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Al chiar di luna Il colore dell’inquietudine
Al chiar di luna
una rotta sconosciuta
un cielo colorato di una profonda inquietudine.
Due camion trasportano passeggeri nervosi, spaventati, attraverso un sinuoso labirinto di pietre. Corrono lungo una strada che attraversa la giungla, emettendo rombi paurosi. I veicoli sono avvolti da un drappo nero, sopra di noi vediamo solo le stelle. Donne e uomini siedono vicini, i figli in grembo. Alziamo gli occhi al cielo colorato di una profonda inquietudine. Di tanto in tanto, qualcuno cambia posizione sul pianale di legno, per permettere al sangue di circolare nei muscoli spossati. Stanchi di stare seduti, dobbiamo conservare le forze per affrontare il resto del viaggio.
Per sei ore sono rimasto seduto senza muovermi, la schiena appoggiata alla parete, ascoltando un vecchio pazzo lamentarsi dei trafficanti e sputare oscenità dalla bocca sdentata. Tre mesi a vagare affamati per l’Indonesia per arrivare a questo squallore, ma almeno adesso ce ne stiamo andando, lungo questa strada che attraversa la giungla, una strada che porta all’oceano.
In un angolo del camion, vicino al portello, un pezzo di stoffa fa da parete provvisoria: un paravento per nascondersi dagli altri, dietro il quale i bambini possono fare pipì in bottiglie dell’acqua vuote. Quando un paio di uomini arroganti vanno dietro il paravento a gettare le bottiglie piene d’urina, nessuno ci fa caso. Le donne non si muovono dai loro posti. Di certo anche loro avranno bisogno, ma forse il pensiero di svuotare la vescica dietro il paravento non le attira.
Molte tengono i figli in braccio, pensando al pericoloso viaggio per mare. I bambini, sballottati su e giù, sussultano a ogni scossone, a ogni buca o dosso sulla strada. Persino i più piccoli percepiscono il pericolo. Lo si capisce dal tono dei loro strilli.
Il rombo del camion
i dettami del motore
paura e inquietudine
l’autista ci ordina di rimanere seduti.
In piedi vicino al portello, c’è un uomo magro dall’aspetto cupo, segnato dal sole e dal vento, che ci fa regolarmente segno di stare zitti. Ma l’atmosfera all’interno del veicolo è piena dei pianti dei bambini, del rumore delle madri che cercano di farli tacere e dello spaventoso rombo del motore urlante del camion.
L’ombra incombente della paura affina il nostro istinto. Procediamo veloci, con i rami degli alberi che a volte oscurano il cielo sopra di noi, altre ci permettono di vederlo. Non so di preciso quale strada abbiamo preso, ma immagino che il barcone per l’Australia sul quale dobbiamo salire si trovi su una spiaggia lontana nel Sud dell’Indonesia, vicino a Giacarta.
* * *
Durante i tre mesi trascorsi a Kalibata (Giacarta) e sull’isola di Kendari, mi arrivavano regolarmente notizie di barconi affondati. Ma si pensa sempre che gli incidenti fatali tocchino agli altri: è difficile credere di potersi trovare faccia a faccia con la morte. La propria morte, la si immagina diversa da quella degli altri. Io non riesco a figurarmela. Possibile che questi camion che viaggiano in convoglio sfrecciando verso l’oceano siano corrieri di morte?
No
di certo non quando trasportano bambini.
Com’è possibile?
Come potremmo annegare nell’oceano?
Sono convinto che la mia morte sarà diversa
sarà in una situazione più tranquilla.
Penso ad altri barconi sprofondati di recente negli abissi.
La mia inquietudine aumenta
non trasportavano bambini anche quei barconi?
Non era, quella gente che è annegata, proprio come me?
Momenti come questo risvegliano una sorta di forza metafisica, che allontava l’idea concreta della mortalità. No, non può essere che debba sottomettermi con tanta facilità alla morte. Sono destinato a morire in un futuro lontano; non annegato, non è questo il mio fato. Sono destinato a morire in un modo speciale, quando lo sceglierò io. Decido che la mia morte dovrà essere un atto di volontà: risolvo la questione dentro di me, nel profondo dell’anima.
La morte dev’essere una scelta.
No, non voglio morire
non voglio rinunciare con tanta facilità alla mia vita
la morte è inevitabile, lo sappiamo
è soltanto una parte della vita
ma non voglio soccombere all’inevitabilità della morte
soprattutto in un luogo tanto lontano dalla mia madrepatria
non voglio morire là fuori, circondato dall’acqua
acqua e ancora acqua.
