Future of work: le persone al centro
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Future of work: le persone al centro

Costruire il lavoro e la società del futuro

Stefano Besana

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Costruire il lavoro e la società del futuro

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Quali scenari caratterizzano il futuro del lavoro? Sono possibili nuove forme organizzative? Quali sono gli approcci di maggiore successo e le lesson learned delle aziende che ce l'hanno fatta? Quali, infine, le barriere che impediscono una trasformazione concreta, efficace e duratura delle organizzazioni? Future of work %1Crisponde a queste e ad altre domande proponendo innovative riflessioni attorno ai concetti di resilienza, trasformazione, agile, holacracy, automazione e intelligenza artificiale applicata alle organizzazioni. Ma soprattutto mostra l'effetto strategico di un nuovo umanesimo organizzativo: un approccio caratterizzato da trasparenza, partecipazione ed equilibrio, nella convinzione che il prossimo futuro sarà dominato dalle imprese che saranno capaci di valorizzare il potenziale nascosto nell'energia, nella passione e nella motivazione delle persone e di costruire allo stesso tempo valore per l'intera società. Casi studio e importanti contributi di docenti universitari e professionisti completano il manuale, rendendolo una guida per leader, manager e responsabili delle risorse umane, per capire come creare nuovi modelli di lavoro più inclusivi, collaborativi e a misura di donna e di uomo.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2021
ISBN
9788836005741
1Resilienza, trasformazione e futuro del lavoro
a cura di Carlo Chiattelli1
Nel volgere di una manciata di mesi il mercato del lavoro è stato oggetto di un cambiamento estremamente rilevante, che potrebbe avere effetti destinati a durare nel lungo periodo.
La fotografia del mercato del lavoro scattata alla fine del 2019 vedeva i Paesi occidentali interessati da una fase di netta ripresa dopo la crisi finanziaria di inizio decennio e le imprese, come già accaduto nelle precedenti fasi di “salto” tecnologico, segnalavano un crescente disallineamento tra domanda e offerta di competenze (OCSE 2018).
In Italia in particolare si registrava un elevato livello di skill mismatch, che si verifica quando le qualifiche di un lavoratore non soddisfano quelle generalmente richieste per il suo ruolo (38,2% contro la media UE del 33,5%).
Nel 2020, del resto, più di un terzo delle ricerche di personale delle imprese si scontrava con la difficoltà di reperimento di laureati, in primo luogo a causa del ridotto numero di candidati (per il 53% delle imprese) e, in secondo luogo, della loro impreparazione (per il 39% delle imprese). Secondo il Sistema informativo Excelsior, le professionalità più difficili da trovare per le imprese rientrano nel campo informatico e riguardano, quindi, i tecnici programmatori e gli analisti e progettisti di software (Rapporto Unioncamere 2020).
La resilienza del lavoro tra remotizzazione e nuovi divari
Questo disallineamento rischia di venire oggi aggravato dall’impatto sul mercato del lavoro della pandemia da COVID-19, che ha avuto come primo e principale effetto l’accelerazione di alcuni trend già in atto e ha innescato mutamenti complessi che toccano le dimensioni tradizionali delle competenze, delle qualifiche e delle mansioni.
Guardando innanzitutto alla resilienza dell’occupazione, è da notare come il lavoro da remoto, definito anche impropriamente smart working (capiremo poi i corretti termini in gioco), che è stato fino al 2019 una pratica piuttosto marginale nel contesto italiano (nel 2019 solo il 3,6% dei lavoratori dipendenti e il 12,9% dei lavoratori autonomi praticavano, anche sporadicamente, forme di lavoro da remoto, a fronte di dati europei rispettivamente del 5,4% e 19,4%),2 con l’irrompere della pandemia da COVID-19 e in seguito all’adozione delle misure di contenimento del contagio del marzo 2020, sia diventato una modalità di lavoro molto diffusa sia nel settore privato, dove peraltro soprattutto le grandi aziende avevano già avviato progetti di lavoro a distanza ancor prima che la legge italiana regolamentasse la materia, sia nella Pubblica Amministrazione3.
Sull’onda dell’emergenza, il problema dell’adoption di queste modalità di lavoro e degli strumenti sottesi è stato rapidamente superato.
Verso un consolidamento dello smart working
