Cent'anni di racconti dal Giappone
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Cent'anni di racconti dal Giappone

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cent'anni di racconti dal Giappone

Informazioni su questo libro

Quindici racconti di scrittori giapponesi moderni e contemporanei, tra i quali i premi Nobel Yasunari Kawabata e Kenzaburo Oe, in una raffinata antologia che mette in evidenza gli aspetti affascinanti ed enigmatici di un universo narrativo che ha ancora molto da rivelarci.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804490173
eBook ISBN
9788852062551

ŌE KENZABURŌ

Uno strano lavoro

Percorrendo l’ampia strada lastricata davanti al policlinico in direzione della torre dell’orologio, giunti all’incrocio dove improvvisamente il campo visivo si allargava, si udivano i latrati di innumerevoli cani, provenienti dalla zona dove le strutture in acciaio di un edificio in costruzione si alzavano stridule verso il cielo, oltre la linea delle cime flessibili dei giovani alberi che fiancheggiavano la strada. Ogni volta che la direzione del vento cambiava, i latrati sembravano aumentare di intensità e violenza, salire verso il cielo scontrandosi l’uno con l’altro, e ostinatamente far eco in lontananza.
Quando andavo all’università, camminavo per quella strada, un po’ curvo in avanti, e ogni volta che arrivavo all’incrocio tendevo l’orecchio. Speravo di risentire quei latrati, ma talvolta non si udiva niente. Ad ogni modo, non c’era ragione che mi interessassi tanto a quel branco di cani che abbaiavano.
Tuttavia, alla fine di marzo, dopo aver visto sulla bacheca della scuola l’avviso di una offerta di lavoro, la voce di quei cani si avvolse strettamente attorno al mio corpo come un indumento bagnato, e penetrò nella mia vita.
L’ufficio accettazione dell’ospedale mi disse che non aveva niente a che fare con l’offerta di lavoro. Chiesi con insistenza al guardiano, e riuscii ad entrare dall’ingresso posteriore, dove rimanevano ancora delle baracche di legno. Davanti ad una di queste, una ragazza ed uno studente di qualche università privata stavano ricevendo istruzioni da un uomo di mezza età, dal colorito pallido, che indossava un paio di stivali. Mi fermai alle spalle dello studente. L’uomo fissò su di me le palpebre pesanti, annuì lievemente e ritornò a spiegare.
«Si tratta di uccidere centocinquanta cani» disse. C’era un accalappiacani di professione e il lavoro doveva essere sbrigato in tre giorni.
Una signora inglese aveva scritto ad un quotidiano lamentandosi che era atroce trattenere per esperimenti centocinquanta cani, e dal momento che lo stesso ospedale non aveva intenzione di continuare a mantenere gli animali, si era deciso di ucciderli in una sola volta. L’uomo aveva l’incarico di sistemare le cose. «Per tutti voi sarà un’occasione per imparare qualcosa sulla dissezione e sul comportamento dei cani.»
Ci informò sui vestiti e sull’orario di lavoro, ed entrò nell’ospedale. Noi ci incamminammo affiancati verso l’entrata posteriore della scuola.
«La paga è proprio buona» disse la ragazza.
«Pensi di accettare?» chiese lo studente sorpreso.
«Si, accetterò; studio scienze biologiche, e sono abituata alle carcasse degli animali.»
«Anche io accetterò» disse lo studente.
Giunto all’incrocio, tesi l’orecchio, ma l’abbaiare dei cani non si sentiva. Il vento del tramonto fischiava attraverso i rami degli alberi ai margini della strada, facendo cadere le foglie. Quando di corsa raggiunsi gli altri due, lo studente mi scrutò.
«Anch’io accetto» dissi.
Il mattino dopo, indossati dei pantaloni da lavoro verde scuro, uscii di casa. L’accalappiacani aveva circa trent’anni, era di bassa statura ma era un uomo robusto. Io portavo i cani nel recinto costruito davanti alle baracche, l’accalappiacani li uccideva e li scuoiava, lo studente portava via le carcasse e le consegnava al responsabile del lavoro. La ragazza sistemava le pelli. Il lavoro procedeva bene e nella mattinata ne sistemammo quindici. Mi abituai subito.
