Tracce criminali
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Tracce criminali

Storie di omicidi imperfetti

Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi

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  1. 224 pagine
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Tracce criminali

Storie di omicidi imperfetti

Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi

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Carlo Lucarelli, scrittore di noir e grande indagatore di tutti quei misteri che hanno segnato la nostra storia, e Massimo Picozzi, psichiatra e criminologo, coinvolto dalle forze dell'ordine in molte delle indagini più controverse degli ultimi anni, raccontano alcuni clamorosi e spesso ambigui casi di cronaca nera e ne fanno lo spunto per un'inchiesta sul ruolo che la cura e la professionalità con cui vengono raccolte e analizzate tutte le tracce da parte degli investigatori scientifici ha sempre nella soluzione dei delitti più intricati. Dalle impronte digitali ai liquidi biologici e al sangue, dalle fibre alle tracce elettroniche lasciate dai telefonini, Lucarelli e Picozzi ricostruiscono quella fitta trama che unisce il lavoro degli investigatori sulla scena del crimine con quello degli scienziati e dei tecnici che nei loro laboratori analizzano e danno un valore inoppugnabile al lavoro dei primi. Perché è solo dalla loro collaborazione che delle semplici tracce di vernice bianca, come nel caso dell'"incidente" di Parigi, potrebbero diventare delle vere e proprie "prove d'accusa", capaci di restituirci la verità sulle più inquietanti storie di sangue.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852059889
II

