I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità
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I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità

Informazioni su questo libro

Mafia, legalità, società, informazione, soldi, dovere. Questi e altri termini fanno sempre più parte del dibattito mediatico e del nostro vocabolario di tutti i giorni, e dare un senso alle parole è una questione di vitale importanza. Per tutti, tutti i giorni. A farlo, con dieci termini chiave che formano il percorso evocato dal titolo, ci prova una coppia inusuale, quella formata da un giudice palermitano, Mario Conte, e da un giornalista sportivo milanese, la voce del basket italiano, Flavio Tranquillo. Partendo da un'amicizia cementata dalla comune passione per lo sport e l'antimafia che va ben al di là dei rispettivi ambiti professionali, il libro prende le mosse da un processo, celebrato dal giudice Conte, in cui alla sbarra sono finiti estortori e favoreggiatori di Cosa Nostra, condannati a risarcire anche le associazioni anti-racket che stanno sorgendo numerose in Sicilia. Dallo specifico processuale il discorso si allarga su altri mondi, a partire dalla magistratura e dall'informazione per arrivare alla vita quotidiana e alla società civile. L'idea è quella di porre le basi per un'antimafia che deve coinvolgere tutti nel nome della legalità, del senso del dovere e della responsabilità individuale, nella convinzione che coinvolgere tutti nella battaglia contro questa "malapianta" da estirpare sia l'unica maniera di fare non solo dieci, ma cento passi avanti.

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Informazioni

Anno
2011
Print ISBN
9788867830091
eBook ISBN
9788896873168
Categoria
Criminologia

Giudice

[giù-di-ce]
s.m. e f. (pl. -ci)
Chi giudica, chi ha la facoltà, l’autorità, l’incarico di giudicare qualcuno o qualcosa: prendere qualcuno a, per, come g. in una discussione; lascio g. te di questa controversia; erigersi a g. di qualcuno.
Fu nelle notti insonni
vegliate al lume del rancore
che preparai gli esami
diventai procuratore
per imboccar la strada
che dalle panche d’una cattedrale
porta alla sacrestia
quindi alla cattedra d’un tribunale,
giudice finalmente,
arbitro in terra del bene e del male.
Fabrizio De André, Un giudice
Notti insonni, esami e tribunali corrispondono. Il resto (garantisco io) rimane confinato alla favolosa penna di Edgar Lee Masters e alla voce tagliente di Fabrizio De André. Come vedremo, un giudice deve rifuggire dalla tentazione di ergersi a superuomo. Anche perché in questa professione sbagliare ha conseguenze catastrofiche, estreme. Laddove se io prendo un giocatore per un altro il massimo che rischio è una brutta figura, non certo di comminare una ingiusta detenzione. Come si riesce a non farsi inibire da questo carico potenzialmente opprimente?
Sostengo da tempo che per fare certe professioni occorre avere molto coraggio e sangue freddo.
La mia è sicuramente una di quelle, ma ho molta ammirazione anche per i medici e gli insegnanti.
Una delle attività più formative del mio periodo di uditorato fu la visita, organizzata dai nostri coordinatori, alle due carceri di Palermo, il «vecchio» Ucciardone e il «nuovo» Pagliarelli. Perché soltanto chi visita un carcere può capire appieno il senso di oppressione che si vive trascorrendoci anche solo qualche ora. Questo discorso potrebbe spaventare al punto da indurre a cambiare mestiere. In realtà per fare il magistrato occorre indossare ogni mattina una maschera, che ti consenta di avere una sorta di sano distacco rispetto a quello che ti trovi a trattare. Perché se ci si rendesse conto di quello che sta veramente dietro alle carte, cioè la vita delle persone, si rischierebbe di abbandonare seduta stante.
Ma qualcuno, e non solo a Berlino, il giudice lo deve pur fare.
L’ingiustizia si può anche sopportare. È essere colpiti dalla giustizia che brucia.
Anonimo
Un male necessario, come il mio maestro Aldo Giordani definiva gli arbitri nel basket. E come i giudici, in quanto uomini, gli arbitri sono destinati a sbagliare. È fin troppo diffusa la convinzione che, nello specifico, i giudici sbaglino perché sanno di non incorrere in sanzioni serie a causa dell’autogoverno. Immagino sia un terreno friabile, ma chiedo uno sforzo di terzietà a uno che la applica tutti i giorni per ruolo.
La domanda è purtroppo frutto di un tragico luogo comune che da troppo tempo si è diffuso.
Mi riallaccio alla risposta precedente e cerco di fare un parallelismo con il calcio.
Sport minore quindi… Ne ha comunque facoltà.
