuto” l’immagine sacra. Non per nulla il dagherrotipo venne anche denominato “specchio dotato di memoria”. La lastrina argentata aveva infatti la lucentezza dello specchio ed era in grado di conservare l’immagine che era stata “riflessa” dall’obiettivo.

Le ombre

Molti di voi, soprattutto coloro che si interessano o si sono interessati di belle arti, conosceranno il mito della fanciulla di Corinto.
Vi si parla della figlia di un vasaio, che traccia il profilo del fidanzato (in procinto di partire per un lungo viaggio), seguendo i contorni della sua ombra sul muro.
Ed è straordinario come qualcosa di analogo, i ritratti di profilo “alla silhouette”, fossero di moda tra la fine del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento, appena prima che Niepce e Daguerre in Francia e Talbot in Inghilterra inventassero la Fotografia.
Figura 1.1 Il Narciso di Caravaggio.
Figura 1.2 Jean Baptiste Regnault, 1786 - Dibutade, la fanciulla di Corinto, fissa il profilo del fidanzato seguendo i contorni dell’ombra.
Le prime “fotografie” non sono state che semplici registrazioni di ombre. Wedgwood, figlio di un noto ceramista inglese (guarda caso, figlio di un vasaio come la fanciulla di Corinto), registrava le impronte di foglie e di altri oggetti su carta e pelle imbevute di nitrato d’argento. La stessa cosa faceva agli inizi Talbot con le sue “sciadografie”, dal greco skià e gràphein che significa letteralmente “disegnare l’ombra”. Ed è interessante come questo termine preceda quello di “fotografia”, che ha a che fare invece con la luce: photòs.
D’altra parte Schulze, scopritore della proprietà del nitrato d’argento di scurirsi alla luce, aveva chiamato questa sostanza “scotophorus”, da skòtos, oscurità: ancora l’ombra.
La fotografia nasce all’inizio del XIX secolo, quando l’ottica e la chimica s’incontrano.

La componente ottica

La prima descrizione della camera obscura a foro stenopeico compare in Magiae naturalis Libri Quatuor, di Giambattista Della Porta. Vi troviamo la prima descrizione della camera obscura come strumento di ausilio per i disegnatori. Ne parlerà anche Leonardo da Vinci.
Daniele Barbaro, professore all’Università di Padova e autore di un trattato sulla prospettiva (Della perspettiva, edito a Venezia nel 1569), migliora notevolmente la luminosità e la nitidezza dell’immagine, applicandovi una lente biconvessa.
Wollaston, l’inventore della “camera chiara”, utilizza un menisco convergente, diminuendo alcune aberrazioni.
Chevalier, con il suo doppietto acromatico, elimina l’aberrazione cromatica.
Figura 1.3 Camera obscura a foro stenopeico.
Figura 1.4 Daniele Barbaro (1568) sostituisce il foro stenopeico con una lente biconvessa: aumenta luminosità e nitidezza, ma l’immagine presenta una forte aberrazione sferica.
Figura 1.5 Menisco di William Hyde Wollaston (1812) diaframmato a f/16, riduce astigmatismo, coma e aberrazione sferica.
Figura 1.6 Doppietto acromatico di Chevalier (1829). Un elemento positivo combinato con un elemento negativo, con uguale e opposto potere disperdente, eliminano l’aberrazione cromatica.
La camera ottica, così perfezionata, viene usata dai pittori e in particolare dai vedutisti del 1700, come Canaletto (Giovanni Antonio Canàl), Bernardo Bellotto, Francesco Guardi.
Figura 1.7 Canaletto: “Il campo di Rialto” - 1758-63.
Figura 1.8 W. H. Fox Talbot - 1833, schizzo ottenuto con la camera ottica a Griante, nei pressi di Cadenabbia (Como). Un appunto di viaggio. La camera era in uso fra i viaggiatori poco portati nel disegno.