Liquidi biologici e sangue

Il caso di Ferdinando Carretta

A Parma non succede mai niente. Come non succede a Ferrara, a Todi, a Pavia o a Vercelli. Sono città di provincia e in provincia, quasi per definizione, non succede mai niente e se anche succede è qualcosa che ha a che fare con piccole storie di sesso, di corna o di soldi. Roba più adatta a un film come Il commissario Pepe, di Ettore Scola, che a Le Iene di Quentin Tarantino. Il problema è che non è vero. A Varese, a Vicenza o a Ravenna, e anche a Parma succedono cose strane. Come il «caso Carretta».
I Carretta sono una famiglia normale e tranquilla che vive in un condominio altrettanto normale e tranquillo alla periferia di Parma, in via Rimini, al numero 8. Giuseppe Carretta ha cinquantadue anni e lavora alla Cerve, un’azienda che decora il vetro per conto del gruppo Bormioli; sua moglie Marta fa la casalinga e ci sono anche due figli, Nicola, ventitré anni, che fa il camionista, e Ferdinando, ventisette. Va bene, Ferdinando è un po’ strano, un po’ disturbato, è disoccupato e ha problemi nel fare amicizia, nel mantenere i rapporti con gli altri, ma succede, anche in provincia.
Il 5 agosto 1989 partono per le vacanze. Un giro in Europa con il camper, tre settimane, non di più, perché a fine agosto bisogna tornare tutti a lavorare. Fanno la spesa per le provviste, fanno le valigie, la signora Marta riempie il freezer di stracotto per Ferdinando che vuole restare a casa. Salutano tutti, i colleghi, i vicini, la signora del piano di sopra, e il giorno dopo, alla mattina presto, sono già partiti.
Però poi non tornano.
Arriva la fine di agosto, arriva il 28, giorno di rientro, inizia settembre e alla Cerve il signor Giuseppe non si è ancora visto. Non è normale, non per il signor Carretta, che è un impiegato modello, con un ruolo importante, e non ha mai sgarrato di un giorno. I colleghi si preoccupano. Ha avvertito? Ha telefonato, ha detto qualcosa? No. Sarà rimasto bloccato da qualche parte, forse si è ammalato, oppure sta troppo bene dov’è e si è preso un altro paio di giorni… ma ha avvertito? No.
Allora è successo qualcosa.
I colleghi lo cercano, cercano il signor Giuseppe, gli telefonano, suonano alla porta, ma non risponde nessuno. Neanche i vicini l’hanno visto. Non solo, non hanno visto neanche la signora Marta, Nicola o Ferdinando.
Sì, deve essere successo qualcosa.
I colleghi del signor Giuseppe si prendono la responsabilità e fanno sfondare la porta, pensando di trovare qualcosa di brutto. Invece non c’è niente, niente di strano nell’appartamento che è pulito e in ordine come di solito la signora Marta lo tiene. Non c’è niente di sospetto, va bene, ma non ci sono neanche i Carretta, Giuseppe, Marta, Nicola e Ferdinando. Quattro persone. Sparite nel nulla.
I colleghi aspettano un altro paio di settimane, poi segnalano la scomparsa alla polizia, che va a vedere e a parte un po’ di patate e pomodori che intanto sono marciti non trova niente di strano. Mancano i gioielli della signora Marta, ma non significa niente: di solito, quando si sta via da casa per un po’, si prendono o si nascondono da qualche parte.
Va bene, niente di strano. E allora i Carretta dove sono?
A Parma non succede mai niente. In provincia non succede mai niente, e se succede qualcosa è una piccola storia di sesso o di corna. O di soldi.
La prima cosa a cui si pensa sono proprio i soldi. Alla Cerve il signor Giuseppe ha un incarico particolare. Si occupa della cassa, ha la chiave della cassaforte della ditta e anche quella della cassetta di sicurezza in cui si tiene l’oro che serve per decorare il vetro. Vuoi vedere che il signor Giuseppe è scappato con la cassa?
I soldi. Sono una pista. Il giorno prima di partire, il signor Giuseppe ha prelevato dalla banca un milione in contanti. Poi ha aperto la cassaforte della ditta e ne ha presi altri tre, mettendo al loro posto un assegno. Anche questo potrebbe non significare niente, magari il signor Giuseppe aveva bisogno di contanti per andare in vacanza e ha cambiato un assegno. In quella cassaforte c’erano altri sessanta milioni, tutti in contanti, e sono ancora lì. Ed è ancora lì l’oro della cassetta di sicurezza. Però… le indagini sulla pista dei soldi portano a scoprire qualche irregolarità nella gestione dei fondi della ditta. Qualche movimento contabile compiuto dal signor Giuseppe che è servito a costituire fondi neri. Quanti? Milioni? Miliardi? È con quelli che il signor Giuseppe è scappato? Le indagini portano a quantificare con certezza l’entità dei fondi neri della ditta. Sono solo quei sessanta milioni. Ma la voce resta. Vuoi vedere che il signor Giuseppe è scappato con la cassa?
Anche perché intanto succede qualcosa.
In novembre, a Milano, viene trovato il camper della famiglia Carretta. Non è bruciato in una scarpata in Germania o in Francia, o bucherellato dai proiettili di qualche bandito da strada iugoslavo; è in un parcheggio vicino al carcere di San Vittore, perfettamente intatto, pulito e in ordine come l’appartamento di via Rimini. È stato posteggiato lì all’inizio di agosto, come dimostra una copia della «Gazzetta di Parma» datata 9 agosto e anche l’esame della batteria del camper. Niente sangue, vetri rotti o buchi di proiettile, tutto fa pensare che i Carretta siano arrivati fino a quel parcheggio senza problemi e di loro spontanea volontà, e allo stesso modo se ne siano andati. Dove?
A Parma non succede mai niente, e quando succede qualcosa, a Parma come in tutte le città di provincia, le voci si sprecano. Per la strada, nei bar, e poi sui giornali di tutta Italia. I Carretta sono ai Caraibi, a godersi i miliardi della ditta. No, sono in Venezuela. La signora Marta si è ammalata ed è morta, e il signor Giuseppe si è rifatto una vita e sta sull’isola di Aruba con una ragazzina giovanissima. I figli si sono arrabbiati con lui, sono andati a vivere a Valençia, vicino a Caracas, e allevano cavalli da corsa. Voci, illazioni, ipotesi, alcune sono notizie che giornalisti seri doverosamente riportano e correttamente valutano ed elaborano, perché molte di queste non sembrano affatto campate per aria. Altre sono soltanto pettegolezzi.
C’è qualcosa che non torna nella fuga del signor Giuseppe e della sua famiglia. Gli inquirenti, la polizia e i carabinieri di Parma, il magistrato di Milano che si occupa del caso dopo il ritrovamento del camper, che si chiama Antonio Di Pietro e dopo qualche anno diventerà molto famoso con l’inchiesta Mani Pulite, e anche la magistratura di Parma… sono in pochi a vederci chiaro in questa strana fuga con la cassa.