Certe professioni e certi ruoli sono delicati per loro natura. Se sbaglia un passaggio un centrocampista può essere del tutto ininfluente ai fini del risultato finale. Ma un errore del portiere può far perdere la partita alla propria squadra.
Ecco, l’errore di un giudice è come l’errore di un portiere, «pesa» indubbiamente di più. Ma non credo che sia corretto dire che i giudici sbagliano di più perché non vi sono sanzioni serie. Altrimenti perché la quasi totalità dei magistrati avrebbe contratto un’assicurazione per i rischi derivanti dalla propria professione?
È corretto dire invece che, come gli errori dei portieri, anche quelli dei giudici sono più eclatanti e pubblicizzati rispetto a quelli di altre categorie.
Ma sul concetto di errore credo potremmo scrivere un altro libro. Quando una sentenza è sbagliata? Perché spesso si sentono bocciare dispositivi assolutamente ineccepibili in fatto e diritto. E magari a farlo è chi non si è neppure preso la briga di leggere la sentenza che confuta. Oppure si sostiene la tesi dell’errore partendo da presupposti, loro sì, erronei, per dolo o colpa che sia. E questa, ci tengo a sottolinearlo, non vuole essere una difesa corporativa, ma una triste constatazione.
Metà del Paese è convinta che i giudici siano semidei, l’altra metà che si tratti di privilegiati che lavorano quattro ore al giorno e fanno tre mesi di ferie. Possiamo augurarci che i nostri quattro figli si posizionino lontano da questi luoghi comuni e imparino a costruirsi una propria opinione sui fatti, nel rispetto di quelle altrui e senza cadere nei pericolosi «copia-e-incolla»?
I luoghi comuni sono fatti per essere sfatati.
Nella società attuale c’è una morbosa attenzione per i privilegi che riguardano gli altri («L’erba del vicino è sempre più verde»), senza guardare ovviamente ai propri.
Mi viene in mente una citazione del Vangelo, ma temo di essere un po’ profano nel proporla.
I giovani, a ogni modo, proprio grazie all’evoluzione delle fonti di conoscenza di cui abbiamo parlato, hanno la possibilità di formarsi sani e corretti convincimenti. Basta superare la pigrizia.
Poi dobbiamo essere noi a stimolare in loro tale desiderio di approfondimento e di conoscenza della verità effettiva. Senza permettere che si accontentino di apparenze e parzialità.
Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e giustizia non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli. Ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante, e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa.
Paolo Borsellino
Molti ritengono che il vero corto circuito politica-giustizia sia quello relativo a poco opportune commistioni tra le due istituzioni. Una domanda secca: se le offrissero un posto (previsto dalla legge) in un gabinetto ministeriale, lo accetterebbe?
Ho diversi amici che svolgono questo ruolo al ministero della Giustizia e molti che in passato lo hanno svolto. Da loro ho ricevuto pareri differenti rispetto alle esperienze vissute.
Non so cosa farei se mi offrissero una simile opportunità. Certo è che si parla di una funzione ben diversa rispetto a quella per cui ho superato il concorso. Sulla carta non è una prospettiva che mi attiri in modo particolare, ma alla fine contano solo gli obiettivi che ognuno di noi si prefigge nella vita. Perché qualsiasi lavoro può diventare un mezzo e non essere un fine.
Ricordo ancora le polemiche che seguirono alla decisione di Giovanni Falcone di accettare l’incarico ministeriale che l’allora ministro di Grazia e giustizia Claudio Martelli gli propose. Nessuno capì che Falcone era stato assai lungimirante, ben comprendendo che in quel momento storico avrebbe potuto combattere meglio la mafia da Roma piuttosto che da Palermo. Per lui, insomma, la lotta alla mafia era la stella cometa che guidava una intera vita professionale. E per seguirla accettò di fare il Direttore degli Affari Penali, sopportando la scia di indecenti maldicenze e allusioni che quella decisione si portò dietro.
Oltre che dalla politica, il magistrato non dovrebbe essere maggiormente isolato anche dagli organi che decidono della sua valutazione e carriera?
Questo è un vecchio problema, che, invece di essere risolto, di tanto in tanto ritorna d’attualità.
In linea puramente teorica il ragionamento non fa una grinza. Ma la realtà e la pratica quotidiana suggeriscono che è quanto mai pericoloso giudicare una persona dalle carte. Uno dei problemi più annosi nella mia categoria è spesso la mancanza di coraggio nelle valutazioni professionali dei singoli giudici da parte dei capi degli uffici, quasi per una sorta di difesa corporativa della categoria.
