
- 672 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Proprietario terriero che vive di rendita e trascorre le sue giornate in uno stato di totale inattività e apatia che neppure l'amore sincero per la bella Ol'ga riesce a vincere, Oblòmov incarna un tipo umano squisitamente russo, l'esponente dell'aristocrazia ottocentesca irrimediabilmente corrotta dai suoi privilegi. Nello stesso tempo, è anche l'emblema di una condizione esistenziale eterna, a metà tra Amleto e Don Chisciotte, con la quale ogni generazione, in ogni luogo, si confronta. Oblòmov, uno dei capolavori della letteratura, è un romanzo mirabile sia per l'affresco storico e sociale che delinea, sia per la finezza psicologica con cui indaga l'interiorità dei personaggi.
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Informazioni
eBook ISBN
9788852079351Categoria
Literature GeneralPARTE PRIMA
1
In via Goròchovaja, in uno di quei grandi palazzi la cui popolazione basterebbe per un intero capoluogo di provincia, una mattina se ne stava sdraiato a letto, nel suo appartamento, Il’jà Il’ìč Oblòmov.
Era un uomo di trentadue o trentatré anni, di media statura e dall’aspetto simpatico, i cui occhi grigio-scuro vagavano placidamente lungo le pareti, lungo il soffitto, con quella indefinita pensosità che rivela che nulla interessa, nulla turba. Dal viso la placidità passava agli atteggiamenti di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste da camera.
Talvolta il suo sguardo era offuscato da un’espressione quasi di stanchezza o di noia. Ma né la stanchezza né la noia potevano scacciare per un solo istante dal viso la dolcezza che era l’espressione dominante e fondamentale non solo del viso, ma di tutta l’anima. L’anima splendeva così aperta e chiara negli occhi, nel sorriso, in ogni movimento della testa, delle mani. E un osservatore superficiale e freddo, gettata un’occhiata di sfuggita a Oblòmov, avrebbe detto: «Dev’essere un bonaccione, un pezzo di pane!». Un uomo più profondo e meno distaccato, invece, dopo avere a lungo scrutato il suo viso, si sarebbe allontanato tutto assorto in piacevoli pensieri, sorridendo.
Il viso di Il’jà Il’ìč non era né roseo né abbronzato né decisamente pallido, ma di un colore indefinito, oppure forse sembrava tale perché Oblòmov era un tantino inflaccidito per la sua età: per mancanza di movimento, o d’aria, o forse dell’uno e dell’altra. In generale il suo corpo, a giudicare dalla carnagione opaca, troppo bianca del collo, delle piccole mani paffute, delle spalle morbide, sembrava troppo rilassato per un uomo.
Anche i suoi movimenti, perfino quand’era agitato, erano trattenuti dalla dolcezza e da un’indolenza non priva di una certa grazia. Se dall’anima la nube di una preoccupazione faceva una sortita sulla faccia, lo sguardo si adombrava, sulla fronte apparivano le rughe, cominciava il gioco dei dubbi, della tristezza, dello spavento: ma raramente questa inquietudine prendeva forma in un’idea definita, ancor più raramente si trasformava in proposito. Tutta l’inquietudine si risolveva in un sospiro e si smorzava nell’apatia o nella sonnolenza.
Come si addiceva la tenuta casalinga di Oblòmov alla sua faccia paciosa e al suo corpo rilassato! Portava una vestaglia di stoffa persiana, un’autentica vestaglia orientale, senza la minima allusione all’Europa, senza fiocchetti, senza velluto, senza vita, molto capiente, tanto che Oblòmov vi si poteva avvolgere due volte. Le maniche, secondo l’immutabile moda asiatica, si allargavano progressivamente dal polso alla spalla. Benché questa vestaglia avesse perduto la sua originaria freschezza e in alcuni punti avesse sostituito alla primitiva, naturale lucentezza un nuovo lustro acquisito, conservava ancora la vivacità dei colori orientali e la solidità del tessuto.
