Goffredo Parise
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Goffredo Parise

I sillabari della percezione

Elisa Attanasio

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Goffredo Parise

I sillabari della percezione

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Il saggio esplora l'opera di Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986) a partire dalla centralità della percezione e della visione, quali dispositivi della scrittura capaci di riflettere l'atto originario di apprensione del mondo. Per indagare tali questioni, l'autrice forza i confini prettamente letterari per sondare terreni vicini alla filosofia (Maurice Merleau-Ponty per il rapporto con la fenomenologia e François Jullien in relazione all'Oriente), all'antropologia del visivo e alla critica d'arte (Georges Didi-Huberman). L'analogia con la riflessione filosofica – ovvero la possibilità di rileggere l'opera parisiana attraverso la lente del primato percettivo – e l'affinità con la pratica pittorica testimoniano la necessità di superare frontiere tipicamente letterarie e l'esigenza di utilizzare strumenti interpretativi provenienti da altri campi di indagine.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788857558196
Capitolo IX
L’Oriente
L’universo non è tenuto a essere bello, eppure lo è.
(F. Cheng)560
Inutile analizzare, pasticciare, rimediare mediante l’analisi.
La sublime sintesi è un regalo del caso, è l’armonia che ci deve essere.
(G. Parise)561
9.1 La forma breve
Se è vero che la visività risulta elemento distintivo per la pagina di reportage – come inviato, Parise si affida a uno sguardo il più possibile depurato da residui ideologici – proprio in Oriente tale categoria sembra arricchirsi di elementi stilistici e metodologici, svelando “l’evidenza poetica della realtà, colta nel suo semplice mostrarsi”562.
Nell’autunno 1980 Parise si reca in Giappone su invito dell’ambasciatore Boris Biancheri, e vi rimane per oltre un mese: gli articoli di corrispondenza appariranno sul “Corriere della Sera” dal gennaio 1981 al febbraio 1982, per essere poi pubblicati da Mondadori nel novembre del 1982 in un volume corredato di storie illustrate, fotografie e dipinti dal titolo L’eleganza è frigida. Parise ha già affinato, dalle esperienze precedenti, le sue capacità di reporter e i suoi strumenti (l’occhio, la mente, il cuore). Il viaggio inizia con una dichiarazione di poetica valida per l’opera parisiana nel suo insieme: i sensi sono “il primo e sempre più utile strumento di conoscenza”563; poi, tra essi, che pure rimangono molto vivi in tutto il testo, si distingue quello della vista.
[…] c’erano assai pochi passanti che Marco naturalmente osservò con attenzione: erano uomini, donne e bambini (scolari) dai tipici tratti giapponesi; alcuni dei quali mostravano negli occhi una grande attenzione e concentrazione. L’espressione degli occhi tuttavia passava rapidamente attraverso due fasi: una di attenzione e un’altra di stupore. L’attenzione era attratta evidentemente dai propri pensieri mentre lo stupore, anche se minimo, l’affare di un attimo, Marco lo attribuì alla propria persona che, anche dopo un secolo, costituiva una certa quale novità per molti giapponesi. […] A Marco insomma parve di cogliere in quegli sguardi, del resto molto belli, e solo per fulminei istanti, la coscienza di una profonda diversità.564
O ancora:
Ma ciò che colpì Marco sopra ogni cosa erano la gentilezza delle persone e l’inalterabilità del loro volto che lasciava trasparire tuttavia l’emozione soltanto dagli occhi. “Tutti gli occhi degli esseri umani traspaiono qualche cosa – si disse Marco – ma gli occhi dei giapponesi, che ho davanti ai miei, pure non facendo trasparire nulla, fanno sentire molte cose che si potrebbero riassumere in un solo sentimento: la timidezza infantile”.565
