Hotel Distribution 2050
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Hotel Distribution 2050

(Pre)visioni sul futuro di Hotel Marketing e distribuzione alberghiera

Simone Puorto

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  1. 272 pagine
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Hotel Distribution 2050

(Pre)visioni sul futuro di Hotel Marketing e distribuzione alberghiera

Simone Puorto

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Hotel Distribution 2050 è il primo testo italiano interamente dedicato alla distribuzione dell'offerta alberghiera e turistica in chiave contemporanea. Intrecciando revenue, marketing integrato, automation management, tecnologia, comunicazione digitale e intelligenza artificiale, tratteggia con accuratezza alcuni degli scenari futuri che coinvolgeranno il mondo dell'accoglienza. Rispondendo in modo pratico a domande come "Quando implementare un chatbot?", "Quali sono le opportunità del cloud?", "Come integrare la distribuzione blockchain?", "Come scegliere la tecnologia più adatta per un hotel?" il libro diventa un prezioso manuale di istruzioni per tutti coloro che guardano alle nuove tecnologie come un'opportunità capace di alleggerire dai ripetitivi automatismi gestionali. E, soprattutto, per ritornare all'essenza della professione dell'albergatore: prendersi cura dei propri ospiti.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2022
ISBN
9788836008742

1

Dagli automatismi all’intelligenza artificiale

Esiste una, seppur sottile, differenza tra intelligenza artificiale e automazione. Nonostante i due termini vengano spesso utilizzati come sinonimi, tecnicamente i sistemi di automazione si limitano a eseguire dei compiti specifici per i quali sono stati programmati da esseri umani, mentre caratteristica unica dell’AI è quella di riuscire, in maniera indipendente, a scovare pattern, imparare dall’esperienza e prendere decisioni in autonomia, senza bisogno di comandi espliciti da parte degli sviluppatori. Gli automatismi sono, per così dire, passivi, mentre l’AI è attiva. Tuttavia, nonostante a livello puramente semantico questa distinzione abbia senso, nella pratica i limiti tra AI e automation sono sempre più sottili e fragili e si tende sempre più spesso a includere anche compiti attivi, tipici dell’AI, sotto il nome di “automatismi”. Sono perfettamente d’accordo con Alessio Semoli, quando asserisce che esista una certa sovrapposizione semantica tra automatismi e intelligenza artificiale, affermando che “l’evoluzione della [marketing] automation è l’AI”.1 L’acquisizione, nel 2017, di Motion AI da parte di uno dei tool di marketing automation per antonomasia, Hubspot, è esempio lampante di questo processo di ibridazione tra le due discipline. Dal momento che questo non è un libro tecnico per sviluppatori, ho scelto di trattare il tema automazione come l’insieme di tutti quei processi (automatizzati o automatizzabili) che non hanno bisogno, se non parzialmente, di intervento umano, quindi senza tenere in considerazione il livello di “intelligenza” dietro a essi. Spero mi si perdoni la necessaria forzatura semantica.
Scelta di terminologia a parte, in un momento storico come il nostro, pensare di poter continuare a operare in ambito turistico senza un minimo di automazione significa, quantomeno, soffrire di miopia imprenditoriale. I vantaggi dell’automation sono molteplici: dal risparmio in termini di ore-uomo, fino alla migliore gestione delle operazioni interne. Automatizzare i processi è una necessità aziendale e, con tecnologie e infrastrutture sempre più accessibili, sia in termini di investimenti richiesti che di implementazione, l’automazione non è più appannaggio unico di OTA o grandi brand di catena. Il passaggio da sistemi tutto-in-uno all’utilizzo di una più ampia gamma di piattaforme di terze parti, soprattutto, ha creato uno scenario grazie al quale ogni tipo di struttura ricettiva gode oggi di una libertà mai sperimentata prima: le nuove infrastrutture tecnologiche (alle quali dedico un capitolo intero) consentono agli albergatori di implementare ciò di cui hanno bisogno, quando ne hanno bisogno e senza la necessità di sradicare processi aziendali preesistenti.
Eppure, sebbene l’automazione sia ampliamente implementata in quasi tutti i settori, essa è ancora relativamente giovane nell’ospitalità. Gli hotel italiani (che, non dimentichiamolo, sono generalmente a conduzione familiare, indipendenti o parte di micro-catene), in particolare, tendono a essere più resistenti all’adozione di automatismi, soprattutto a causa dell’investimento economico iniziale (spesso più percepito che reale, in verità) necessario. Un ulteriore motivo è di mancata comprensione del concetto stesso di automazione, concetto, come si è visto in apertura, già fumoso di suo: i tool di automation sono ancora ampiamente considerati come orpelli superflui, figli di un regime oligo-tecnocratico nelle mani di pochissimi fornitori. A peggiorare le cose, le esperienze, di solito traumatiche, che l’albergatore medio vive ogni qualvolta che si vede costretto a implementare nuovi software (soprattutto quelli più centrali nell’operatività quotidiana, come i PMS), fanno guardare al processo con sospetto e paura – se non, addirittura, con una marcata sopravvalutazione del rischio. In psicologia il fenomeno passa sotto il nome di “euristica della disponibilità”:2 la probabilità che qualcosa vada storto durante l’implementazione di un nuovo software (perdita di dati, necessità di riformare il personale e così via), anche se molto bassa dal punto di vista statistico, viene quindi ingigantita da questo (ben conosciuto, studiato e documentato) cortocircuito cognitivo.