Ma è chiaro che il principio del «siamo tutti bravi» non può valere.
E allora non è poi così malvagio che vi possa essere un collegamento tra il Consiglio Superiore della Magistratura e i giudici. Sempre che tutto ciò non scada, come purtroppo può accadere, nell’esasperazione del correntismo.
Nel lavoro quotidiano è davvero allarme rosso per la giustizia? E se i ben documentati colli di bottiglia del sistema sono davvero così stretti, cosa si può realisticamente fare per dare respiro a un comparto così vitale per la società?
Soltanto attraverso un recupero effettivo della professionalità in ogni settore e del senso di appartenenza alla società si potrà fermare questa rapida corsa verso il baratro. Detto questo, la bottom line è che senza soldi, messe se ne cantano poche, anche laddove dovesse esserci la migliore volontà.
Non è realistico pensare che, in un Paese così causidico come l’Italia, il problema della giustizia possa essere affrontato senza fondi e con una continua delegittimazione di chi la amministra da parte delle istituzioni.
Dobbiamo recuperare il senso dello Stato e, soprattutto, destinare maggiori fondi alla giustizia.
In caso contrario il fallimento del sistema è praticamente scontato.
La scopertura di molte procure e tribunali è un altro vulnus del nostro tormentato sistema giudiziario. Cosa possiamo dire per stimolare la vocazione delle generazioni future?
Credo che la professione di giudice, nonostante i numerosi attacchi provenienti da più parti, affascini ancora i giovani.
È questo un bene che non dobbiamo disperdere. I ragazzi che incontro nelle scuole mi guardano ancora con ammirazione perché rappresento, con la mia categoria, una parte importante dello Stato che svolge un ruolo fondamentale in una società civile.
E i giovani non sono certo attratti dai vantaggi economici (che in rapporto alle responsabilità sono ben poca cosa) o dai mesi di ferie, del tutto teorici visto che normalmente i giudici li impiegano per scrivere le sentenze incamerate durante l’anno.
Bisogna inculcare nelle nuove generazioni la fiducia e il rispetto per le istituzioni, dalle più immediate, come la scuola, alle più alte, come i famosi tre poteri dello Stato di cui abbiamo parlato in precedenza. Soltanto così potremo sperare, da vecchi, di aver seminato bene durante la nostra esistenza.
Io spero che questa nostra conversazione possa far capire meglio la figura del giudice. Che non è un bizantino operatore del diritto che piazza avverbi come «sinallagmaticamente » nelle sentenze e poi ritorna nella sua turris eburnea. Ma soltanto una persona che cerca di contribuire al bene comune, con tutti i limiti e tutte le contraddizioni che noi esseri umani ci troviamo di fronte.
Troppe volte i giudici vengono considerati alla stregua di «supereroi», che devono salvare il mondo dal male.
Niente di più errato, soprattutto concettualmente. I giudici devono tornare a fare il loro lavoro, ossia giudicare. Ma per fare questo è indispensabile che ogni cittadino faccia il proprio dovere. E soprattutto che lo faccia per convinzione, e non solo per costrizione.
Oggi lei è Gup, giudice dell’udienza preliminare, a Palermo. In quali fasi processuali entra in gioco questa figura?
Non posso rispondere senza utilizzare qualche spiegazione tecnico-giuridica. Spero che il lettore non me ne voglia, ma accetti che per giudicare chi giudica sia necessario conoscere nei dettagli il suo lavoro.
Il nostro attuale sistema processuale penale è entrato in vigore nel 1988. È frutto di un passaggio storico da un modello di processo inquisitorio a uno accusatorio. Per dirla con parole semplici, si esaltano le garanzie nei confronti delle persone sottoposte a indagini, mantenendole anche quando diventano imputati in un momento successivo.
Quando viene commesso un reato, un giudice che prende il nome di Pubblico ministero inizia le indagini per cercare di rintracciare il responsabile, servendosi dell’ausilio della Polizia giudiziaria, ovverosia della polizia di Stato, dei carabinieri o della guardia di finanza.
Si apre così il periodo delle cosiddette indagini preliminari, che possono essere effettuate nella totale incertezza dell’autore del reato oppure a carico di uno o più soggetti.
Propongo un piccolo stop. Quando si annuncia che si sarà «tecnici», si rischia che il lettore (o ascoltatore nel mio caso) faccia un salto alla pagina seguente o schiacci il tasto dell’impietoso telecomando. Cercheremo di contenerci, ma ci sono casi in cui «non essere tecnici» significa soltanto non entrare nelle questioni. Che in questo caso riguardano la giustizia, cioè tutti noi.
