Cultura letteraria neerlandese
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Cultura letteraria neerlandese

Autori, testi e contesti dal Medioevo a oggi

Roberto Dagnino, Marco Prandoni

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  1. 592 pagine
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Cultura letteraria neerlandese

Autori, testi e contesti dal Medioevo a oggi

Roberto Dagnino, Marco Prandoni

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Informazioni sul libro

Opera di taglio storico-culturale, il manuale illustra i testi, le correnti, i movimenti e gli autori più rappresentativi (da Beatrice di Nazareth ad Arnon Grunberg) della letteratura in lingua neerlandese, integrando e ampliando il tradizionale apporto degli studi letterari con le interazioni provenienti da arti figurative e performative, musica, architettura, religione, politica e movimenti sociali. Un viaggio che inizia nel Medioevo neerlandese, alla scoperta della ricchezza mistica, devozionale e artistica di una civiltà urbana proto-borghese a cavallo tra mondo romanzo e germanico, per proseguire con l'esplosione dei commerci e la rivoluzione teatrale, scientifica e filosofica del Secolo d'Oro e approdare infine a quel laboratorio politico, sociale e culturale che i Paesi Bassi e il Belgio rappresentano da due secoli a questa parte. Lo sguardo interculturale rivela infine preziose interconnessioni tra i Paesi Bassi, le Fiandre, l'Italia, il resto del continente europeo e le ex-colonie, senza dimenticare gli apporti delle numerose ondate migratorie verso questo dinamico angolo d'Europa. Il testo, pensato in primo luogo per gli studenti di lingua e letteratura, si rivolge anche agli specialisti di altre discipline alla ricerca di collegamenti con la cultura neerlandese e ai numerosi appassionati dell'universo culturale dei Paesi Bassi e delle Fiandre.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2020
ISBN
9788836001187
Dall’Illuminismo al presente
10. Nostalgia del Secolo d’Oro, rinascita nazionale e modernità
‘Ero soltanto un commerciante; non pensiate però che io disdegnassi il mio mestiere; nessun’altro al mondo è altrettanto utile! – un uomo che deve intendersene di un po’ di tutto e di un po’ di tutti – un uomo che deve avere coraggio per imprese di ogni tipo; coraggio in guerra, in mare e in terra, come se ne andasse dei suoi stessi interessi – un uomo che deve avere il senso della scienza e delle arti, per restare al pari dei propri concorrenti e al corrente della propria epoca, – in una sola parola, un commerciante come lo ero io, – soltanto un commerciante, ripeto. Ma non mi trovavo forse io, raggiunto il sommo sviluppo del mio carattere, esposto alla peggiore degenerazione della mia indole? – Il benessere indebolisce, rammollisce, evira, Jan Salie è figlio della mia abbondanza! Come posso lamentarmene, io che non dovrei accusare che me stesso! Invece dello spirito elevato e nobile che mi aveva animato nei giorni della mia crescita, mi ritrovavo preda dell’annichilimento della ragione e dell’indifferenza del cuore tipici dell’arricchito! Superbo e viziato, arrogante e fiacco, ecco cosa sono diventato!’
Nel passaggio in questione, tratto dal racconto Jan, Jannetje e il loro figlio più piccolo (Jan, Jannetje en hun jongste kind) di Everhardus Potgieter, uno dei protagonisti della vita culturale olandese a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, a esprimersi è Jan sr., personificazione della gloria politica, economica e artistica dei Paesi Bassi. Laddove il padre si è sempre distinto per amore della libertà e spirito d’intraprendenza, il giovane figlio Jan Salie, passivo e compiaciuto di sé, ne rappresenta l’esatto opposto, simboleggiando così la decadenza in cui i Paesi Bassi sono piombati una volta esauritisi i fasti e il prestigio del Secolo d’Oro. La citazione, così come l’intero testo da cui proviene, può essere considerata come un apologo, volto a denunciare il grigiore e la mancanza di vitalità della società olandese e, allo stesso tempo, a proporre una strategia di rilancio nazionale. Il testo è ovviamente prima di tutto espressione delle riflessioni e delle aspirazioni del gruppo di giovani intellettuali riformatori che tennero a battesimo la celebre rivista mensile De Gids (La Guida), apparsa per la prima volta nel 1837 e in cui il racconto di Potgieter uscì nel 1842. Ma è anche un racconto in cui riecheggia un doppio movimento, di nostalgia per un passato perduto da un lato e di aspirazione a un nuovo slancio dall’altro. Doppio movimento che era diventato da oltre un secolo una costante del dibattito pubblico olandese e che, benché destinato a rimanere in buona parte frustrato, era entrato – ed era destinato a restare in qualche misura fino a oggi – al cuore del ‘racconto nazionale’ dei Paesi Bassi.