Secondo l’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, se durante il lockdown 6,58 milioni di lavoratori sono passati al lavoro da remoto (circa il 28,3% della forza lavoro occupata a marzo 2020 – ISTAT, 2020), pur a fronte di una lieve contrazione dovuta alle riaperture di settembre 2020, tale modalità pare destinata ad affermarsi stabilmente nel post pandemia4, anche in ragione del fatto che, come evidenziato da alcune stime presentate all’interno di una ricerca a cura della società di consulenza EY, il numero di lavoratori in condizione di svolgere in tutto o in parte da remoto la propria attività è ben più ampio rispetto a quello di coloro che sono passati al lavoro da remoto durante l’emergenza pandemica: si tratta di oltre 9 milioni e mezzo di lavoratori potenzialmente “remotizzabili” (circa il 41,6% della forza lavoro occupata oggi).
In queste stime rientrano i profili professionali più tipicamente associati al lavoro in modalità smart, ossia manager, ricercatori, quadri, professionisti, tecnici e impiegati d’ufficio, incluse tutte le categorie di lavoratori che possono svolgere il proprio lavoro in sicurezza, restando a casa e/o spostandosi per andare a lavorare, ma mantenendo contatti sporadici con le altre persone.
La possibilità di svolgere da remoto le attività che fino a poco tempo fa venivano sostenute sul posto di lavoro va ad aggiungersi alla netta accelerazione impressa ai processi di digitalizzazione e automazione delle professioni durante l’emergenza.
L’insieme di questi rapidi cambiamenti potrebbe portare con sé un ampliamento del disallineamento tra le competenze richieste per svolgere alcune mansioni e quelle attualmente in possesso dei lavoratori, oltre a far emergere nuovi divari e approfondire quelli preesistenti.
Infatti, nel nostro Paese esiste in primo luogo un divario di tipo materiale, conseguenza del ritardo infrastrutturale di alcune aree – secondo l’indagine DESI della Commissione Europea una famiglia su dieci nelle zone periferiche non ha accesso alla banda larga fissa (Commissione Europea 2020) – ma ve ne è anche uno che riguarda l’alfabetizzazione digitale.
Il divario tra chi possiede competenze digitali di base e chi ne è privo è uno dei principali gap di cui soffre il nostro Paese, come confermato dal DESI (solo il 42% delle persone tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base, contro una media UE del 58%), ma è tanto più grave se si guarda alla forza lavoro specializzata da poter occupare in questi settori cruciali (solo l’1% dei laureati lo è in discipline ICT, il valore più basso nell’UE, mentre gli specialisti ICT rappresentano solo il 2,8% della forza lavoro occupata).
È prevedibile, dunque, che l’accelerazione di questi trend aumenterà nel medio periodo la quota dei lavoratori a rischio di spiazzamento a causa della digitalizzazione e dell’automazione.
L’evoluzione delle professioni: tre processi trasformativi
Le trasformazioni descritte porteranno molto probabilmente a una accentuazione del fenomeno della polarizzazione del mercato del lavoro, che vedrà nell’arco dei prossimi dieci anni la crescita occupazionale concentrarsi nelle professioni più qualificate a detrimento di quelle meno qualificate.
È quanto emerge dagli esiti di uno studio condotto da EY, la nota società di consulenza internazionale, insieme a Pearson e Manpower, che ha permesso di costruire, sulla base di tecniche di machine learning e intelligenza artificiale, un modello predittivo della domanda di professioni e competenze in Italia nei prossimi dieci anni. Secondo tale studio, circa il 36% della forza lavoro attuale svolge professioni destinate a crescere nel prossimo decennio, mentre rimarranno stabili il 20% delle professioni e si registrerà invece una decrescita per il restante 44%.
A crescere non saranno però solo le professioni legate a vario titolo alla tecnologia: aumenteranno anche quelle negli ambiti della cultura, della comunicazione, dei servizi di cura alla persona (di carattere sanitario e non), dell’insegnamento e della formazione.
Un tratto distintivo si ritrova nella concentrazione della crescita dell’occupazione nei livelli di qualifiche più alti, segnando in parte un’inversione delle attuali dinamiche di polarizzazione che vedono sovrarappresentate le occupazioni a bassa qualifica.
Oltre la metà delle professioni evolverà inoltre in modo non lineare, tramite tre processi trasformativi che opereranno per:
1.fusione, ossia attraverso l’unione di due o più professioni esistenti, con la conseguente distruzione delle professioni di origine (per esempio i “progettisti di visite ed eventi virtuali”);
