V. La diffusione in aree non contigue. Il caso del Piemonte
Il Piemonte è una delle regioni del Nord Italia in cui, con maggiore evidenza, si è manifestata l’espansione del fenomeno mafioso, fino al punto da configurare, in determinati contesti, vere e proprie forme di radicamento territoriale. La situazione piemontese è dunque significativa per analizzare i processi di diffusione della mafia in aree non contigue a quelle tradizionali.
In questa regione si è verificato uno dei pochi casi di «omicidi eccellenti» per motivi di mafia al di fuori dei contesti tradizionali. Si tratta dell’omicidio di Bruno Caccia, procuratore della Repubblica di Torino, commesso nel 1983 da soggetti appartenenti a gruppi mafiosi di origine calabrese che all’epoca operavano nei mercati illegali del capoluogo piemontese, in accordo con il clan dei Catanesi (Tribunale di Milano 1992). È in Piemonte, inoltre, che per la prima volta è stato applicato in un comune del Nord il provvedimento relativo allo scioglimento delle amministrazioni comunali per infiltrazioni mafiose. Nel maggio 1995 è stato infatti sciolto il Consiglio comunale di Bardonecchia, centro turistico e nota stazione sciistica in provincia di Torino1.
Le prime manifestazioni criminali di gruppi di tipo mafioso risalgono agli anni settanta quando vengono compiuti numerosi sequestri di persona. Tra il 1973 e il 1984 si sono registrati in Piemonte trentasette sequestri di persona, intesi in senso stretto come delitti realizzati a scopo di estorsione da gruppi criminali organizzati2. Le indagini relative alla maggior parte di tali sequestri hanno accertato il coinvolgimento di soggetti legati a formazioni criminali della provincia di Reggio Calabria (Tribunale di Torino 1985). Questi soggetti, utilizzando basi logistiche fornite da calabresi residenti nella regione, hanno spesso agito di concerto con le cosche di appartenenza: in taluni casi gli ostaggi sequestrati in Piemonte sono stati trasportati e custoditi in Aspromonte (Ministero dell’Interno 1986, pp. 89-90).
Negli anni ottanta, la presenza di gruppi mafiosi si manifesta con particolare evidenza in relazione ai traffici illeciti, in particolare nel campo degli stupefacenti3. Il fenomeno della criminalità organizzata assume connotati più rilevanti, come vedremo, nell’area metropolitana di Torino, in alcune zone della stessa provincia, nel Vercellese e nel Verbano-Cusio-Ossola. Nel resto della regione non sembra riscontrabile il radicamento di formazioni criminali strutturate in forma stabile e con le caratteristiche proprie delle tradizionali associazioni di tipo mafioso4: sono rilevabili al più presenze di soggetti che mantengono contatti con individui o gruppi criminali di zone di tradizione mafiosa, che in alcune circostanze si prestano a fornire ad essi assistenza (Cpa 1993l). In Piemonte sono prevalenti gruppi siciliani, soprattutto catanesi, e calabresi, mentre non si riscontra una presenza degna di rilievo di esponenti della camorra.
Le principali attività illecite delle organizzazioni criminali che operano nella regione sono, oltre al traffico di stupefacenti che è certamente il settore più rilevante, le estorsioni, il cosiddetto «totonero» (vale a dire il controllo del sistema delle scommesse clandestine sul calcio) e l’usura. Quest’ultima risulta largamente praticata e, in alcuni casi, consente ai gruppi criminali di subentrare nella propietà di aziende, allorché i legittimi titolari non riescono a far fronte alle richieste sempre più onerose degli usurai5 (Cpa 1994b, pp. 201-2).
Negli anni passati sono stati segnalati alcuni tentativi di inserimento dei gruppi criminali all’interno delle amministrazioni locali: «Nell’ambito delle singole famiglie si individuano delle candidature che vengono sostenute alle elezioni comunali per poter gestire la cosa pubblica dall’interno». Secondo le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, in alcuni casi «elementi calabresi venivano trasferiti nelle regioni settentrionali per farli partecipare alle elezioni amministrative per poi arrivare, in caso di elezione, al controllo dei lavori pubblici e delle altre attività dell’ente locale» (ibid., p. 196).
Nella relazione della Commissione parlamentare antimafia sugli insediamenti e le infiltrazioni della mafia in aree non tradizionali si escludono in Piemonte veri e propri collegamenti tra politici, amministratori locali ed esponenti della criminalità organizzata. Sono emersi, tuttavia, alcuni episodi che segnalano il tentativo di gruppi criminali di stabilire contatti organici con il mondo della politica. Si tratta di casi che riguardano soprattutto alcuni comuni, in genere piccoli, in cui tali formazioni criminali sono insediate o svolgono prevalentemente le loro attività. Recentemente esponenti politici e amministrativi di alcuni comuni della Val d’Ossola sono stati arrestati con l’accusa di aver tutelato gli interessi di una cosca della ’ndrangheta insediatasi nella zona.