Da questo punto di vista, può ben dirsi che la fine del Secolo d’Oro era stata vissuta dalla società della Repubblica delle Province Unite come un vero e proprio trauma. Due momenti appaiono particolarmente significativi. Innanzi tutto, il 1672, l’annus horribilis in cui le Province si erano ritrovate sotto attacco da parte delle truppe provenienti dalla Francia, dall’Inghilterra e dai principati vescovili di Colonia e Münster. Il linciaggio del Gran Pensionario Johan de Witt e del fratello Cornelis e il ritorno al potere degli Orange nella persona dello statolder Guglielmo III, che occupava al contempo il trono inglese, misero i Paesi Bassi in condizione di mantenere la propria conformazione territoriale, compresa la roccaforte militare di Maastricht, tanto agognata da Luigi XIV. Tuttavia il Paese non si riprese mai del tutto dai costi sostenuti per lo sforzo bellico e, soprattutto, dalle relative ricadute in termini di limitazione delle attività commerciali. La perdita della supremazia commerciale della Repubblica venne annunciata nel 1713 con la stipula del Trattato di Utrecht che mise fine alla Guerra di Successione Spagnola. Benché parte della coalizione inglese uscita vincitrice dal conflitto, i Paesi Bassi riuscirono soprattutto a rafforzare militarmente i propri confini europei, ma a un costo finanziario enorme che lasciò il Paese sull’orlo della bancarotta. Sul piano internazionale, inoltre, fu soprattutto l’Inghilterra ad affermarsi quale indiscussa potenza marittima, con un’inversione di ruoli con la Repubblica che sarà poi definitivamente sancita nel 1784, alla conclusione della cosiddetta Quarta guerra anglo-olandese, con l’attribuzione all’Inghilterra del monopolio sul commercio internazionale delle spezie.
Il rafforzamento militare interno e la perdita di prestigio internazionale furono origine e al tempo stesso sintomo di un ripiegamento su se stessa della Repubblica, che caratterizzò in buona parte la vita politica e culturale del Paese per tutto il Settecento. In questo contesto è indubbiamente vero che l’esplosione del numero di pubblicazioni a stampa di cui diede prova la Repubblica nel Seicento, in parte sfruttando anche la sua relativa tolleranza di fronte alla censura dei Paesi circostanti, non si riprodusse nel secolo successivo, stagnando grosso modo agli stessi livelli, per quanto di per sé già rimarchevoli. Tale ripiegamento non deve però intendersi quale chiusura a tutte le influenze esterne, ma piuttosto come un degradarsi dell’autoimmagine del proprio peso politico e culturale, pessimista sul piano interno ma proprio per questo fruttuoso in termini di ricettività alle influenze esterne. La trasformazione da potenza degli oceani a realtà economica e culturale europea di medie dimensioni rese quindi comunque possibile una modernizzazione e un ripensamento dell’identità nazionale olandese. Due in particolare furono gli effetti di questa evoluzione. In primo luogo, un lento spostamento di quelle che potremmo definire gerarchie testuali, con il lento avanzamento della prosa sui generi tradizionali della poesia e del teatro. Successivamente, le tradizionali linee di frattura della vita politica olandese, pur restando ben presenti, vennero modificate dall’importazione di nuove idee ‘democratiche’ in cui erano soprattutto – ma non esclusivamente – gli input dell’Illuminismo francese a farsi sentire.
Top 10
Negli ultimi cent’anni di esistenza del vecchio Teatro (Schouwburg) di Amsterdam, fino a quando non bruciò nel 1772, a dominare le scene fu la teoria classicista, una serie di regole che significativamente venivano dette ‘leggi teatrali’. Ferma restando la teoria, è tuttavia legittimo domandarsi fino a che punto quelle leggi avessero un influsso sulla pratica rappresentativa e sul repertorio. Prenderemo come caso di studio la top 10 delle tragedie messe in scena allo Schouwburg almeno una volta all’anno tra il 1700 e il 1772.
