L'alba del nuovo tutto
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L'alba del nuovo tutto

Il futuro della realtà virtuale

Jaron Lanier, Alessandro Vezzoli

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L'alba del nuovo tutto

Il futuro della realtà virtuale

Jaron Lanier, Alessandro Vezzoli

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Il termine «realtà virtuale» forse vi farà pensare a vecchi film come Il tagliaerbe o Matrix, ai romanzi di William Gibson oppure a enormi visori che rischiano di far sembrare molto stupido chi li indossa. In verità questa tecnologia ha continuato a evolversi nel corso degli anni ed è attualmente alla base dei più importanti esperimenti in campo medico, informatico e dell'intrattenimento.Lo sviluppo della realtà virtuale è indissolubilmente legato alla vita, quasi romanzesca, dell'uomo che ne è stato padre e pioniere: Jaron Lanier. A soli tredici anni si iscrive all'università, studia matematica, musica e programmazione e vive in una cupola geodetica che ha costruito insieme al padre. Poi si mette in viaggio per la California su una macchina mezza distrutta e approda nell'epicentro creativo della Silicon Valley, dove fonda vpl Research, la prima azienda al mondo a sviluppare interfacce e software per la realtà virtuale.L'alba del nuovo tutto di Jaron Lanier è un atto d'amore totale nei confronti del progresso tecnologico e delle sue potenzialità. Nel racconto di Lanier la realtà virtuale è un sogno lucido condiviso da più individui, lo spazio in cui possiamo mettere a frutto la nostra creatività e, al tempo stesso, la chiave per amare ancora di più la nostra esistenza reale. I mondi virtuali che ci attendono nel futuro non saranno un luogo di fuga in cui ottundere le nostre menti, ma un laboratorio in continua evoluzione dove sviluppare le nostre capacità e comunicare e interagire con gli altri. E la creazione di questi mondi può essere considerata una vera e propria forma d'arte, che fonde i linguaggi della programmazione con quelli della musica e del cinema.In un'epoca segnata dall'ingerenza degli algoritmi nella nostra vita e dai timori legati alle intelligenze artificiali, L'alba del nuovo tutto è una salutare ventata di ottimismo, il manifesto di una visione radicalmente positiva della tecnologia che mette al centro gli esseri umani e le loro emozioni.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865767559

