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L’ACCESSIBILITÀ MUSEALE
RIPENSARE L’ACCESSIBILITÀ AL MUSEO
di Maria Chiara Ciaccheri
Il museo è il luogo che racconta chi siamo e quello a cui diamo valore: per questo, pensando al futuro, vorremmo che al suo interno l’accessibilità fosse implicita e imprescindibile.
La piena adozione di questa materia al museo, infatti, permette di progettare mostre e allestimenti pensati per poter essere visitati dal maggior numero di persone possibile, diverse fra loro per bisogni e motivazioni. Ad oggi, l’accezione più diffusa del termine fa riferimento alla rimozione delle barriere che impediscono alle persone con disabilità di accedere ai musei anche se le proposte che questo approccio genera rispondono ai bisogni di ognuno di noi. In questo libro ci riferiremo soprattutto alla specificità delle soluzioni pensate per facilitare l’accesso a persone con disabilità.
Nell’immaginario comune, questo ambito è spesso associato alla rimozione delle barriere fisiche (una rampa al posto di un gradino) eppure le declinazioni che può assumere sono molto più articolate: ad esempio, possono riguardare la leggibilità e la comprensibilità di un testo o avere a che fare con le consapevolezze del personale di sala.
L’accessibilità museale è soprattutto un modo di pensare all’esperienza di visita, che si sviluppa dall’immedesimarsi nelle prospettive di persone diverse; possiede una grammatica di base e si rinnova attraverso la ricerca e l’indagine di nuovi metodi capaci di moltiplicare le modalità di accesso ai luoghi, ai contenuti, ai servizi.
Si tratta, infine, di una materia interdisciplinare il cui sviluppo in Italia è recente e, per quanto frammentario, visibilmente in atto: sono infatti sempre più numerose le progettazioni realizzate a questo scopo e sempre più spesso se ne discute in convegni e seminari.
È importante osservare come il diffondersi di questa consapevolezza avvenga in parallelo ad un cambiamento più ampio che interessa musei di tutto il mondo. I musei, infatti, da istituzioni dedicate soprattutto alla conservazione del patrimonio, negli ultimi anni stanno via via spostando la propria attenzione sui visitatori. In altre parole, iniziano a considerare sempre più importante la comprensione delle persone a cui si rivolgono, quasi al pari degli oggetti che conservano. Questo processo di ascolto e indagine avviene comunque all’interno di un panorama articolato che vede coesistere musei di diversa dimensione e tipologia, ognuno dotato di proprie specificità: basti pensare alle differenze, per fare un esempio, fra un grande museo dedicato alla scienza collocato in una città e un piccolo museo civico finalizzato a valorizzare il patrimonio locale di una zona montana.
Comprendere i visitatori, quale che sia il contesto di riferimento, significa rendersi conto dei loro possibili bisogni e cercare soluzioni appropriate per individuare e rimuovere le barriere che potrebbero incontrare, dal costo del biglietto d’ingresso alla mancanza di sedute.
In questo panorama, gli ostacoli associati alle disabilità rimangono forse i più difficili da rimuovere, soprattutto quando originano da pregiudizi di tipo culturale e da scarse conoscenze. Infatti, nella maggior parte dei casi, la mancata adozione di soluzioni accessibili scaturisce più dall’ignoranza in materia e dalle scarse opportunità formative che dalle ridotte disponibilità economiche, erroneamente considerate il vincolo maggiore.
Per quel che riguarda la disabilità, sono ugualmente poco sviluppati i disability studies, un ambito di ricerca che indaga la natura culturale della disabilità e la sua storia sociale; nei musei, anzi, questi riferimenti mancano completamente, così come dimostra la diffusione di attività e strumenti spesso solo di tipo compensativo, all’interno di una prospettiva che insegue sempre, come vedremo, il mito di una normalità presunta.
Il punto di partenza per ragionare in modo corretto intorno alla disabilità muove innanzitutto da un modello definito di tipo sociale che la descrive come il risultato dell’interazione fra le caratteristiche della persona e dell’ambiente. Un assunto secondo il quale la disabilità non corrisponde a un problema personale, così come era nel modello medico, ma prende sempre forma dall’interazione con le barriere presenti nel contesto.
Come racconta lo studioso Matteo Schianchi, autore del libro Storia della disabilità (2012), nel nostro Paese la disabilità è stata tradizionalmente percepita come un tabù; una condizione costruita socialmente che tuttavia necessita di comprensione e analisi soprattutto sul piano culturale e politico così come, aggiungiamo qui, emerge spesso anche nelle progettazioni al museo.