I cani erano tenuti in uno spiazzo, racchiuso da un basso muro di cemento armato. Erano stati legati ad una fila di paletti piantati ad un metro l’uno dall’altro. Gli animali erano silenziosi. Anche quando entravo nel recinto non abbaiavano, come se, durante il periodo di circa un anno in cui erano stati tenuti in custodia, avessero perso ogni abitudine aggressiva. L’impiegato dell’ospedale mi informò che i cani, senza nessuna ragione particolare, cominciavano improvvisamente ad abbaiare. Ci volevano due ore perché si calmassero, ma se qualcuno entrava nel recinto stavano tranquilli. I cani non abbaiavano, ma quando entravo si voltavano a guardarmi tutti insieme. Era una strana sensazione essere guardato simultaneamente da centocinquanta cani. Pensai alle molteplici piccole immagini della mia figura riflesse negli occhi annebbiati e cisposi di quegli animali, e questo pensiero mi diede un leggero tremito.
Erano per lo più incroci di tutte le razze, eppure si somigliavano straordinariamente l’uno all’altro. Ai paletti erano legati anche cani di grossa taglia e cani piccolini, ma prevalentemente erano cani rossicci di mezza taglia, e tutti avevano qualcosa in comune. Mi chiedevo perché si somigliassero tanto. Probabilmente perché erano tutti poveri bastardi e denutriti, o perché erano stati legati e avevano perso completamente ogni aggressività. Doveva essere sicuramente così. Anche noi forse faremo la stessa fine. Anche noi studenti giapponesi che siamo legati all’apatia e abbiamo perso ogni carica aggressiva, noi, esseri ambigui, che abbiamo smarrito l’individualità e ci rassomigliamo tutti. Io non avevo grossi interessi politici. Ero troppo giovane o forse troppo vecchio per entusiasmarmi a queste cose, compresa la politica. Avevo vent’anni. Non solo mi trovavo in un’età strana, ma ero anche troppo stanco. Persi subito ogni interesse per il branco di cani.
Ma quando mi imbattei in un buffo esemplare, che non poteva essere altro che l’incrocio tra un pastore tedesco e un volpino, un senso di stranezza prese a correre su e giù come un insetto per tutto il mio corpo. Il cane aveva la testa di un pastore tedesco, il pelo bianco e soffice mosso dal vento tiepido. Scoppiai a ridere a voce alta. «Guarda un po’» dissi allo studente. «Deve essere terribilmente divertente il modo in cui si accoppiano un pastore tedesco e un volpino.»
Lo studente fece una smorfia e distolse lo sguardo. Presi la corda che legava questo strano cane di taglia media e lo trascinai via dal muro.
Tirando il cane entrai nel recinto, dove l’accalappiacani stava aspettando con un bastone fra le mani. L’uomo nascose subito il bastone dietro la schiena e si avvicinò facendo finta di niente. E mentre io, sempre tenendo la corda, mi allontanavo dall’animale, vibrò un colpo; il cane crollò al suolo con un violento guaito. Questo sistema era tanto vile da togliere il respiro. Mentre guardavo l’uomo che conficcava nella gola del cane un coltello estratto dalla cinta e, dopo aver fatto scorrere il sangue dentro un secchio, lo scuoiava con consumata abilità, sentii l’odore del sangue tiepido e provai un’agitazione particolare.
Che cosa ignobile. Eppure la viltà funzionale di quell’uomo che sistemava i cani davanti ai miei occhi, una viltà che era mutata velocemente in azione, non poteva di per sé essere criticata.
Era la stessa viltà radicata nella coscienza della vita. Io ero abituato a non provare una rabbia violenta. La mia stanchezza era quotidiana, e anche di fronte alla viltà dell’accalappiacani la mia rabbia non esplose. Si indebolì sul nascere. Non avevo potuto partecipare al movimento studentesco con i miei amici. Ciò era dovuto anche al fatto che non avevo interessi politici, ma in definitiva era conseguenza della mia incapacità di esprimere una rabbia duratura. Qualche volta tentavo di pensare a queste cose con rabbia, ma ero sempre troppo stanco perché il mio stato d’animo perdurasse.