Ho sempre pensato che sarei morto nel luogo in cui sono nato, dove sono cresciuto e ho trascorso tutta la mia vita, fino a oggi. È impossibile immaginare di morire a mille chilometri dalla terra in cui affondano le tue radici. Che modo terribile, triste di morire, un’ingiustizia, del tutto arbitraria, per me. Naturalmente, non può accadere a me.
* * *
Sul primo camion ci sono un giovane e la sua ragazza, Azadeh1. Sono accompagnati da un amico che conosco anch’io, il Ragazzo Dagli Occhi Azzurri. Tutti e tre conservano ricordi dolorosi della vita che hanno dovuto lasciarsi alle spalle in Iran. Quando i camion sono venuti a prenderci dove alloggiavamo, i due uomini hanno gettato il loro bagaglio nel retro, salendo a bordo come soldati. Nei tre mesi che abbiamo trascorso in Indonesia, sono sempre stati un passo avanti a noi altri profughi. Che si trattasse di trovare una stanza d’albergo, di procurarsi cibo o di arrivare all’aeroporto, questa loro efficienza è però sempre paradossalmente sfociata in un qualche tipo di svantaggio. In un’occasione, quando abbiamo dovuto prendere un volo per Kendari, sono arrivati prima degli altri all’aeroporto. Ma una volta lì, la polizia aeroportuale ha confiscato i loro passaporti, e così hanno perso il volo: si sono trovati a vagare per le strade di Giacarta per giorni, ridotti a elemosinare cibo nei vicoli della città.
Anche adesso sono davanti a tutti, viaggiano veloci come il lampo, in testa al branco, fendendo i forti venti. Viaggiano verso l’oceano, con i motori dei camion che rombano. So che, da quando viveva in Kurdistan, il Ragazzo Dagli Occhi Azzurri porta nel cuore un’antica paura. A Kalibata, durante le notti trascorse rinchiusi nei caseggiati della città, fumavamo su minuscoli balconi, parlando del viaggio imminente. Mi ha confessato la sua paura dell’oceano: la vita del fratello maggiore è stata presa dal tumultuoso fiume Seymareh nella provincia di Ilam2.
…In una calda giornata d’estate, il Ragazzo Dagli Occhi Azzurri accompagna il fratello maggiore alle reti da pesca che avevano gettato la sera prima nella parte più profonda del fiume. Il fratello si tuffa in profondità nelle sue acque: come una pesante pietra lasciata cadere nel fiume, il suo corpo buca la superficie. Inaspettata arriva un’onda e, qualche istante più tardi, sulla sua scia rimane visibile solo la mano, tesa verso il Ragazzo Dagli Occhi Azzurri in cerca di aiuto. Il Ragazzo Dagli Occhi Azzurri, ancora un bambino, non riesce ad afferrarla. Può solo piangere e piangere: piange per ore, sperando che il fratello riaffiori. Ma lui se ne è andato. Due giorni più tardi, recuperano il corpo dal fiume suonando il dhol, il tradizionale tamburo latore di messaggi. Il suono del dhol convince il fiume a restituire i cadaveri gonfi d’acqua: una relazione musicale tra morte e natura…
Il Ragazzo Dagli Occhi Azzurri in questa impresa porta con sé quell’antico e macabro ricordo. Ha una grandissima paura dell’acqua. Eppure stanotte sfreccia in direzione dell’oceano, per imbarcarsi in un viaggio di portata immensa. Un viaggio davvero sinistro, che poggia su questo antico e immenso terrore…
I camion attraversano veloci la giungla fitta, turbando il silenzio notturno. Dopo ore seduti sul pianale di legno del veicolo, la stanchezza segna i volti di tutti. Una o due persone hanno rimesso, vomitato in sacchetti di plastica tutto ciò che avevano mangiato.
In un altro angolo del camion, c’è una coppia dello Sri Lanka con un bambino in fasce. I passeggeri sono perlopiù iraniani, curdi, iracheni, ed è chiaro che sono affascinati dalla presenza, tra di loro, di una famiglia cingalese. La donna è straordinariamente bella, con gli occhi scuri. È seduta con in braccio il suo bambino, che allatta ancora al seno. Il suo compagno cerca di confortarli: si prende cura di loro come può. Vuole che lei sappia che è lì per loro due. Durante tutto il viaggio, l’uomo sembra cercare di rassicurarla, massaggiandole le spalle e stringendola forte a sé, mentre il camion sobbalza con violenza sulla strada dissestata. Ma si vede che l’unica preoccupazione della donna è il bambino.