Responsabilità di fornitori, consulenti e albergatori

Anche i fornitori di software hanno le loro responsabilità in questa mancata adozione dell’automation: se, da una parte, essi svolgono un ruolo importante nel sensibilizzare gli albergatori circa vantaggi dell’automazione, dall’altro devono cercare di trasmettere questi messaggi senza essere percepiti dai loro clienti come semplici discorsi commerciali. È, facendo della sana autocritica, anche colpa di noi consulenti, spesso vittime di un bias ancora più maligno, ovvero quello di pensarci più competenti di quello che in realtà siamo. La psicologia viene ancora una volta in nostro aiuto, definendo questa inclinazione (umana, troppo umana) come Effetto Dunning-Kruger: “un pregiudizio cognitivo a causa del quale persone poco esperte in un campo […] tendono a sopravvalutare le proprie capacità, autovalutandosi erroneamente esperti in materia”.3
Quali che siano cause e concause, il problema di fondo rimane trasversale: da un lato ci sono i piccoli hotel indipendenti, con le loro sopra elencate problematiche intrinseche, dall’altro ci sono gli hotel di catena i quali, nonostante godano di un innegabile vantaggio in termini di know-how tecnologico, potere di investimento e ridotti bias cognitivi, sono paradossalmente limitati nelle scelte dalla lentezza delle decisioni impartite dalle case madri. La dis-adozione, esattamente come l’adozione, di una tecnologia a favore di un’altra è un processo complicato e doloroso, soprattutto in un settore altamente operativo e tecnologicamente inflazionato come quello dell’hospitality. Ma la situazione ha addirittura del nonsense: quando si gestisce un hotel, il problema principale è sempre la mancanza di tempo. E l’automazione può restituire proprio questo: il tempo.
A tutte queste criticità si affianca anche il solito problema del sospetto umano nei confronti degli automatismi, sebbene sia ormai evidente ai più che il customer service umano e il customer service non umano non competano tra loro, bensì si completino. Le automazioni forniscono agli albergatori la possibilità di rimpiazzare praticamente tutti quei processi che girano dietro le quinte (ovvero: tutti quelli nei quali la presenza di un essere umano non è strettamente necessaria), tuttavia la conseguente adozione resta confinata ad alcuni hotel di catena, al segmento hi-scale o a pochi illuminati indipendenti. Peter O’ Connor, professore con il quale ho avuto il piacere di collaborare durante un paio di lezioni sul marketing presso la ESSEC Business School di Cergy, in più di un’occasione si è lamentato del fatto di come questa mancata adozione crei una falsa economia: “Se il costo dell’investimento è alto”, ama ripetere O’ Connor, “è ancora più alto il costo del non-investimento”. Sono d’accordo, anche se lo trovo riduttivo.
A ben vedere, il problema non è solo di investimenti, ma è tecnologico, culturale, manageriale e organizzativo al tempo stesso: gestire una piattaforma complessa necessita di investimenti in termini di tempo e training e non è raro che, ironicamente, si finisca così per non utilizzare affatto gli strumenti. Ma questo è un comportamento altamente rischioso: all’immobilismo degli hotel, infatti, corrisponde una sempre maggiore sofisticazione nel campo dell’automazione da parte delle OTA, più disposte a innovare, testare, fallire e imparare dai propri errori. Booking.com, per esempio, garantisce al proprio team di sviluppatori la completa libertà di eseguire test A/B senza il bisogno di chiedere autorizzazioni a nessuno, in un sistema antigerarchico quasi sconosciuto negli alberghi. Purtroppo, ancora oggi, negli hotel vige una sorta di inerzia tecnologica nei confronti della quale siamo tutti correi: fornitori, consulenti e albergatori. È arrivato il momento di correggere il tiro.

Privacy, tocco umano e resistenza al cambiamento

Altro tasto dolente, quando si tratta di automation, è la spinosa questione privacy: le piattaforme d’automazione hanno bisogno di una quantità di dati molto elevata e, in un momento storico in cui la privacy digitale è diventata una vera e propria ossessione (oggi, l’International Association of Privacy Professionals, anche nota come IAPP, conta più di 20.000 membri in oltre 80 Paesi), bisogna fare i conti anche con le frammentarie regolamentazioni a riguardo. In Europa, soprattutto, schiacciati da una legge apertissima alle interpretazioni, gli albergatori devono affrontare un ulteriore livello di complessità nell’acquisire i dati dei propri ospiti nel rispetto di una normativa talmente vaga, a livello tecnologico, da rasentare il nichilismo procedurale. Soprattutto quando si tratta di sistemi di AI basati sul deep learning,4 dove il volume di dati necessari è molto alto, la questione privacy diventa particolarmente spinosa. Basti pensare a come gli algoritmi di Facebook processino il miliardo e mezzo di fotografie caricate ogni giorno dagli utenti per addestrare gli algoritmi a riconoscere tutti gli elementi presenti nell’immagine, compresi i volti delle persone. Altri esempi? Palantir Technology (Figura 1.1) è un’azienda di big data della quale forse non hai mai sentito parlare, tuttavia è valutata oltre 20 miliardi di dollari e collabora, tra gli altri, con CIA, FBI, DHS, NSA, CDC, il corpo dei Marine e l’Air Force.
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Figura 1.1 Palantir, azienda di big data dal valore di 20 miliardi di dollari.
Ancora: nel 2018 fece scalpore il caso Cambridge Analytica, azienda rea di aver raccolto dati personali di milioni di utenti Facebook – senza il loro consenso – per scopi di propaganda politica (Cambridge Analytica ha poi dichiarato bancarotta poco dopo e proprio a causa di questo scandalo). Gli esempi potrebbero andare avanti all’infinito.
Ultimo, ma non per importanza, il timore immotivato di per...

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