1. Anni sessanta: un Eden inquietante

Confine
I miei genitori fuggirono dalla grande città subito dopo la mia nascita. Vagarono per un po’ e alla fine si fermarono in quella che all’epoca era una regione sconosciuta e ostile. L’estrema punta occidentale del Texas, fuori da El Paso, lungo la linea di congiunzione con il Nuovo Messico e il Messico vero e proprio: sembrava quasi non far parte degli Stati Uniti. Un entroterra povero, relativamente senza regole e di un’irrilevanza pressoché totale per il resto del paese.
Perché proprio lì? Il vero motivo non lo capii mai, ma è probabile che i miei genitori stessero scappando. Mia madre, viennese di nascita, era sopravvissuta a un campo di concentramento, mentre la famiglia di mio padre era stata quasi completamente spazzata via dai pogrom in Ucraina. Ricordo bene quando mi dicevano che dovevamo tenerci il più in disparte possibile, ma sarebbe stato inaccettabile vivere troppo lontani da una buona università. Si fermarono in un posto che rappresentava un compromesso accettabile: poco distante, nel Nuovo Messico, c’era infatti una buona università.
Mia madre diceva che le scuole messicane erano più simili alle europee, con un programma di studi maggiormente avanzato rispetto a quello del Texas rurale dell’epoca. I ragazzini messicani erano un paio d’anni avanti a noi in matematica.
«In Europa volevano ucciderci. Che cosa abbiamo da imparare da loro?» Lei ribatteva che esistevano cose belle dappertutto, persino in Europa, e che dovevo imparare a non farmi accecare dal male del mondo. E poi il Messico non era di certo l’Europa.
Ogni mattina, dunque, attraversavo il confine per frequentare una scuola montessoriana a Ciudad Juárez, in Messico. Oggi che quella zona del confine è diventata la più famosa prigione del mondo sembra strano, ma all’epoca il clima era molto più rilassato, e piccoli scuolabus cigolanti attraversavano la frontiera in continuazione.
La mia scuola era un mondo a parte rispetto a quella che avrei frequentato in Texas. Le copertine dei nostri libri di testo mostravano favolose immagini tratte dalla mitologia azteca. Alla festa gli insegnanti si mettevano in ghingheri, con abiti colorati, tagli mod anni sessanta. Tenevano legati a catene d’argento grandi coleotteri vivi e scintillanti, se li lasciavano scorrazzare sulle spalle. Una volta ogni ora, più o meno, davano loro da bere con il contagocce acqua zuccherata dai colori vivaci.
Poiché frequentavamo un istituto montessoriano, anche noi alunni eravamo liberi di girare liberamente come i coleotteri, e così feci una scoperta. Sfogliando un vecchio e malconcio volume d’arte su un basso scaffale nella nostra piccola scuola alla periferia del mondo, m’imbattei in una riproduzione del trittico di Hieronymus Bosch Il giardino delle delizie terrene.
Finestra
Ricordo che a scuola mi sgridavano perché non stavo attento. Continuavo a guardare fuori dalla finestra, come ipnotizzato. Solo che non si trattava di un trip, ma di un momento di profonda contemplazione.
¡Atención! Stai attento!
Il giardino delle delizie terrene mi aveva folgorato. Immaginavo di trovarmi all’interno del dipinto, accarezzavo i soffici uccelli giganti dal vellutato piumaggio roseo, strisciavo in parchi giochi composti di sfere carnose trasparenti, pizzicavo e soffiavo gli smisurati strumenti musicali che si infilzavano a vicenda e prima o poi avrebbero infilzato anche me. Immaginavo la sensazione che avrei provato. Un solletico intenso, un calore che mi si diffondeva dentro.
Alcune figure di Bosch fissavano un punto esterno al quadro. E se fossi stato uno di loro? Quando guardavo da quella finestra, in realtà stavo osservando il mondo cosiddetto reale dall’interno del dipinto. Non era roba da poco: ci volevano ore, con grande rabbia degli insegnanti.
¿Qué es lo que estás mirando? Che cosa stavi guardando?
Vedevo ogni tanto un bambino nudo avanzare impettito nella sabbionaia finché non veniva acchiappato, quasi come nel quadro. Il mio sguardo, però, si spingeva oltre l’erba gialla del cortile della scuola, attraversava la rete metallica e si posava su una caotica e polverosa strada cittadina.
Uomini brizzolati con cappelli di paglia sbrindellati chiusi dentro gli abitacoli di vetro di camion colossali dai colori vivaci correvano a tutta birra tra nubi di scarico nere e rumorose; quartieri fatti di case dalle tinte pastello sbiadite dalle intemperie, inghiottite da frastagliate striature rocciose sul fianco di montagne lontane addossate al deserto; aeroplani argentei nel cielo brulicante di persone. Dall’altra parte della strada, un murale alto due piani raffigurante le gesta di Quetzalcoaltl dipinto sul lato di un parcheggio.
Estoy viendo maravillas. Vedo miracoli.
