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Viaggio dentro le manipolazioni della tecnologia

Gea Scancarello

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  1. 136 pagine
  2. Italian
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Viaggio dentro le manipolazioni della tecnologia

Gea Scancarello

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A nostra insaputa, la tecnologia pensata per essere al servizio dell'uomo ha finito per renderci dipendenti da smartphone, social network, applicazioni e videogame. L'autrice affronta la relazione patologica che abbiamo con i nostri dispositivi e rovescia la prospettiva comune, denunciando la responsabilità dell'industria più potente e meno trasparente al mondo: i signori della Silicon Valley.Un libro per chi pensa al futuro e alle trasformazioni in corso. Per chi si pone domande di tipo pratico, ma anche etico sul perché a un certo punto ci siamo ritrovati tutti addicted ai nostri dispositivi.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2020
ISBN
9788820398095
Argomento
Business
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CAPITOLO 1
CACCIA ALLE SCARPE
SE NE STAVA AL BUIO, QUASI ACCASCIATO SUL TAVOLO già apparecchiato per la colazione, la testa abbandonata sul braccio sinistro piegato a mo’ di cuscino e l’altro braccio allungato verso il computer. Lo schermo lo illuminava di una luce quasi caravaggesca.
Mancò poco che gli piombassi addosso, inciampando nel tragitto verso la cucina: stavo andando a cercare un po’ d’acqua, sforzandomi di non svegliarmi del tutto. Mi servì qualche istante per mettere a fuoco la scena, abbastanza intontita da chiedermi se stessi ancora sognando.
“Che ci fai qui?”, sussurrai infine accendendo la luce, un istante prima di rendermi conto che il portatile con cui mio nipote stava giocando era il mio.
“Le scarpe saranno in vendita tra due ore e mezza. Ricordati che hai promesso di comprarmele per il mio compleanno, se riesco a prenderle.”
“Solo se le becchi al prezzo normale. Non intendo fare alcuna asta né inseguirle”, mi ritrovai a rispondere. Come se non fossero le cinque del mattino, mio nipote dodicenne ancora per qualche giorno non mi stesse parlando con gli occhi a malapena aperti e non avessi appena usato il verbo “inseguire” riferendomi a un paio di scarpe da ginnastica.
Quelle sneaker e il taglio di capelli di Neymar erano gli argomenti più discussi nei corridoi della scuola che frequentava. Avrebbe compiuto 13 anni la settimana successiva e aveva da poco ottenuto il permesso di mascherare con un ciuffo biondissimo il suo viso ancora di bimbo. Ma le scarpe rientravano in una categoria di desideri più difficili da realizzare: benché dalla sua avesse voti eccellenti e un moderato ma strategico contributo in poche faccende domestiche – oltre a occhi verdi imploranti che sarebbero stati capaci di sciogliere un iceberg, figuriamoci le resistenze di una zia – non era possibile semplicemente entrare in un negozio e acquistarle. Andavano, appunto, inseguite. In giro per la Rete. Trenta minuti e un paio di caffè dopo, ormai rassegnata a fargli compagnia – chi lascerebbe un tredicenne solo prima dell’alba di fronte a un computer? – ero seduta accanto a lui nel salotto, condividendo la sua delusione: il sito dell’Adidas su cui avremmo dovuto comprare le scarpe non si stava caricando. E, mio nipote lo sapeva con la certezza dell’esperienza, il problema era che troppe persone stavano provando a connettersi nello stesso momento.
Per combattere contro l’esercito invisibile di concorrenti sparsi nel mondo avevamo schierato tutta la nostra artiglieria, generosamente e inconsapevolmente messa a disposizione dagli adulti che dormivano al piano superiore. Un iPad, il mio computer e quattro smartphone stavano tentando di collegarsi al sito su cui a momenti le sneaker sarebbero state disponibili. Per un’ora o forse per due, magari per l’intera giornata oppure anche solo per dieci minuti: nessuno lo sapeva in anticipo. Così come nessuno sapeva quante paia fossero realmente in vendita: dieci, cento, un milione, abbastanza per tutti o forse solo per una manciata di fortunatissimi. Non avere informazioni era “parte del gioco”, mi spiegò mio nipote mentre, tra uno sbadiglio e il successivo, lo bersagliavo di domande per capire cosa stessimo facendo esattamente.