Dall’Oriente Parise impara un nuovo modo di posare lo sguardo, che non cerca l’analisi ma solo la sintesi, perché “il Giappone non si presta all’analisi ma quasi esclusivamente a una serie pressoché infinita di elettroshock, di fulminee intuizioni, quello che i giapponesi chiamano satori, una specie di perdita di conoscenza, e niente altro”566. Da qui la critica all’Impero dei segni recensito nel 1984: secondo Parise, Barthes è caduto nella trappola dell’analisi, svuotando così di mistero ogni aspetto della cultura orientale, dall’haiku alla confezione di pacchetti, all’inchino. Sebbene Barthes, in calce a una riflessione sull’haiku, affermi che “le vie dell’interpretazione non possono dunque che sciupare lo haiku: perché il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio, non di provocarlo”567, e più avanti spieghi come l’haiku non abbia alcuna finalità letteraria, bensì faccia scomparire, al suo interno, le due funzioni fondamentali della nostra scrittura classica (la descrizione e la definizione), Parise afferma che il lettore dell’Impero dei segni viene ingannato da un labirinto concettuale che rischia di sfociare nel narcisismo568. Il modello che vi oppone è quello dell’Eleganza è frigida: proibendosi l’assuefazione alle abitudini visive e mantenendo sempre un altissimo livello di curiosità, lo sguardo si fa più intimo e si abbandona all’intuito, che diviene in Oriente lo strumento di un giudizio liberato dal giudizio569. Il reporter non cerca più di comprendere, ma intuisce una grazia estetica che emerge nei momenti più profondi del suo viaggio. A volte si rende conto di non poter fare piena esperienza di tale grazia, e prova rammarico per non aver studiato lo Zen al liceo, come scrive al professore di filosofia Giuseppe Faggin570 in una cartolina spedita da Kyoto. Non è certo casuale che nell’Eleganza è frigida sia esplicitamente nominata l’opera di Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco: da questo testo emerge, attraverso l’apprendistato di un occidentale (un professore tedesco di filosofia) alla disciplina del tiro con l’arco, lo stesso desiderio provato da Parise di liberarsi della speculazione, di superare la tecnica per far sì che diventi un’arte inappresa. La via è quella di una diretta esperienza di ciò che “non può essere concepito intellettualmente, anzi non può essere afferrato e spiegato neppure dopo che se ne è fatto esperienza, per quanto precisa e inoppugnabile: lo si conosce non conoscendolo”571. In questo senso, l’arco e la freccia dell’opera di Herrigel divengono nel viaggio di Parise gli occhi: la via verso un possibile approdo interiore, che, come l’arte, non conosce istruzioni o svelamenti. Come propone La Capria, il periodo tra gli anni Sessanta e Settanta fu per Parise “come l’apprendistato del tiro dell’arco nella disciplina zen”572: attraverso l’Oriente, il reporter dimentica la tecnica (o la interiorizza fino a farla rientrare in una zona inconscia) e, senza la presunzione di colpire il bersaglio, lascia partire la freccia, fino a centrare i Sillabari. Che davvero sembrano guidati da una “distrazione zen” (l’intuizione è ancora di La Capria).
Dopo avere assimilato gli strumenti, Parise può riflettere sul viaggio stesso, come anticipa in una considerazione inserita nell’Avvertenza a Guerre politiche:
Scrivendo e pensando e guardando con enorme attenzione quello che lo circonda e talvolta, quasi sempre, soffrendo per l’impossibilità di mutarlo (le sole cose che sa veramente fare uno scrittore) lo scrittore che viaggia finisce per avere una sua idea di luoghi e persone diversi. Che analizza, con automatico piacere professionale, come insegnò a fare allora Marco Polo, un grande fenomenologo ante litteram. La gioventù lo aiuta a guardare, perché l’occhio, la mente e il cuore sono forti e resistenti anche ai grandi dolori dell’umanità. Più avanti, nella maturità, lo scrittore tende a riflettere e a ricordare e a vedere come si dice “in prospettiv...

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