In Piemonte non risultano infiltrazioni mafiose nel settore industriale, salvo nell’edilizia, mentre si segnalano situazioni sospette in quello finanziario. Negli anni novanta si è assistito a una proliferazione di società finanziarie e fiduciarie che possono costituire un rilevante canale di riciclaggio di denaro sporco. Secondo la Guardia di finanza (1993, p. 4) il numero elevato di tali società – 2138 nella sola provincia di Torino, di cui ben 1805 nella città capoluogo – costituisce un «campanello d’allarme». Le ingenti somme di denaro che derivano dal traffico di droga possono essere riciclate direttamente attraverso le società finanziarie, anche se allo stato delle conoscenze sembrano prevalenti altre forme di investimento nell’economia legale, come la costituzione o acquisizione di imprese in particolare nei settori dell’edilizia e del commercio6.
Secondo la Commissione parlamentare antimafia,
la vera presenza mafiosa nella regione Piemonte è, certamente, quella del terzo livello, quella, cioè, che ricicla e reinveste i grandi guadagni provenienti principalmente dal traffico e dallo spaccio di sostanze stupefacenti. A Torino l’attività delle famiglie mafiose consiste nell’acquisto di esercizi pubblici sull’orlo del fallimento spesso pagando un prezzo considerevolmente superiore al valore di mercato. I dati relativi agli anni 1991-1992 indicano l’inserimento di personaggi legati ad ambienti mafiosi in 55 esercizi pubblici bene identificabili nella loro tipologia (bar, night club, sala giochi, discoteca, sartoria, abbigliamento, rivendita di bibite, assicurazioni) (Cpa 1994b, p. 201).
Le organizzazioni criminali di tipo mafioso che operano nella regione «manifestano la loro pericolosità anche con riferimento alla capacità dimostrata di aggregare le forze delinquenziali di medio e basso livello che si rendono disponibili sul territorio, pur con diversa origine geografica» (Guardia di finanza 1993, p. 5).
In una relazione tenuta al convegno su «Mafia e grande criminalità» promosso dal Consiglio regionale del Piemonte nel novembre 1983, Sebastiano Sorbello, allora giudice istruttore presso il Tribunale di Torino, ha preso in considerazione le cause che hanno determinato la diffusione della mafia in Piemonte. Il magistrato non è d’accordo con coloro che indicano nell’applicazione dell’istituto del soggiorno obbligato la causa principale dell’esportazione al Nord del fenomeno. Senza sminuire la portata criminogena di tale misura, egli infatti sostiene che
l’esportazione di uomini e condotte mafiose è dovuta, principalmente, all’imponente flusso migratorio dal sud alle grandi aree metropolitane del triangolo industriale (flusso degli anni cinquanta) ed alla progressiva assimilazione ed omogeneizzazione dei fenomeni di criminalità sull’intero territorio nazionale, in dipendenza delle caratteristiche di sviluppo economico e sociale dell’intero paese.
In altri termini, la naturale tendenza di un’efficiente industria del delitto ad insediarsi nelle aree in cui maggiore fosse la prospettiva di lucro è stata favorita dal fatto che il flusso migratorio sopra menzionato ha riprodotto le condizioni socio-culturali degli ambienti tradizionalmente mafiosi: molti emigrati, vivendo ai margini della criminalità, hanno finito con il costituire l’acqua entro la quale il pesce-mafia si muove e si nutre (Sorbello 1983, pp. 54-5, corsivo mio).
Si tratta, com’è evidente, di una visione piuttosto culturalista del fenomeno, che non tiene conto del fatto che il «pesce-mafia» ha una grande e autonoma capacità di adattamento e riesce a muoversi anche in acque molto diverse da quelle di origine. In questa interpretazione è ritenuta rilevante l’immigrazione meridionale che avrebbe riprodotto nei luoghi di arrivo quelle condizioni di contesto in cui tradizionalmente la mafia si sviluppa, mentre viene dato scarso peso al soggiorno obbligato. Al riguardo si evidenzia che il numero degli inviati in soggiorno obbligato in località piemontesi è stato basso: prendendo in considerazione il periodo tra il 1970 e il 1982 viene osservato infatti che «sono stati soltanto 17 (fra cui 6 siciliani) i soggiornanti in Torino e provincia e 31 (fra cui 17 siciliani e 9 calabresi) le persone (con divieto di soggiorno in determinate regioni e comuni) che hanno eletto il domicilio in Torino e provincia» (ibid., p. 55). Viene sottolineato inoltre che nei due gruppi di soggiornanti non figurano elementi di spicco delle gerarchie mafiose e che anche i dati relativi alle altre province del Piemonte sembrano confermare la scarsa rilevanza, sia in termini quantitativi che qualitativi, dell’istituto del soggiorno obbligato nella regione. È tuttavia da tenere presente che i soggiornanti obbligati inviati in Piemonte sono stati molto più numerosi nel periodo precedente a quello considerato dal giudice Sorbello. Dai dati della Commissione antimafia, si può rilevare infatti che tra il 1961 e il 1972 sono stati 54 i soggiornanti in Torino e provincia e complessivamente 288 in tutta la regione7 (Cpa 1976). Quindi in un’ottica temporale più ampia anche il peso del soggiorno obbligato sembra assumere una rilevanza maggiore.
