1 Un poâ di storia
Ogni invenzione non è che la realizzazione di una idea che la precede e lâidea spesso nasce dallâosservazione di qualche fenomeno capace di incuriosire e affascinare.
Lâidea della fotografia deve essere scaturita dallâosservazione di quelle immagini create dalla natura in modo automatico, vale a dire le ombre e le immagini riflesse negli specchi, e dal desiderio di catturarle, fissandole stabilmente su di un supporto.
Lo specchio
Gli specchi con le loro immagini riflesse hanno da sempre esercitato un grande fascino. Alcuni storici raccontano che, intorno al 1300 e in particolare in Francia, i pellegrini che assistevano in folle numerose allâostensione di sacre reliquie nei santuari portavano con sĂŠ degli specchi legati a lunghe canne per poterle vedere anche dalle ultime posizioni.
Conservavano poi gelosamente questi specchi che âavevano contenutoâ lâimmagine sacra. Non per nulla il dagherrotipo venne anche denominato âspecchio dotato di memoriaâ. La lastrina argentata aveva infatti la lucentezza dello specchio ed era in grado di conservare lâimmagine che era stata âriflessaâ dallâobiettivo.
Le ombre
Molti di voi, soprattutto coloro che si interessano o si sono interessati di belle arti, conosceranno il mito della fanciulla di Corinto.
Vi si parla della figlia di un vasaio, che traccia il profilo del fidanzato (in procinto di partire per un lungo viaggio), seguendo i contorni della sua ombra sul muro.
Ed è straordinario come qualcosa di analogo, i ritratti di profilo âalla silhouetteâ, fossero di moda tra la fine del Settecento e nei primi anni dellâOttocento, appena prima che Niepce e Daguerre in Francia e Talbot in Inghilterra inventassero la Fotografia.
Figura 1.1 Il Narciso di Caravaggio.
Figura 1.2 Jean Baptiste Regnault, 1786 - Dibutade, la fanciulla di Corinto, fissa il profilo del fidanzato seguendo i contorni dellâombra.
Le prime âfotografieâ non sono state che semplici registrazioni di ombre. Wedgwood, figlio di un noto ceramista inglese (guarda caso, figlio di un vasaio come la fanciulla di Corinto), registrava le impronte di foglie e di altri oggetti su carta e pelle imbevute di nitrato dâargento. La stessa cosa faceva agli inizi Talbot con le sue âsciadografieâ, dal greco skiĂ e grĂ phein che significa letteralmente âdisegnare lâombraâ. Ed è interessante come questo termine preceda quello di âfotografiaâ, che ha a che fare invece con la luce: photòs.
Dâaltra parte Schulze, scopritore della proprietĂ del nitrato dâargento di scurirsi alla luce, aveva chiamato questa sostanza âscotophorusâ, da skòtos, oscuritĂ : ancora lâombra.
La fotografia nasce allâinizio del XIX secolo, quando lâottica e la chimica sâincontrano.
La componente ottica
La prima descrizione della camera obscura a foro stenopeico compare in Magiae naturalis Libri Quatuor, di Giambattista Della Porta. Vi troviamo la prima descrizione della camera obscura come strumento di ausilio per i disegnatori. Ne parlerĂ anche Leonardo da Vinci.
Daniele Barbaro, professore allâUniversitĂ di Padova e autore di un trattato sulla prospettiva (Della perspettiva, edito a Venezia nel 1569), migliora notevolmente la luminositĂ e la nitidezza dellâimmagine, applicandovi una lente biconvessa.
Wollaston, lâinventore della âcamera chiaraâ, utilizza un menisco convergente, diminuendo alcune aberrazioni.
Chevalier, con il suo doppietto acromatico, elimina lâaberrazione cromatica.
Figura 1.3 Camera obscura a foro stenopeico.
Figura 1.4 Daniele Barbaro (1568) sostituisce il foro stenopeico con una lente biconvessa: aumenta luminositĂ e nitidezza, ma lâimmagine presenta una forte aberrazione sferica.
Figura 1.5 Menisco di William Hyde Wollaston (1812) diaframmato a f/16, riduce astigmatismo, coma e aberrazione sferica.
Figura 1.6 Doppietto acromatico di Chevalier (1829). Un elemento positivo combinato con un elemento negativo, con uguale e opposto potere disperdente, eliminano lâaberrazione cromatica.
La camera ottica, cosĂŹ perfezionata, viene usata dai pittori e in particolare dai vedutisti del 1700, come Canaletto (Giovanni Antonio CanĂ l), Bernardo Bellotto, Francesco Guardi.
Figura 1.7 Canaletto: âIl campo di Rialtoâ - 1758-63.
Figura 1.8 W. H. Fox Talbot - 1833, schizzo ottenuto con la camera ottica a Griante, nei pressi di Cadenabbia (Como). Un appunto di viaggio. La camera era in uso fra i viaggiatori poco portati nel disegno.
La componente chimica: il materiale sensibile
George Fabricius aveva osservato e descritto in un suo testo del 1565 (De Rebus metallicis variae observationes) che materiali contenenti cloruro dâargento si alteravano se esposti alla luce e chiamò questa sostanza âluna corneaâ.
Johann Heinrich Schultze, medico e scienziato, professore di Anatomia allâUniversitĂ di Altdorf, presso Norimberga, notò che alcuni sali dâargento, in particolar modo gli alogenuri, si alterano se esposti alla luce.