Del resto, la storia di questa istituzione culturale è una storia relativamente recente, capace di raccontare fra le righe, nel mutare dei suoi scopi e delle sue proposte, le consapevolezze del proprio tempo. Se tradizionalmente i musei sono sempre stati intesi quale spazio di apprendimento per pochi, oggi, dobbiamo insistere affinché si trasformino soprattutto in luoghi di democrazia. Nel frattempo, ci permettono di vivere esperienze piacevoli ma sottilmente contraddittorie, definendo contesti nei quali ci è richiesto di camminare, osservare e comprendere, il più delle volte secondo approcci rigidi, fortemente codificati e spesso inaccessibili.
Senza considerare fondanti i saperi apportati da altre discipline, come potrebbero essere la pedagogia o il design, in passato il museo non si è mai preoccupato di costruire una relazione rispettosa delle diversità dei suoi visitatori, fosse anche solo nel tentativo di rendere le didascalie comprensibili o adeguare l’illuminazione.
La riappropriazione reale e insieme simbolica di questi spazi, la stessa su cui insiste l’accessibilità, diventa particolarmente significativa e parte dal presupposto che la diversità sia un tratto costitutivo di tutte le persone. Eppure, è soprattutto con la ricerca e lo sviluppo di progetti indirizzati a persone con disabilità che il museo ha iniziato a riflettere maggiormente sulle barriere esistenti per tutti; l’accessibilità si è così gradualmente trasformata in una lente di ingrandimento che ci ha permesso di osservare più da vicino la relazione fra musei e pubblici, contribuendo così a un cambiamento culturale più ampio.
Il momento storico nel quale ci troviamo suggerisce di promuovere con forza una nuova consapevolezza, riportando al centro i bisogni del corpo, il benessere personale, moltiplicando le possibilità di comprensione e accesso. Ovviamente si tratta di un processo ancora in divenire e che ha iniziato a prendere forma nell’ambito delle attività educative.
In questo contesto, l’accessibilità si realizza così soprattutto attraverso laboratori, percorsi guidati o strumenti capaci di facilitare la visita a persone con disabilità: soluzioni che contribuiscono all’apertura nonostante il limite temporale e organizzativo ne vincoli il contributo alla trasformazione.
Questa lenta conquista dell’accessibilità sul piano delle pratiche, pur non essendo ancora diventata una disciplina adottata trasversalmente nel museo, va comunque considerata come una tappa imprescindibile nella storia inclusiva di questi luoghi.
Infatti, se in passato erano soprattutto attività per bambini e visite guidate per adulti, oggi al confronto, possiamo notare il diffondersi di percorsi sempre più differenziati: per gruppi di adolescenti, per persone per le quali l’italiano non è la prima lingua ma anche proposte specifiche pensate per persone con demenza e loro caregiver, laboratori di esplorazione tattile, visite in linguaggio semplificato e così via.
Perché non si tratta di creare nicchie separate di pubblico quanto, piuttosto, di offrire soluzioni e servizi capaci di rispondere a bisogni diversi. A tal proposito, un equivoco con il quale ci si confronta di frequente è proprio sul significato della parola “inclusione”, spesso intesa come un invito a realizzare attività esclusivamente rivolte a gruppi misti. Se questo, laddove possibile, è chiaramente un auspicio, talvolta ci si dovrà necessariamente relazionare con gruppi omogenei composti principalmente da persone con disabilità: questo per tutelarli e garantire loro uno spazio più protetto così come potrebbe essere, solo per fare degli esempi, nelle proposte rivolte a persone con disturbi dello spettro autistico o malati di Alzheimer.
Queste considerazioni certamente non contraddicono l’esigenza di ripensare ai visitatori in modo articolato, evitando facili stereotipi rispetto a bisogni che possono essere condivisi. Nel caso delle persone con disabilità stupisce, ad esempio, la mancanza di proposte che differenzino livelli di conoscenza pregressa e motivazione, come se gli individui fossero caratterizzati solo ed esclusivamente dalla loro disabilità. Un professore di storia dell’arte cieco, ad esempio, potrà essere interessato a contenuti più specialistici, eppure ad oggi difficilmente disponibili per persone con disabilità.