2.scissione, ovvero con la creazione di nuove professioni per separazione di un nucleo di competenze, senza che ciò implichi necessariamente la distruzione della professione di origine (per esempio gli specialisti di interfacce umane);
3.ibridazione, ossia copiando sottoinsiemi di competenze da set propri di altre professioni, come per esempio nel caso degli addetti all’assistenza personale, che dovranno imparare a usare device connessi per la telemedicina e allo stesso tempo acquisire competenze di psicologia e orientamento al servizio.
I processi di trasformazione e crescita delle professioni del futuro riguarderanno alcune specifiche competenze.
Infatti, è possibile identificare in primo luogo un set di competenze considerate “fondamentali”, strettamente associate alle occupazioni in crescita e che dovrebbero essere incluse in qualsiasi programma educativo e/o formativo che miri a contrastare la disemployability: apprendimento attivo, capacità di adattamento e di anticipazione, comprensione degli altri, complex problem solving.
In secondo luogo, si può definire un ecosistema di competenze aggiuntive che agiscono in maniera “aumentativa” rispetto alle capacità fondamentali e a quelle specifiche di ciascuna professione: capacità di analisi, conoscenze e abilità tecniche, abilità di base come le strategie di apprendimento, attitudini cognitive.
Vi è infine un set di competenze ibridanti, che deriva da processi evolutivi di scomposizione e ricomposizione dei gruppi di competenze collegati alle professioni (per esempio, conoscenze in informatica, gestione di impresa, capacità di valutazione sistemica, psicologia, ideazione e originalità, adattabilità).
Nuove strategie di apprendimento continuo
Alla luce di questo grande processo trasformativo, saranno sempre più richiesti profili di competenze compositi, caratterizzati da un elevato grado di adattabilità e flessibilità, in grado di gestire la complessità tecnica, tecnologica, organizzativa e gestionale in contesti lavorativi che oggi riusciamo solo a stento a immaginare.
Garantire la resilienza dell’occupazione a fronte delle trasformazioni in atto è un compito che spetta in parte ai lavoratori stessi, in parte ai decisori e ai soggetti che erogano istruzione e formazione.
I primi possono diventare attori del cambiamento adottando un atteggiamento proattivo nei confronti del proprio lavoro. Tramite il job crafting, ovvero la pratica di (ri)modellare di propria iniziativa mansioni, relazioni, atteggiamenti cognitivi e, in generale, il proprio lavoro, possono orientare le proprie attività lavorative e formative per intercettare le evoluzioni del mercato, con esiti positivi anche in termini di motivazione, coinvolgimento e senso delle proprie azioni.
Allo stesso tempo, i decisori politici e i soggetti che erogano istruzione e formazione sono chiamati a uno sforzo di riprogettazione degli interventi e degli investimenti in istruzione e formazione sulla base della premessa che si tratta di interventi strategici e di investimenti competitivi essenziali per collocare il Paese lungo una traiettoria di crescita sostenuta e durevole.
È necessario quindi immaginare percorsi formativi di base, oltre che di up e reskilling dalle modalità innovative, che puntino sì sulle competenze maggiormente in crescita ma a partire da un elemento “strutturale” imprescindibile, ossia il talento delle persone, quella prima “pelle” all’interno della quale si raccolgono le abilità, le attitudini e le caratteristiche fondamentali dell’individuo, che vanno rafforzate e a partire dalle quali è possibile sviluppare un set di competenze in grado di contribuire al miglioramento delle performance di gruppi e organizzazioni.
Prevedere processi formativi pensati per esprimere al meglio i talenti, che consentano a ciascuno di interagire al meglio con le organizzazioni presso cui verrà portato il proprio contributo di sapere e azione, implica ripensare i sistemi educativi attuali, “lineari” e tarati su cicli lunghi, caratterizzati da processi di apprendimento standardizzati che non valorizzano le competenze fondamentali della persona.
È fondamentale inoltre favorire l’acquisizione, il rafforzamento e, in una seconda fase, la certificazione delle competenze fondamentali che, in quanto complesse da misurare, risultano difficilmente dimostrabili da parte dei lavoratori. Al contempo, occorrerà inserire nei percorsi di formazione le competenze aggiuntive specifiche per le diverse professioni, che sono in grado d...

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