Osservò e descrisse questo effetto nel 1727, mentre tentava di ripetere un esperimento dellâalchimista Christoph Adolph Balduin. Costui aveva scoperto che il gesso, sciolto in acqua regia (acido nitrico + acido cloridrico concentrati), si liquefaceva in seguito allâassorbimento dellâumiditĂ atmosferica. Pensava che, distillando il miscuglio, avrebbe potuto catturare lo Spirito Universale (Weltgeist). Casualmente osservò che il residuo rimasto nella storta riscaldata brillava nel buio, e lo chiamò phosphorus (portatore di luce).
Lâacqua regia che usò Schultze era però contaminata da argento. Notò che il gesso, trattato con quel composto ed esposto ai raggi solari, diventava di un colore rosso porpora scuro. Dimostrò anche che lâeffetto era dovuto alla luce e non al calore. Ricoprendo una bottiglia contenente gesso, acido nitrico e argento, con carte scure nelle quali aveva ritagliato delle sagome ed esponendola alla luce, vide che sul gesso si imprimevano le immagini scure di quelle sagome. Chiamò scotophorus (portatore di tenebre) il composto fotosensibile e nel 1727 pubblicò le sue scoperte negli Atti dellâAccademia degli Scienziati di Norimberga, col titolo: Lo scotophorus scoperto invece del phosphorus, ovvero un esperimento importante dellâazione dei raggi solari.
Il ginevrino SĂŠnebier (1742-1809) constatò che il cloruro dâargento anneriva totalmente in venti minuti sotto lâazione della luce rossa e in soli quindici secondi sotto lâazione della luce violetta.
Thomas Wedgwood fu il primo a tentare, senza successo, di registrare le immagini della camera oscura. Cominciò i suoi esperimenti poco prima del 1800. Sensibilizzava la carta e il cuoio con nitrato dâargento, vi poneva sopra oggetti e disegni traslucidi ed esponeva il tutto al sole. Notò che il cuoio è piĂš sensibile della carta. Si accorse però che le sue immagini erano labili e non riuscĂŹ a trovare il modo di renderle permanenti. Le mostrava alla debole luce di una candela. Il suo amico e scienziato Sir Humphry Davy descrisse gli esperimenti nei Journals of the Royal Institution (1802). I suoi tentativi di fissare lâimmagine della camera oscura fallirono tutti, a causa della bassa sensibilitĂ alla luce del nitrato dâargento.
Joseph NicĂŠphore Niepce, nato a Chalon-sur-SaĂ´ne, nel cuore della Francia, prestò servizio per breve tempo nellâesercito di Napoleone. Visse nella cittĂ natale a pochi chilometri dalla quale aveva una tenuta di campagna a Le Gras, nel villaggio di Saint Loup de Varenne. NicĂŠphore faceva a quellâepoca esperimenti di litografia, un procedimento da poco inventato da Aloys Senefelder (a Monaco nel 1798) che si basava su di unâardesia locale, la pietra di Solenhofen. Si disegnava sulla pietra con una matita grassa. Poi la si bagnava e inchiostrava. Lâinchiostro grasso aderiva al disegno, ma veniva respinto dalle parti bagnate. Si poneva quindi un foglio sopra la pietra che riteneva il disegno. Poco abile come disegnatore, Niepce sperava di scoprire una vernice fotosensibile per trasportare sulla pietra un disegno o unâincisione, resa prima trasparente.
Figura 1.9 Immagine ottenuta dallâautore mediante due menischi (lenti da occhiale).
Il 5 maggio 1816 scriveva al fratello di esperimenti fatti con la camera oscura, descrivendo lâimmagine ottenuta (puntandola verso una uccelliera davanti a una finestra) su carta al muriato dâargento (come veniva anche chiamato il cloruro dâargento). Si lamentò per lâinversione dei toni. Ă la descrizione della prima negativa:
âHo messo lâapparecchio nella stanza in cui lavoro, di fronte alla voliera e alla finestra aperta. Ho fatto lâesperimento secondo il procedimento che tu sai, carissimo, e ho visto sulla carta bianca tutta quella parte della voliera che si può vedere dalla finestra e una debole immagine dei telai della finestra, che erano meno illuminati degli oggetti esterni. Ă soltanto un tentativo assai imperfetto. Mi sembra quasi dimostrata la possibilitĂ di dipingere in questa guisa. Quello che tu avevi previsto è accaduto. Il fondo del quadro è nero, e gli oggetti sono bianchi, vale a dire piĂš chiari del fondoâ.
Niepce era riuscito in ciò in cui Wedgwood aveva fallito: registrare lâimmagine della camera oscura (il muriato è piĂš sensibile del nitrato usato da questâultimo). Tuttavia lâimmagine non era permanente. Niepce abbandonò ogni tentativo col cloruro e si mise alla ricerca di una sostanza che non annerisse, ma âsbiancasseâ con la luce.
La vera invenzione di Niepce è la fotoincisione, importante se consideriamo che la stragrande maggioranza delle fotografie che circolano non sono allâargento, ma âallâinchiostroâ, essendo presenti su libri e giornali. La tecnica classica dellâincisione manuale consiste nel ricoprire una lastra di rame con un impasto di cera o bitume. Lâartista incide la lastra con un bulino che, asportando lâimpasto, mette a nudo il rame. Si versa sulla lastra dellâacido nitrico (mordente) che intacca il rame dove lâincisore è passato col bulino, essendo il resto della lastra protetto dalla cera o dal bitu...