La responsabilità di chi si occupa di patrimoni culturali passa così anche dalla necessità di considerare le persone con disabilità un pubblico complesso fra gli altri, portatore di esigenze di cui tenere conto e, al contempo, sempre appartenente a più gruppi sovrapposti. Inoltre, se nell’accogliere al museo degli studenti diamo per scontato che ci possano essere dei bambini con disabilità, questo stesso approccio dovrebbe rappresentare la traccia implicita di tutte le azioni, incluse quelle indirizzate agli adulti, non potendo mai sapere che bisogni potranno avere. La classica visita guidata, ad esempio, potrebbe offrire vantaggi a tutti i partecipanti se includesse anche l’opportunità di toccare degli oggetti, osservare delle riproduzioni ingrandite delle opere ed essere accompagnata dall’uso di un microfono.
Contribuire ad abbattere lo stereotipo associato alla disabilità, d’altronde, non può che prendere forma in proposte che veicolino la percezione che tutti abbiamo bisogni precisi (e non solo, dunque, le persone con disabilità) e anche che lo status associato a questa condizione può comunque essere temporaneo e riguardare chiunque, in qualsiasi fase della vita.
Di certo, negli ultimi anni, sono state sviluppate anche progettualità realizzate in ambito curatoriale o delle risorse umane, solo per citare dei casi, ma la loro mancata diffusione racconta di numerosi vincoli ancora tutti da superare. L’accessibilità, infatti, nei musei è raramente considerata come una priorità condivisa. In altre parole, questa materia in Italia è spesso sottoposta agli stessi pregiudizi associati culturalmente alla disabilità secondo un approccio dogmatico che ne limita la comprensione, nel solco di una dimensione definita erroneamente “speciale”. Eppure, proposte realmente efficaci dovrebbero svilupparsi da una piena consapevolezza dei suoi impatti capace di coinvolgere il museo nella totalità delle sue funzioni.
L’accessibilità dovrebbe così essere intesa come un processo che attraversa il museo nella sua interezza: da prerequisito di ogni progettazione alla formazione della totalità del personale; dal pieno coinvolgimento dei gruppi di cui il museo vuole farsi portavoce alla riflessione sulle modalità di una loro corretta rappresentazione; da percorsi di valutazione votati all’empowerment dei visitatori fino a possibili ridefinizioni dell’organigramma, così come andremo ad analizzare più avanti.
Indagare lo sviluppo della disciplina e la sua evoluzione in altri paesi, in questo senso, è certamente interessante poiché nuovamente possibile solo sul piano di un confronto fra discipline sovrapposte, insito nella materia. Due casi forse più rappresentativi di altri sono quelli offerti dai contesti britannico e statunitense.
Nel primo caso, in Gran Bretagna, la diffusione di una riflessione approfondita intorno all’accessibilità nasce anche da una diversa competenza nell’ambito dei museum studies, diffusi da molti più anni: percorsi di formazione accademica che hanno facilitato la comprensione del museo quale dispositivo esperienziale rivolto a persone diverse, accanto a una significativa spinta offerta da indirizzi di tipo politico che hanno insistito sulla necessità di impatti di tipo sociale. A supporto di questa coscienza diffusa, occorre anche rilevare che persino il modello sociale della disabilità nasce negli anni Sessanta proprio in questo contesto, rafforzandosi via via sul fronte museale grazie anche a un ampio dibattito sui temi della rappresentazione, quale spinta a raffigurare la disabilità soprattutto attraverso le opere e le collezioni.
Ancora diverso il caso degli Stati Uniti, paese in cui il forte attivismo sociale, l’attenzione alle finalità educative e soprattutto norme rigorose (come l’American Disability Act del 1990) hanno garantito alle persone con disabilità l’acquisizione di diritti certi e fondamentali anche nei musei. Addirittura gli esordi della disciplina pare possano essere rintracciati in quest’area geografica, a partire da sporadiche attività sperimentate già all’inizio del secolo. Al Metropolitan Museum of Art di New York, ad esempio, i primi documenti d’archivio riferiti all’accessibilità risalgono al 1908, esplicitando la possibilità di poter chiedere in prestito una sedia a rotelle per poter visitare il museo.
Nel “Bulletin of The Metropolitan Museum of Art” del maggio 1913 si riporta l’esperienza di due lezioni tenute a visitatori ciechi, mentre risale a pochi anni dopo, nel 1917, il primo riferimento a delle “lezioni per sordi”. La collezione tattile è stata messa a punto negli anni Settanta, inaugurando parallelamente una progettualità più strutturata: sono gli anni in cui si svolgono i primi tour in lingua dei segni e le attività educative per le persone allora definite mentally retarded. Un anticipo dunque certamente significativo che giustifica, seppure solo parzialme...