Sollevando le zampe posteriori della povera carcassa bianca del cane, ormai scuoiato, uscii dal recinto. Il cane emanava un odore tiepido, i suoi muscoli nel palmo delle mie mani si contraevano, come quelli di un campione di nuoto sul blocco di partenza.
Fuori del recinto lo studente stava aspettando. Facendo attenzione a non toccare col proprio corpo il cadavere del cane, lo portò via.
Tenendo fra le mani la corda che era stata tolta all’animale morto, andai a prenderne un altro.
Ogni cinque cani uccisi, l’accalappiacani usciva dal recinto a fumare una sigaretta, ed io camminando vicino a lui, che sedeva direttamente a terra, cominciai a parlargli. Quando mi fermai, avvertii l’odore tiepido dei cani che emanava dal suo corpo; era più forte di quello delle carcasse, e facendo finta di niente voltai la testa e ripresi a camminare. La ragazza, all’interno del recinto, sistemava le pelli. Puliva in un lavatoio quelle che erano sporche di sangue.
«Qualcuno insiste perché io usi il veleno» disse l’accalappiacani.
«Il veleno?»
«Proprio così, ma io non uso il veleno. Non mi piace aspettare all’ombra, sorseggiando il tè, mentre i cani muoiono avvelenati. Se vuoi ucciderli devi stare dinnanzi a loro con un bastone. Non è vero? Io ho usato questo bastone sin da bambino. Non posso fare una cosa così ignobile.»
«La comprendo» dissi.
«E poi, quando si usa il veleno, le carcasse emanano un cattivo odore. Non ti pare che i cani abbiano il diritto di essere scuoiati sollevando vapore ed emanando un odore gradevole?»
Mi misi a ridere.
«E così! Hanno questo diritto» incalzò in tono serio l’accalappiacani. «Io non appartengo a quel genere di persone che usano il veleno; perché amo i cani.»
Arrivò la ragazza che portava le pelli da lavare. Il suo viso, dalla carnagione opaca e smorta, sembrava arrossato, pur restando pallido.
Sporche di sangue, le pelli dei cani impregnate di grasso erano ruvide e pesanti. Pesavano come un cappotto bagnato. Aiutai la ragazza a portarle al lavatoio.
«Quell’uomo» disse la ragazza mentre camminava reggendo le pelli «ha una certa coscienza della tradizione. È fiero di uccidere con un bastone. Questo è il significato della sua vita.»
«È la cultura di quell’uomo» risposi.
«La cultura di un accalappiacani» continuò la ragazza, con voce priva di emozione. «È uguale alle altre.»
«Eh? Cosa?»
«La coscienza culturale nella vita» disse la ragazza. «Dopotutto, la tecnica del fabbricante di secchi è la sua cultura; è una cultura vera, legata strettamente alla vita, dicono i critici. È ovvio. Eppure, se proviamo ad esaminare caso per caso, non è poi così chiaro. La cultura degli accalappiacani, la cultura delle puttane, quella dei funzionari di una ditta: sporche fradicie e persistenti, sono tutte la stessa cosa.»
«Proprio non hai speranze» dissi.
«Non è che sia disperata» rispose lei, lanciandomi uno sguardo di disapprovazione. «D’altra parte, lavo le pelli di questi cani, prendo queste nuove medicine per il beri-beri.»
«Vuoi dire che ti stai inserendo in questa cultura odiosa?»
«Non si tratta di inserirmi. Già tutti ci siamo immersi fino al collo. Siamo ricoperti dal fango della cultura tradizionale. E non possiamo ripulirci tanto facilmente.» Gettammo le pelli sul pa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Nota biobibliografica
  5. Nota del Curatore
  6. Racconti dal Giappone
  7. HAYASHI FUMIKO
  8. DAZAI OSAMU
  9. HIRABAYASHI TAIKO
  10. YOSHIYUKI JUNNOSUKE
  11. KAWABATA YASUNARI
  12. FUKUNAGA TAKEHIKO
  13. ENCHI FUMIKO
  14. ABE KŌBŌ
  15. FUKAZAWA SHICHIRŌ
  16. ŌE KENZABURŌ
  17. ENDŌ SHŪSAKU
  18. Glossario
  19. Copyright