Mi è stato sempre insegnato che la semplicità è una dote che rende le persone veramente grandi. E nel tempo io ho cercato di seguire questo insegnamento.
Essere semplici vuol dire rendere comprensibili a tutti delle cose che di per sé non lo sarebbero. Magari perché riguardano specifici settori del sapere particolarmente ostici.
I settori tecnici sono disciplinati da particolari regole, che soltanto gli addetti ai lavori conoscono in profondità. Ma proprio per giudicare quegli addetti ai lavori e per capire cosa fanno e perché, diventa fondamentale entrare almeno un po’ nel loro mondo «tecnico». Starne fuori perché «è troppo complesso» significa in sostanza essere pigri. E accontentarsi delle altrui sintesi contiene il rischio di essere fuorviati, in buona o cattiva fede che sia.
E quando non capiamo, da cittadini, è altrettanto doveroso fare uno sforzo, usando i molti strumenti che oggi abbiamo a disposizione. Chi si arrende alla prima difficoltà non esercita un suo preciso diritto/dovere, sancito dall’amatissima Costituzione. Ciò detto, torniamo al Gup.
Durante le indagini preliminari, l’indagato di norma rimane all’oscuro di tutto. Fa eccezione alla regola l’ipotesi in cui debbano compiersi in questo periodo attività per le quali sia necessaria l’assistenza di un difensore per il soggetto in questione.
Tali attività vengono compiute davanti a un soggetto terzo, il Gip, giudice per le indagini preliminari. Quindi il nostro ordinamento prevede che sia
no due giudici (Pubblico ministero e Gip) a seguire le indagini preliminari, e ciò costituisce una delle garanzie più importanti del sistema giudiziario.
Al termine delle indagini preliminari, il Pubblico ministero decide se gli elementi raccolti, che tecnicamente si chiamano indizi, siano sufficienti per richiedere a un altro giudice il rinvio a giudizio del soggetto nei cui confronti si sono svolte le indagini.
Sarò anche stato un po’ tecnico, ma sono concetti importanti. E conoscerli, come detto, è un diritto/ dovere per tutti.
Si è spiegato benissimo, manca solo la specifica di cosa fa il Gup rispetto al Gip.
Il Gup entra in azione quando il Pubblico ministero formula la richiesta di rinvio a giudizio, cristallizzando l’accusa nel capo d’imputazione, che altro non è che il fatto contestato al soggetto nei cui confronti si sono svolte le indagini. In questo caso il Pubblico ministero ritiene che gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari siano tali da giustificare lo svolgimento di un processo.
Sulla richiesta di rinvio a giudizio decide, nel corso di un’udienza apposita chiamata udienza preliminare, il Gup. Cioè il giudice per l’udienza preliminare. Cioè io e quelli che fanno il mio lavoro.
Così descritto sembrerebbe una cosa neppure troppo complessa. In realtà Vassalli, ideatore del codice del 1988, pensò che fosse necessario evitare che i processi giungessero tutti alla fase del dibattimento, cioè davanti al Tribunale o alla Corte d’Assise, paventando un ingolfamento di tali strutture.
Fu prevista così la possibilità per gli imputati di pervenire alla conclusione del processo nel corso della stessa udienza preliminare, richiedendo i riti alternativi. I più importanti sono l’applicazione della pena su richiesta delle parti e il giudizio abbreviato, ossia il giudizio allo stato degli atti. In questi casi il Gup si trasforma in giudice del dibattimento.
Entriamo più profondamente nel mondo dell’«abbreviato»…
Sempre cercando di essere comprensibili anche ai non addetti ai lavori, in questo rito gli imputati rinunciano alle garanzie del processo, nel quale le prove vengono assunte alla presenza anche del loro difensore. In cambio ricevono una sorta di «premio», rappresentato dal fatto che l’eventuale condanna vedrà la riduzione della pena inflitta in misura di un terzo.
Ragionando con il senso comune non è facile accettare questi sconti per chi sa bene di essere colpevole.
È uno dei tanti compromessi del nostro sistema, tutto teso a consentire il deflazionamento dei carichi dei Tribunali e delle Corti d’Assise. Non sta a me dire se il sistema sia corretto o meno, ma il contemperamento appare congruo. Perché anche l’imputato si assume un rischio, rinunciando a importanti garanzie processuali.
L’esperienza quotidiana ci insegna che i riti alternativi sono diventati ormai la regola nei processi...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Introduzione
  3. Dialogo
  4. Mafia
  5. Legalità
  6. Giudice
  7. Processo
  8. Soldi
  9. Società
  10. Sport
  11. Informazione
  12. Dovere
  13. Bibliografia