Intanto ci sono proprio i soldi, che se da una parte fanno pensare alla fuga, dall’altra la escludono. Il 4 agosto, il giorno prima di sparire, il signor Giuseppe va in banca e versa centocinquantamila lire, l’ultima rata per un fondo di investimento di otto milioni. È un uomo preciso, il signor Giuseppe, uno che rispetta le scadenze, e questo è proprio il comportamento di un uomo preciso e non di uno che sta per scappare con la cassa della ditta. Anche in questo caso, come per la cassaforte della Cerve, il signor Giuseppe lascia lì un sacco di soldi che sarebbero serviti per una fuga, centottanta milioni in BOT, pronti per essere cambiati.
Poi ci sono le valigie, piene di vestiti più adatti a stare in vacanza per un po’ che a sparire per sempre, e anche quello stracotto pronto nel freezer per Ferdinando, come la signora aveva detto a una vicina di casa.
Già… e Ferdinando? Non voleva partire con gli altri, ma a casa non c’è. Dov’è Ferdinando? Ha cambiato idea? È scappato anche lui con gli altri?
Di Ferdinando qualcosa si sa, ed è qualcosa che non torna. L’8 agosto è andato alla Banca delle Comunicazioni, dove il padre ha un conto corrente, e ha prelevato cinque milioni con un assegno firmato dal signor Giuseppe. Poi è andato alla Banca del Monte e ha prelevato un milione dal conto di Nicola, sempre con un assegno. Solo che le firme non sono né di Nicola né del signor Giuseppe. Sono false, le ha fatte lui.
Dov’è Ferdinando? Dove sono il signor Giuseppe, la signora Marta e Nicola?
Forse a Parma non succede mai niente, ma questa cosa della famiglia Carretta, qualunque cosa sia, è un gran mistero.
Qualunque cosa sia.
È una brutta cosa. Lo si scopre dieci anni dopo.
È il 22 novembre 1998. Siamo a Londra. C’è un pony express che ha lasciato la moto in divieto di sosta. Quando torna, il pony trova un poliziotto che gli sta facendo la multa e alla richiesta del bobby gli mostra i documenti. Sono intestati a un certo Ferdinando Carretta, il cui nome è stato segnalato tanti anni prima dalla polizia italiana. È proprio lui, Ferdinando, che da molto tempo vive a Londra, in un piccolo appartamentino ai limiti della City e tira avanti alla giornata, con il sussidio e lavori saltuari come quello del pony express. La notizia arriva sia ai giornali che alla polizia e il magistrato di Parma che si occupa dell’inchiesta, il dottor Francesco Saverio Brancaccio, va a Londra a interrogare Ferdinando. Dove sono finiti suo padre, sua madre e suo fratello Nicola? Non lo sa. Non li ha più visti dal 1989.
Non è vero. Ferdinando non parla con il magistrato ma lo fa con qualcun altro. C’è una trasmissione televisiva in Italia che si chiama «Chi l’ha visto?», che da anni si occupa di persone scomparse e di misteri. Lo fa su Raitre e lo fa molto bene, con un gruppo di autori e registi che sono veri investigatori. Uno di questi è Giuseppe Rinaldi, che il 30 novembre vola a Londra con una troupe e ottiene da Ferdinando l’assenso a farsi intervistare sulla scomparsa della sua famiglia. E lì, davanti alle telecamere accese, gli dice che ha ucciso suo padre, sua madre e suo fratello.
Lo ha fatto perché si sentiva oppresso, soprattutto dal padre. Oppresso addirittura a livello fisico. Ferdinando aveva la strana abitudine di fare i suoi bisogni in casa, di nascosto, in un bicchiere o in un giornale, e un giorno, nel 1982, era stato scoperto dal padre che si era molto arrabbiato. Da allora non era riuscito più a sentirsi in pace con il suo corpo, vedeva il suo addome e il volto gonfiarsi, il pene rimpicciolirsi, sentiva dei rumori fuori dal bagno che gli impedivano di evacuare.
Così aveva deciso di farla finita. Aveva comprato una pistola, una piccola automatica Walther calibro 6.35, e aveva aspettato l’occasione giusta.
4 agosto 1989, è sera, sono tutti pronti per partire per le vacanze il giorno dopo e Nicola non è ancora rientrato. Ferdinando prende la pistola, arriva alle spalle del padre che è appena entrato nel ripostiglio e quando questi si gira gli spara. Poi esce nel corridoio, dove sta arrivando la madre che ha sentito l’esplosione, e spara anche a lei. Sta arrivando Nicola. Ferdinando trascina via il corpo della madre perché lui non la veda, ricarica la pistola, aspetta che entri in casa e poi spara anche a lui. Non è finita. Torna nel ripostiglio e spara di nuovo al padre, per essere sicuro.
Porta tutti in bagno, dentro la vasca, e li copre d’acqua per ritardare la decomposizione. Poi li infila in tre sacchi di plastica, li trascina fuori, li carica nella macchina e si dirige verso una zona isolata sotto l’argine del Parma. Ma lì c’è una coppietta imboscata, così cambia idea, va a Viarolo, dove c’è un’enorme discarica, e li nasconde in quel luogo. Torna a casa, lava tutto, pulisce l’appartamento, cancella ogni traccia e poi va a dormire. Qualche giorno dopo è a Londra, con i soldi cambiati con gli assegni falsi.
È una confessione piena e completa quella che Ferdinando fa prima a «Chi l’ha visto?» e poi al dottor Brancaccio, quando l’Interpol lo riporta in Italia.
Ma c’è un problema.
A raccontare tutto questo è lui, Ferdinando, un ragazzo strano, che ha fatto una cosa strana e per motivi stranissimi. E se non è vero? Se si è inventato tutto? Se davvero il signor Giuseppe, la signora Marta e Nicola sono ancora vivi, magari ai Caraibi?
Per credergli ci vogliono prove. Per esempio i corpi che Ferdinando avrebbe nascosto nella discarica e che invece non si trovano. Certo, sono passati dieci anni, la discarica è molto grande, dieci chilometri quadrati, continuamente coperti di rifiuti, era impossibile trovarli. Allora la pistola. Ma quella Ferdinando l’ha buttata in un torrente sopra Parma e non si trova più. C’è anche qualche buco nel racconto di Ferdinando. Per esempio, tutti quei colpi che ha sparato in casa, di sera, con le finestre aperte per il caldo. Perché non li ha sentiti nessuno?
È a questo punto che entra in campo l’analisi della scena del crimine condotta dagli uomini del RIS di Parma, comandati dal colonnello Luciano Garofano. Quando ha sterminato la sua famiglia Ferdinando ha lasciato delle tracce. Ha sparato, ha sparso sangue, ha trascinato corpi. Ma è stato dieci anni prima e dopo ha lava...

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