Colpisce innanzi tutto il fatto che sei su dieci abbiano debuttato tra 1638 e 1668, tre tra 1683 e 1701 e una soltanto nel 1714: evidentemente il rinnovamento del repertorio era cosa tutt’altro che semplice e la maggior parte dei drammi ‘moderni’ – modellati cioè in senso classicista – non fece davvero concorrenza al repertorio noto. La pratica resisteva alla teoria, per tanti motivi.
La regola dell’unità di luogo implicava che al pubblico venisse offerta poca varietà visuale: idealmente, quel pubblico avrebbe dovuto guardare per tutti e cinque gli atti la stessa scenografia. Tuttavia, già alla fine del Seicento i classicisti dovettero constatare che “la maggior parte degli spettatori trae diletto da scenari differenti”. Si pensò quindi a dei sotterfugi: un’opera teatrale, si ragionava, può anche svolgersi in più luoghi, purché tra loro vicini, ad esempio il primo atto in una casa, il secondo nel giardino sul retro e il terzo dai vicini. Nelle tragedie settecentesche troviamo spesso quest’‘unità di luogo per atto’, che rende possibile la sostituzione delle scenografie tra un atto e l’altro.
Nemmeno le regole del decoro, che prescrivevano cosa si poteva e non si poteva mettere in scena, vennero rispettate pedissequamente. Il divieto di mostrare atti di violenza creava difficoltà, trattandosi di scene accattivanti, capaci di attirare il pubblico. Per questo si escogitò una soluzione, unica nel panorama europeo: il tableau vivant, chiamato anche rappresentazione muta, allestito tra un atto e l’altro, talvolta perfino all’interno di uno stesso atto. Celebre è quello dell’assassinio delle Clarisse nel Gysbreght van Aemstel (1637) di Vondel, fino a inizio Ottocento elemento imprescindibile della messinscena. Anche le due tragedie più popolari di materia storico-patriottica – Assedio e liberazione della città di Leida (Beleg en ontzet der stad Leiden, 1645) di Reinier Bontius e La morte dei conti Egmond e Hoorne (De dood van de graven Egmond en Hoorne, 1685) di Thomas Asselijn – prevedevano più di un tableau vivant. In quella di Bontius si assisteva alla scena agghiacciante di uno Spagnolo che gettava nel fuoco un bambino in fasce, mentre il dramma di Asselijn si chiudeva mostrando le teste mozzate dei nobili Egmond e Hoorne, infilzate su una picca. Decine e decine sono i tableaux a noi noti, non sempre così terrificanti, pensati dai drammaturghi stessi o, più spesso, aggiunti in un secondo momento da altri poeti, dagli allestitori o dagli attori.
C’erano poi le tragedie con marchingegni di ogni tipo, un genere che non rispondeva minimamente alle leggi classiciste, poiché vi comparivano maghi, spiriti e divinità. Era il caso degli Incanti di Armida (Toverijen van Armida, 1695) di Adriaan Peys, che presentava altri elementi contrastanti con le ‘leggi teatrali’, come animali parlanti in scena. Altre opere di gran successo hanno un’origine prettamente non classicista, come La donna incoronata dopo la morte (De gekroonde na haar dood, 1701), Don Luis de Vargas (1668) e Sigismondo (Sigismundus, 1647), in origine comedias spagnole. Per quanto nel corso del secolo si cercasse di adattarle il più possibile al corsetto normativo, ‘spagnolo’ rimase sinonimo di irregolare, non in linea con le leggi del teatro, come nel caso de L’invidia mortale d’amore (De doodelijke minnenyd, 1714) di Willem van der Hoeven. Alla top 10 appartiene anche Aran e Tito (Aran en Titus, 1641) di Jan Vos, sanguinoso dramma della vendetta e obiettivo privilegiato degli strali della critica classicista che lo bollava come blasfemo, indisciplinato e ‘delirante’.
Solo un’opera della top 10, che poteva misurarsi con le altre quanto a popolarità, veniva giudicata all’epoca rispondente alle regole classiciste: Il Cid di Corneille. Ma in Olanda si ebbe l’ardire di allestire dei tableaux vivants anche per Il Cid...
La rivalutazione della prosa si espresse sia sul piano letterario che su quello giornalistico, due livelli non sempre chiaramente distinti. Con il Settecento fecero infatti il loro ingresso nel panorama culturale della Repubblica nuove riviste e nuove forme di sociabilità culturale. Le prime furono spesso modellate sull’esempio dei periodici spettatoriali inglesi, di cui The Tatler (1709-1711) e The Spectator (1711-1712) restano le manifestazioni più note. Esempi di breve durata, certo, ma che non mancarono di generare numerosi epigoni sia in patria che oltremanica. A farsi carico di importare questa nuova forma di espressione nei Paesi Bassi fu, tra gli altri, Justus van Effen che intitolò programmaticamente il suo periodico più noto Hollandsche Spectator (Spettatore Olandese). Per quanto di esistenza non molto più lunga dei modelli inglesi (1731-1735), lo Spectator di Van Effen ben mostra alcuni sviluppi interessanti che si consolideranno ulteriormente a partire dalla metà del secolo.