Subito oltre la rete, il quadro si arricchiva di dettagli: i peli arricciati sul petto di un mendicante; l’andatura barcollante di un sopravvissuto alla poliomielite che consegnava pile di quotidiani freschi di stampa; lo sporco sulle frange della camicia verde di un adolescente; la piramide di lucidi cactus recisi che sobbalzavano sul manubrio della sua bici. Una volta vidi i tagli sul volto truce di un prigioniero dietro i finestrini oscurati di un’auto della polizia messicana che sbandava, il tempo di una frazione di secondo tra i fasci di luce accecante dei fanali che spazzavano la strada.
Tripletta
Nella mia piccola scuola erano tutti sordi e ciechi? Perché sembravano così indifferenti? Perché non erano folgorati come me? Non li capivo.
Divenni ossessionato da speculazioni inutili. Che cosa sarebbe successo se fossi andato in una scuola dall’altra parte del fiume, in Texas? Laggiù le cose dovevano essere più normali. Se avessi portato in Texas una copia del Giardino delle delizie terrene le piccole persone nude che da dentro il dipinto guardavano fuori sarebbero rimaste stupite da quel mondo o avrebbero detto: «Wow, chi immaginava che esistesse un posto così noioso?».
Possibile che l’universo traboccasse ovunque di meraviglie, ma le persone fossero semplicemente spossate dalla fatica della percezione? Era quello il motivo per cui tutti gli altri ragazzini se ne stavano seduti lì fingendo che tutto fosse normale?
Naturalmente non avrei espresso ad alta voce questi pensieri. Ero piccolino.
Guardavo il dipinto, poi fuori dalla finestra e poi di nuovo il dipinto. Ogni volta sentivo la mia mente cambiare colore, come se la testa mi si riempisse di sangue e si svuotasse. Perché il dipinto era così seducente? Che cosa aveva di così eccitante da attrarmi tanto?
Era ancora meglio se contemplavo l’immagine ascoltando Bach. La scuola aveva in dotazione un giradischi malandato. C’erano un lp con le composizioni per organo di Bach eseguite da Edward Power Biggs e un altro con Glenn Gould al piano.
Più di tutto mi piaceva osservare Il giardino delle delizie terrene mentre ascoltavo la Toccata e fuga in re minore ad alto volume pescando da una ciotola di cioccolatini messicani alla cannella. Ma era un piacere che mi concedevo di rado.
Umore
I miei primi ricordi sono pervasi dalla sensazione di essere consumato da una schiacciante soggettività. Tutto era nitido, volubile, carico di sapore; ogni angolo, ogni istante erano una nuova spezia in un armadietto infinito, una parola inedita in un dizionario sterminato.
Continua a stupirmi la difficoltà di comunicare uno stato mentale a chi non sa riconoscerlo all’istante. Immaginate di fare l’autostop a mezzanotte, su un crinale del Nuovo Messico, e di osservare dall’alto una valle spolverata di neve fresca che al chiarore della luna piena appare fluorescente. Adesso immaginate un dialogo tra due compagni di viaggio, uno di animo romantico, l’altro dall’indole analitica e sarcastica. Il primo potrebbe dire: «Che atmosfera magica, vero?» e il secondo rispondere: «Be’, la visibilità è particolarmente buona e c’è la luna piena».
Da bambino ero un iper-romantico, incapace persino di concepire una nozione pragmatica come «visibilità», dato che la «magia» mi soverchiava al punto da escludere quasi tutto il resto. La mia prima esperienza era di dominio del sapore sulla forma, delle sensazioni qualitative sulle spiegazioni razionali.
Crescendo ho imparato a essere più normale, o più noioso. Un tempo quasi non riuscivo a spostarmi in aereo da una località all’altra perché il cambiamento d’umore e di qualità risultava schiacciante. Mi sbalordiva sempre ciò che provavo atterrando a San Francisco quanto tornavo da New York, pur dopo averlo fatto decine di volte. L’aria frizzante, con quel vago profumo di oceano e benzina, più sottile, meno carica. Mi ci volevano ore solo per distinguere quelle sensazioni.
Per molto tempo mi dedicai a imparare come soffocare il peso soverchiante della soggettività, e iniziai a fare progressi solo verso i quarant’anni. Oggi volo da una città all’altra senza problemi. Finalmente gli aeroporti cominciano a sembrarmi tutti uguali.
Sbandato
Chiamavo i miei genitori per nome. Lilly, un’ex bambina prodigio al piano, era nata da una famiglia di ebrei viennesi benestanti. Suo padre era un rabbino e un professore che lavorava come assistente di Martin Buber. Avevano una bella casa, una vita tranquilla e confortevole. I miei nonni erano decisi ad aspettare che cessasse la minacciosa situazione politica, convinti che esistesse un limite a quanto potesse scendere in basso la gente.
Lilly era un’adolescente precoce e piena di risorse. Anche se in circostanze normali sembrerebbe un as...

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