Rispondeva mordendosi nervosamente il polso, in tono scocciato, gli occhi verdi così gonfi di stanchezza da farmi desiderare di potergli comprare tutte le scarpe del pianeta, pur di renderlo felice. Eppure la generosità non sembrava sufficiente: “Non capisco, questa volta non dovrebbe essere così difficile: dobbiamo solo riuscire a collegarci al sito. Sono sicuro che siamo in ritardo, è colpa nostra, avremmo dovuto essere qui a provare molto prima”, continuava a dire.
Molto prima, cioè nel mezzo della notte.
OTTENERE L’ACCESSO: FEDELTÀ, DEDIZIONE, COMPLICITÀ
Una volta, circa un anno prima, l’impresa gli era riuscita. Le scarpe che si era aggiudicato, un paio di Yeezy Boost V2 disegnate da Kanye West, oggi valgono intorno agli 800 dollari. Non so nulla di sneaker, ma le ho riconosciute al volo quando, dopo il colpaccio, le ha messe la prima volta in mia presenza: eravamo a un pranzo di famiglia in campagna e mentre i suoi cugini giocavano a calcio nell’erba umida lui se ne stava in disparte per non sporcarle. Ricordo di averlo preso in giro, allora; adesso, nel pensarci, mi monta la rabbia.
Da allora, controllare il valore delle Yeezy su una app che funziona come borsino delle sneaker è routine. Quando sta per uscire un nuovo modello, le verifiche si fanno più frequenti: in linea teorica, se il prezzo è abbastanza alto può rivenderle e provare ad acquistare il nuovo paio, sempre attraverso una delle decine di app affastellate sul suo telefono.
Provare, appunto. Perché a essere precisi le scarpe non sono in vendita: sono parte di un “drop”1. Letteralmente, vengono sganciate: sul mercato, ma molto prima sugli schermi. L’acquisto non è più (solo) una questione di soldi. I soldi contano, e parecchio, ma il problema si pone in un secondo momento. Prima c’è altro. Prima bisogna dimostrare fedeltà, attaccamento, desiderio. Bisogna essere connessi a un mondo di app, siti, account Twitter, profili Instagram, notifiche, community online, celebrità, influencer. Bisogna essere disposti a seguire istruzioni digitali raccolte qui e là. Bisogna farsi guidare e “ottenere l’accesso”, come mi suggeriva in tono ammiccante la app dell’Adidas che mio nipote aveva voluto scaricassi alle sei di quella mattina agostana, per aumentare le nostre chance. Conquistarselo. Grazie a fedeltà, dedizione, complicità.
“Drop il 18 agosto, alle 8:00 GMT” era la soffiata che stavamo seguendo quella notte, proveniente da voci sul sito “Sneaker News”. Confermate dall’account social @theyeezymafia – mezzo milione di follower su Twitter – e da una serie di notifiche da parte di Bump, Goat e StockX, rivenditori che avevano creato un floridissimo mercato secondario per le sneaker e altri oggetti del desiderio, e che erano sempre in possesso delle informazioni aggiornate. Nonché delle scarpe stesse, curiosamente disponibili sui siti “secondari” appena pochi minuti dopo il drop ufficiale, nel caso in cui, dopo ore di tentativi e attese e privazione del sonno per ottenerle sui canali ordinari, un padre o una madre fossero disposti a spendere 400 euro per portarsele a casa, così da consentire alla famiglia di fingere un ritorno alla normalità. Non era il mio caso.
“Non penso che funzioni. Ti comprerò qualcos’altro per il tuo compleanno. Torniamocene a letto”, buttai lì.
Mio nipote ascoltava a malapena, la testa tra le mani, impegnato ad affinare i pensieri e a valutare soluzioni alternative mentre il tempo per riuscire a connettersi stava per finire. “Forse non è il fuso orario GMT, magari mi sono confuso. Proviamo ad andare sul mercato americano. E magari c’è un’estrazione a sorte. Sì, proviamo subito un’estrazione su SNS.”
“Che cos’è SNS?”