Va precisato innanzi tutto che la pubblicazione e tutti i contributi in essa contenuti apparivano in forma anonima, a firma spesso di personaggi fittizi quali Il Filosofo o Il Patriota, dietro ai quali si celava di solito lo stesso Van Effen. Il carattere spettatoriale della pubblicazione risiedeva poi nella sua vocazione moralistica, vale a dire di osservatore dei mores della società (borghese) neerlandese e di segnalazione dei vizi da correggere. Due principi si impongono come necessari agli occhi di Van Effen, sia a livello morale che sul piano prettamente stilistico:
Per prima caso vigilerò ad evitare i periodi allungati, nei quali si è soliti, alla maniera latina, porre alla fine il verbo da cui dipende l’intera frase; […] Per chiarezza, inoltre, rinuncerò accuratamente alle parentesi o agli incisi troppo lunghi che in alcuni dei nostri scrittori, […] racchiudono a loro volta altre incidentali, provocando inevitabilmente confusione nel pensiero del lettore e costringendolo a rileggere più volte la medesima frase. […] Essendo mio obiettivo procurare diletto e utilità ai miei concittadini, mi applicherò particolarmente al perseguimento di comprensibilità e chiarezza.
Da questi principi di chiarezza e comprensibilità deriva una prosa leggera, con frasi relativamente brevi, pochi incisi e l’aspirazione – in gran parte non realizzata – a ridurre il numero di gallicismi, di uso crescente nella lingua neerlandese. Per il resto, così come i presunti autori dello Spectator erano protetti dall’anonimato, lo stesso accadeva anche con i soggetti delle loro critiche, che si rivolgevano alla fustigazione, spesso sotto forma di apologhi o di satire, dei vizi osservati nella società, senza però mai lasciarsi andare ad attacchi ad personam. Interessante è inoltre il modus operandi di Van Effen che, pur essendo un aristocratico, sceglie esplicitamente di rivolgersi ad un pubblico di estrazione media, frequentatore di caffè e società, a cui desidera trasmettere nuovi valori, come tolleranza e fiducia nella ragione. Per farlo sceglie però non di addentrarsi in discussioni filosofiche astratte ma di presentare ai propri lettori casi specifici, a volte fittiziamente mascherati da lettere alla redazione, di cui il giornale espone poi in dettaglio i pro e i contro, secondo un approccio empirico figlio della Rivoluzione scientifica e dell’evoluzione filosofica che ne era seguita.
Va inoltre sottolineata la scelta di Van Effen di redigere lo Spectator in lingua neerlandese, in controtendenza rispetto agli inizi della propria attività di giornalista segnati, nel 1713, dalla fondazione del Journal Littéraire de la Haye. In questo cambiamento si può scorgere tra l’altro, sotto l’influsso della tolleranza settecentesca e dell’Illuminismo, un segnale del rafforzamento di una proto-società civile, fondata sullo scambio e sulla discussione delle idee, e della maturazione di una coscienza nazionale di cui la lingua, con le sue capacità espressive, divenne una delle manifestazioni più evidenti. Vi si può rintracciare anche l’aspirazione alla creazione di un compendio universalistico delle conoscenze disponibili sull’uomo e sulla società, di cui l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert diventerà, nella seconda metà del secolo, un esempio eloquente. Le due tendenze – nazionale ed enciclopedica – sono ben presenti nella realtà culturale settecentesca e non faranno che convergere ancor più nei decenni a seguire. Un’evoluzione ben dimostrata dalla popolarità della cosiddetta caratteriologia, antesignana degli studi etnografici e folkloristici, di cui il notaio, pastore e politico Wilhelm Antonie Ockerse con la sua Caratteriologia della storia patria (Characterkunde der Vaderlandsche geschiedenis, in tre parti uscite tra il 1788 e il 1797) può essere considerato il principale esponente. Il tono delle riflessioni di Ockerse resta di genere fortemente empiristico anche se l’autore rivendica il carattere amoralistico e oggettivo della propria ricerca. Obiettivo dichiarato è quello di ricercar...

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