La scena in quell’angolo
è amore
splendido e puro.
Lei, però, è pallida e a un certo punto vomita in un contenitore che le ha procurato il marito. Non conosco il loro passato. Che sia stato il loro amore a causare le difficoltà che hanno portato a questa terribile notte? Di certo il loro amore ha superato tutto: è evidente dalla cura che dedicano al bambino. Senza dubbio, anche i loro cuori e i loro pensieri sono segnati dalle esperienze che li hanno costretti a fuggire dalla patria.
Sui camion ci sono bambini di tutte le età. Bambini pronti a diventare adulti. Intere famiglie. Un curdo chiassoso, molto sgradevole e assolutamente privo di tatto, costringe tutti quanti a respirare il fumo delle sue sigarette per l’intero viaggio. È accompagnato da una moglie smunta, un figlio ormai adulto e un altro che è un piccolo bastardo. Il ragazzino ha preso i tratti fisici della madre e il carattere del padre. Fa così tanto chiasso che tormenta l’intero camion, prendendo ogni cosa come uno scherzo e dando noia a tutti con i suoi modi impazienti e rudi. Riesce persino a dare sui nervi al trafficante che gli urla contro. “Da grande”, penso, “sarà di certo cento volte più maleducato del padre.”
I camion rallentano: sembra che la giungla sia finita e che abbiamo raggiunto la costa. Il trafficante agita le mani con fervore: dobbiamo stare zitti.
Il veicolo si ferma.
Silenzio… silenzio.
Persino il piccolo bastardo rumoroso capisce che deve fare silenzio. La nostra paura è giustificata: temiamo di venire catturati dalla polizia. In molte precedenti occasioni, i viaggiatori sono stati arrestati appena messo piede sulla costa, prima ancora che anche uno solo di loro riuscisse a salire sul barcone.
Nessuno emette un suono. Il neonato cingalese si attacca silenzioso al seno della madre: la guarda attento, ma senza mangiare. Il minimo rumore o pianto potrebbe rovinare tutto. Tre mesi a vagare, sfollati e affamati, per Giacarta e Kendari. Dipende tutto dal silenzio.
Da questa fase finale.
Sulla spiaggia.
* * *
A questo punto del viaggio, ho già passato quaranta giorni senza quasi mangiare nel seminterrato di un minuscolo albergo di Kendari. Kendari è stata storicamente un richiamo, per i profughi, perché è uno snodo importante, un luogo in cui si può negoziare con facilità la tappa successiva. Ma quando ci sono arrivato io, si era fatta desolata come un cimitero.
Adesso è talmente piena di polizia che ho dovuto nascondermi nel seminterrato di un albergo. Avevo finito i soldi e la fame stava cominciando a farsi sentire, nel corpo come nello spirito. Mi svegliavo presto e divoravo un pezzo di pane tostato, una fetta di formaggio e una tazza di tè bollente con molto zucchero. Era tutto quello che riuscivo a trovare da mangiare: l’unica cosa che mi permetteva di superare le giornate e le notti. La polizia che pattugliava la città guardava sotto ogni pietra nel tentativo di trovarci: non potevo rilassarmi un secondo. Gettavano in prigione chiunque trovassero e, dopo qualche giorno, lo rimpatriavano. Anche il solo pensiero di quella possibilità, fa male. Essere costretto a tornare al punto da cui sono partito equivarrebbe a una sentenza di morte.
Ciò nonostante, negli ultimi giorni trascorsi a Kendari facevo colazione e uscivo dall’albergo nelle ore umide che precedevano l’alba, certo che la città dormisse e che lungo il sentiero che si inoltrava nella giungla non avrei incontrato poliziotti ficcanaso.
Attraversavo una breve strada asfaltata – tremando per tutto il tempo di paura – e svoltavo all’interno di una macchia tranquilla, recintata da una palizzata di legno. Credo che fosse proprietà privata; mi sentivo come se stessi commettendo un crimine, ma non è mai venuto nessuno. E lì, al centro di un’enorme piantagione di palme da cocco, si ergeva una bellissima casa. Incontravo se...