La componente chimica: il materiale sensibile

George Fabricius aveva osservato e descritto in un suo testo del 1565 (De Rebus metallicis variae observationes) che materiali contenenti cloruro d’argento si alteravano se esposti alla luce e chiamò questa sostanza “luna cornea”.
Johann Heinrich Schultze, medico e scienziato, professore di Anatomia all’Università di Altdorf, presso Norimberga, notò che alcuni sali d’argento, in particolar modo gli alogenuri, si alterano se esposti alla luce.
Osservò e descrisse questo effetto nel 1727, mentre tentava di ripetere un esperimento dell’alchimista Christoph Adolph Balduin. Costui aveva scoperto che il gesso, sciolto in acqua regia (acido nitrico + acido cloridrico concentrati), si liquefaceva in seguito all’assorbimento dell’umidità atmosferica. Pensava che, distillando il miscuglio, avrebbe potuto catturare lo Spirito Universale (Weltgeist). Casualmente osservò che il residuo rimasto nella storta riscaldata brillava nel buio, e lo chiamò phosphorus (portatore di luce).
L’acqua regia che usò Schultze era però contaminata da argento. Notò che il gesso, trattato con quel composto ed esposto ai raggi solari, diventava di un colore rosso porpora scuro. Dimostrò anche che l’effetto era dovuto alla luce e non al calore. Ricoprendo una bottiglia contenente gesso, acido nitrico e argento, con carte scure nelle quali aveva ritagliato delle sagome ed esponendola alla luce, vide che sul gesso si imprimevano le immagini scure di quelle sagome. Chiamò scotophorus (portatore di tenebre) il composto fotosensibile e nel 1727 pubblicò le sue scoperte negli Atti dell’Accademia degli Scienziati di Norimberga, col titolo: Lo scotophorus scoperto invece del phosphorus, ovvero un esperimento importante dell’azione dei raggi solari.
Il ginevrino Sénebier (1742-1809) constatò che il cloruro d’argento anneriva totalmente in venti minuti sotto l’azione della luce rossa e in soli quindici secondi sotto l’azione della luce violetta.
Thomas Wedgwood fu il primo a tentare, senza successo, di registrare le immagini della camera oscura. Cominciò i suoi esperimenti poco prima del 1800. Sensibilizzava la carta e il cuoio con nitrato d’argento, vi poneva sopra oggetti e disegni traslucidi ed esponeva il tutto al sole. Notò che il cuoio è più sensibile della carta. Si accorse però che le sue immagini erano labili e non riuscì a trovare il modo di renderle permanenti. Le mostrava alla debole luce di una candela. Il suo amico e scienziato Sir Humphry Davy descrisse gli esperimenti nei Journals of the Royal Institution (1802). I suoi tentativi di fissare l’immagine della camera oscura fallirono tutti, a causa della bassa sensibilità alla luce del nitrato d’argento.
Joseph Nicéphore Niepce, nato a Chalon-sur-Saône, nel cuore della Francia, prestò servizio per breve tempo nell’esercito di Napoleone. Visse nella città natale a pochi chilometri dalla quale aveva una tenuta di campagna a Le Gras, nel villaggio di Saint Loup de Varenne. Nicéphore faceva a quell’epoca esperimenti di litografia, un procedimento da poco inventato da Aloys Senefelder (a Monaco nel 1798) che si basava su di un’ardesia locale, la pietra di Solenhofen. Si disegnava sulla pietra con una matita grassa. Poi la si bagnava e inchiostrava. L’inchiostro grasso aderiva al disegno, ma veniva respinto dalle parti bagnate. Si poneva quindi un foglio sopra la pietra che riteneva il disegno. Poco abile come disegnatore, Niepce sperava di scoprire una vernice fotosensibile per trasportare sulla pietra un disegno o un’incisione, resa prima trasparente.
Figura 1.9 Immagine ottenuta dall’autore mediante due menischi (lenti da occhiale).
Il 5 maggio 1816 scriveva al fratello di esperimenti fatti con la camera oscura, descrivendo l’immagine ottenuta (puntandola verso una uccelliera davanti a una finestra) su carta al muriato d’argento (come veniva anche chiamato il cloruro d’argento). Si lamentò per l’inversione dei toni. È la descrizione della prima negativa:
“Ho messo l’apparecchio nella stanza in cui lavoro, di fronte alla voliera e alla finestra aperta. Ho fatto l’esperimento secondo il procedimento che tu sai, carissimo, e ho visto sulla carta bianca tutta quella parte della voliera che si può vedere dalla finestra e una debole immagine dei telai della finestra, che erano meno illuminati degli oggetti esterni. È soltanto un tentativo assai imperfetto. Mi sembra quasi dimostrata la possibilità di dipingere in questa guisa. Quello che tu avevi previsto è accaduto. Il fondo del quadro è nero, e gli oggetti sono bianchi, vale a dire più chiari del fondo”.
Niepce era riuscito in ciò in cui Wedgwood aveva fallito: registrare l’immagine della camera oscura (il muriato è più sensibile del nitrato usato da quest’ultimo). Tuttavia l’immagine non era permanente. Niepce abbandonò ogni tentativo col cloruro e si mise alla ricerca di una sostanza che non annerisse, ma “sbiancasse” con la luce.
La vera invenzione di Niepce è la fotoincisione, importante se consideriamo che la stragrande maggioranza delle fotografie che circolano non sono all’argento, ma “all’inchiostro”, essendo presenti su libri e giornali. La tecnica classica dell’incisione manuale consiste nel ricoprire una lastra di rame con un impasto di cera o bitume. L’artista incide la lastra con un bulino che, asportando l’impasto, mette a nudo il rame. Si versa sulla lastra dell’acido nitrico (mordente) che intacca il rame dove l’incisore è passato col bulino, essendo il resto della lastra protetto dalla cera o dal bitu...

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