La Commissione antimafia ha ribadito l’importanza del soggiorno obbligato come fattore che ha incentivato la diffusione di forme di criminalità organizzata di tipo mafioso in Piemonte:
L’istituto del soggiorno obbligato ha consentito ad importanti personaggi della mafia e della ’ndrangheta di «esportare» i loro collaudati sistemi di organizzazione criminale. Nel periodo 1975-77, in particolare, il clan Facchineri strinse una proficua alleanza con la malavita locale per dedicarsi ai sequestri di persona a scopo di estorsione. Già nel 1974 una delibera della Giunta comunale di Ciriè invitava le autorità competenti a revocare il provvedimento di soggiorno obbligato del boss della mafia Di Cristina. Veniva sottolineato che nella zona erano presenti ben 5000 immigrati che consentivano al Di Cristina di operare in un ambiente assai simile a quello della sua zona di provenienza e si proponeva di individuare zone del paese che consentissero di recidere i contatti con le zone di origine (Cpa 1994b, pp. 191-2).
Per comprendere i processi di diffusione della mafia in Piemonte sembrano quindi essere rilevanti le tesi riconducibili alla «metafora del contagio», vale a dire l’insorgenza della mafia come conseguenza inattesa di fatti demografici.
A parte il ruolo esercitato dal soggiorno obbligato, è infatti da considerare la presenza di un forte nucleo di immigrati provenienti dalle aree di tradizionale insediamento mafioso: secondo il Censimento del 1981, risiedevano nella regione oltre 430000 persone nate in Campania, Calabria e Sicilia. Tra le regioni del Centro-nord, il Piemonte presentava la percentuale più alta (quasi il 10%), rispetto alla popolazione residente, di individui nati nelle regioni meridionali di tradizione mafiosa.
Lo sviluppo industriale, soprattutto nell’area metropolitana, e la forte espansione urbanistica, in particolare nelle località montane di richiamo turistico, hanno attirato, negli anni cinquanta e sessanta, oltre a centinaia di migliaia di immigrati, anche le organizzazioni mafiose che hanno trovato favorevoli opportunità per estendere i traffici illeciti.
Se gli immigrati giunti a Torino e occupati nella grande industria hanno rinvenuto nel sindacato e nel movimento operaio un potente fattore di integrazione (Arlacchi 1983b), quelli che invece hanno trovato lavoro nella provincia, soprattutto nel campo dell’edilizia, si sono scoperti spesso privi di garanzie e di tutela. Non è un caso, come vedremo, che proprio nelle zone in cui si è registrato un forte sviluppo edilizio, come nella Val di Susa e nelle valli canavesane, troviamo insieme a grossi insediamenti di immigrati meridionali anche la presenza di soggetti mafiosi. È infatti nel campo dell’edilizia privata che si realizzano i primi inserimenti di gruppi mafiosi. In questo settore può essere ravvisato un orientamento «strategico» della mafia incardinato su una duplice opzione:
conquistare il controllo del subappalto cottimistico di lavori nell’esecuzione di manufatti edilizi; entrare prepotentemente nel «giro» dell’imprenditoria del settore attraverso la ramificazione di tale controllo e, adoperando le tecniche della sopraffazione mafiosa, fondare «colonie» di predominio dell’«onorata società» in grado di muoversi autonomamente sul mercato della speculazione (Giovana 1983, p. 73).
Per gli immigrati che non riuscivano a ottenere un lavoro in Fiat, le maggiori possibilità di trovare un’occupazione si presentavano nel mercato edilizio, essendo in genere i lavoratori meridionali sprovvisti di qualifiche professionali che consentissero l’accesso in aziende di altri settori. Pur di sopravvivere, si era quindi disposti ad accettare soluzioni lavorative anche precarie, a termine. Del resto, «il mercato delle braccia presentava vaste possibilità di reclutamento con procedure spicce e ricattatorie» (ibid.). Questa situazione favoriva l’azione dei mafiosi che nella fase iniziale cercarono di inserirsi nel settore attraverso i subappalti, organizzando e controllando l’assegnazione di lavori a squadre di cottimisti. I mafiosi riuscirono a conquistare l’egemonia in questo campo anche in grandi cantieri edili, ricorrendo a diverse forme di prevaricazione, senza escludere la minaccia e l’uso diretto della violenza.
I ricatti e le minacce andavano dalle imposizioni di salario ai membri delle squadre, privi di coperture previdenziali e assistenziali – pena la loro eclusione dal lavoro e, pena non meno temibile, l’isolamento in un contesto cosparso di «sentinelle» delle cosche – al «consiglio» dato ai cantieri affinché privilegiassero la concessione dei subappalti a determinate squadre, alla più o meno drastica, secondo necessità, intimidazione a ditte concorrenti affinché si astenessero dall’intralciare le pretese mafiose. In questo perverso congegno, inoltre, la mafia scatenava implicitamente sotterranei e talora feroci antagonismi tra lavoratori attanagliati dal bisogno, per assicurarsi la «benevolenza» di capi e capetti preposti al reclutamento. In tal modo, il perimetro delle «acque di nuoto» mafiose si ampliava (ibid., p. 74).
Attraverso il controll...