“Un posto bellissimo.”
Disse proprio così: un posto bellissimo. Intendeva ovviamente un sito web, Snearkersnstuff. Un portale pieno di news, di scarpe e di estrazioni a sorte, che sono uno dei metodi per aggiudicarsele: lotterie online alla quali ci si collega, si stacca il proprio ticket virtuale per poi restare davanti allo schermo in attesa di conoscere se si è tra i vincitori. Ammesso di riuscire a connettersi, certo.
Freneticamente, prese a controllare su tutti i canali che conosceva se fosse in corso una lotteria di cui non era venuto a sapere, passando da un dispositivo all’altro: almeno due dovevano sempre continuamente cercare di raggiungere la pagina dell’Adidas. Le probabilità che non fosse sufficientemente informato erano irrisorie, visto che aveva trascorso la settimana ad assorbire informazioni sul drop imminente. Ma le vacanze e la più grande di tutte le disgrazie – esaurire i giga a disposizione in una casa con connessione Internet limitata – davano qualche consistenza alle sue speranze. Il giro di consultazioni, però, si vanificò rapidamente: non era prevista alcuna estrazione.
“Chi stabilisce in quali casi c’è la lotteria e in quali no? E comunque voi ragazzini non dovreste avere almeno 18 anni per partecipare?”, gli chiesi, versandomi un altro caffè. Il sole, a quel punto, era sorto. E il suo umore stava peggiorando con il diminuire delle possibilità e l’aumentare delle mie domande. Mi diede un’occhiata carica di quella miscela di noia e fastidio che gli adolescenti riservano agli adulti quando sentono che questi li stanno sabotando. Il che, in quel caso specifico, era abbastanza vero.
D’altronde, anche se avesse voluto realmente rispondermi, non avrebbe saputo cosa dire. Per via dei suoi 12 anni, naturalmente. E perché il sistema non prevede che lo sappia: se vuole le scarpe – e certo che le vuole: nella sua cerchia tutti ne parlano, le taggano sui social, le fotografano; probabilmente le vorrebbe anche se non gli piacessero, per via delle pressione sociale – se le vuole, tutto ciò che gli viene richiesto è attenersi alle regole del gioco.
Non mollare, continuare a provare. Seguire profili, account online, rumor. Controllare orari, rivenditori, link. Assicurarsi di essere sveglio abbastanza presto, o sufficientemente tardi. Avere sempre il telefono carico, connesso, con le notifiche attivate e il volume in funzione. Commentare, scaricare, condividere. Con pazienza, lasciando che il desiderio cresca. Per ogni tentativo fallito, la fame di riuscirci diventerà più grande. Alimenterà il circolo. E la gioia sarà maggiore quando infine l’acquisto riuscirà. Lo si può considerare un gioco, o una battaglia estenuante. Ma quella mattina, mentre gli altri adulti stavano per alzarsi e io accarezzavo con dolcezza i suoi capelli biondi per mitigare il senso di sconfitta, un’altra sensazione iniziò a pizzicarmi la coscienza: mi sembrò una specie di sequestro.
Dei suoi pensieri, del suo tempo, dei suoi desideri.
OSTAGGI DI UNA STRATEGIA DIGITALE
Mia cognata fece capolino dalle scale, ancora in pigiama. Erano appena passate le 8, e mi sembrava di aver trascorso la notte in bianco: gli occhi mi facevano male per essere stata troppo tempo davanti allo schermo senza gli occhiali. Però chi cavolo avrebbe pensato di aver bisogno delle lenti per comprare un paio di scarpe?
Si mise a cercare il cellulare, che avevamo collocato in una posizione strategica per massimizzare la ricezione, cercando di fargli fare un ultimo tentativo di collegarsi alla pagina dell’Adidas. Desolato, mio nipote glielo passò: era pronto ad ammettere che il gioco era finito. Magari qualcuno si era svegliato alle 3 ed era riuscito ad accaparrarsi tutte le scarpe disponibili, per poi rivenderle. Magari la nostra connessione Internet non era abbastanza buona. O magari le scarpe non erano in vendita quella mattina e stavamo seguendo le indicazioni sbagliate.
Oppure eravamo stati ostaggi. Ostaggi, sì: di un piano di marketing digitale, capace di manipolare il nostro tempo e la nostra attenzione. Di tenerci attaccati allo schermo, di rubarci il sonno, di farci concentrare ossessivamente su quelle scarpe e su come averle. Un piano mascherato da gioco, da intrattenimento. Perfetto per coinvolgere teenager, per persuaderli di poterci riuscire, per creare aspettative e aumentare il desiderio. Per convincerli a riprovarci alla successiva occasione utile e a non pensare ad altro nel frattempo.
Mia cognata guardò distrattamente lo schermo, pronta a cercare un altro argomento di conversazione per iniziare la giornata: c’era già passata, sapeva di non dover girare il coltello nella piaga. Ma sul monitor dell’iPhone che le stavamo porgendo comparve di colpo la scritta: ACQUISTA ORA.
Iniziammo a gridare scompostamente, mio nipote e io, in preda a un’eccitazione poco consona all’orario. E all’età, nel mio caso. Non riuscivo a credere che davvero stesse succedendo, proprio nel momento in cui stavamo per rinunciare: ce l’avevamo fatta! La prima mattina era diventata inaspettatamente briosa, tutto un ridere, abbracciarsi, dichiararsi eterni affetto e gratitudine: cinque minuti di gioia pura tra mamma e figlio, mentre io correvo a cercare la carta di credito. Inserii i dati in fretta e furia e il pagamento andò a buon fine: avevamo davvero le scarpe. Sarebbero arrivate a casa presto: un regalo di compleanno da favola per un tredicenne. Un regalo esclusivo, che avrebbe mostrato con fierezza agli amici, ancora più inorgoglito quando loro avessero raccontato quante volte avevano provato a connettersi senza riuscirci.
Avevamo le scarpe, sì. Ma, esaurita l’adrenalina della sorpresa, di fronte all’ennesimo caffè, io avevo anche un certo numero di domande che mi ballavano in testa. Ce l’avevamo fatta per caso o c’era una strategia? Era tutto studiato per andare così, per farci desiderare, illudere, restare collegati, disperare, e infine ricompensarci? Ma se di una strategia si trattava, chi l’aveva pensata? Chi penserebbe a qualcosa di così crudele sulla pelle di ragazzini? Chi giocherebbe sulla loro felicità, aumentando la loro frustrazione, agitando desideri inarrivabili? Non riuscivo a smettere di pensarci, immaginando quante altre volte questa scena si fosse ripetuta, in quante altre case, quanti altri ragazzi avessero trascorso l’alba di fronte a un computer o a un telefono, probabilmente senza dirlo ai genitori. Possibile che per aumentare la desiderabilità dei propri prodotti un’azienda sfruttasse le debolezze di un teenager, i suoi desideri e le sue aspirazioni? Che ne manovrasse i pensieri e le abitudini, mantenendolo attaccato a uno schermo?
Non ci avevo mai riflettuto abbastanza, ma i post su Instagram, le aste e le notifiche avevano la capacità di manipolare. E di farlo nel nome di quello che consideriamo genericamente progresso, un cambiamento spinto e impersonato da esperti, guru, futurologi. Persone di cui ammiriamo e celebriamo la vita e il talento, ma che, iniziavo a sospettare, sono probabilmente diverse dai geni che crediamo siano.
Così diverse che decisi di andare a verificare. Di mettermi in viaggio per cercare queste persone, conoscerle, parlare con loro. Per provare a capire il mondo dietro alle notifiche che avevamo inseguito quella notte, e tutti i comportamenti distorti che avevo appena iniziato a focalizzare.
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1. “To drop” in inglese significa far cadere, calare.
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CAPITOLO 2
AGLI ORDINI, SOFTWARE
QUALCHE SETTIMANA DOPO QUELLA STRANIANTE caccia alle scarpe arrivai a Bournemouth, in Inghilterra. Se il nome non vi dice molto, siete in buona compagnia: prima di mettermi in viaggio, non avrei saputo collocarlo sulla cartina geografica. Con meno di duecentomila abitanti e nessun monumento che valga la pena visitare, d’altronde, è uno di quei posti sulla cos...

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