La vestaglia aveva agli occhi di Oblòmov un’infinità di pregi inestimabili: era morbida, elastica; non la si sentiva addosso; come uno schiavo obbediente, si sottometteva al minimo movimento del corpo.
In casa, Oblòmov girava sempre senza cravatta e senza panciotto, perché amava sentirsi a suo agio e libero. Le sue pantofole erano lunghe, morbide e larghe; quando, senza guardare, dal letto lasciava cadere i piedi sul pavimento, riusciva sempre a infilarceli al primo colpo.
Star disteso per Il’jà Il’ìč non era né una necessità, come per un malato o per uno che ha sonno, né un caso, come per chi è stanco, né un piacere, come per il pigro: era la sua condizione naturale. Quand’era in casa (ed era quasi sempre in casa), stava sempre sdraiato, e sempre in quell’unica stanza dove l’abbiamo trovato, che gli serviva da camera da letto, da studio e da salotto. Aveva altre tre stanze, ma ci metteva raramente il naso: magari la mattina, e neppure tutti i giorni, quando il servitore spazzava lo studio, il che non accadeva certo tutti i giorni. In quelle stanze i mobili erano ricoperti di fodere, i tendaggi erano abbassati.
La stanza in cui stava Il’jà Il’ìč a prima vista sembrava splendidamente arredata. C’erano una scrivania di mogano, un paio di divani rivestiti di seta, un bel paravento con ricami di uccelli e frutti mai visti in natura. C’erano tende di seta, tappeti, alcuni quadri, bronzi, porcellane e una quantità di graziosi soprammobili.
Ma all’occhio esperto di un uomo di buon gusto sarebbe bastato uno sguardo fugace per leggere in tutto ciò solo il desiderio di osservare alla meno peggio il decorum, tanto per sbrigarsi in qualche modo delle ineludibili convenienze sociali. Certamente Oblòmov si era preoccupato solo di questo quando aveva arredato il suo studio. Un gusto raffinato non si sarebbe accontentato di quelle pesanti, sgraziate sedie di mogano, degli scaffali traballanti. Lo schienale di un divano si era inarcato, l’impiallacciatura si era scollata qua e là.
Esattamente lo stesso carattere avevano i quadri, i vasi, i soprammobili.
Il padrone di casa, invece, guardava l’arredamento del suo studio con fredda distrazione, come se chiedesse con gli occhi: «Chi avrà trascinato e ammucchiato qui tutta questa roba?». Per via di quella freddezza di Oblòmov nel considerare la sua proprietà, e forse per la freddezza ancor maggiore del suo domestico Zachàr a questo proposito, lo studio, a osservarlo un po’ più attentamente, colpiva per l’abbandono e l’incuria che vi regnavano.
Alle pareti, vicino ai quadri, pendevano festoni di ragnatele impregnate di polvere; gli specchi, invece di riflettere gli oggetti, sarebbero potuti servire da lavagne per lasciare appunti o promemoria tracciati sulla polvere. I tappeti erano macchiati. Sul divano c’era un asciugamano dimenticato; sul tavolo, la mattina, era raro non trovare il piatto rimasto dalla sera prima, con la saliera e un ossicino spolpato, nonché briciole di pane sparse.
Se non fosse stato per quel piatto e per la pipa fumata di recente appoggiata al letto, o per il padrone di casa stesso che vi stava sdraiato sopra, si sarebbe potuto pensare che lì non abitasse nessuno: tanto tutto era impolverato, scolorito e privo, insomma, di vive tracce di una presenza umana. Sugli scaffali, è vero, giacevano in disordine due o tre libri aperti e un giornale, sulla scrivania c’era anche un calamaio con delle penne; ma le pagine a cui erano aperti i libri erano cosparse di polvere e ingiallite; si vedeva che erano stati abbandonati da tempo; il numero del giornale era dell’anno prima, e dal calamaio, se qualcuno vi avesse intinto la penna, tutt’al più sarebbe schizzata fuori ronzando una mosca spaventata.
Diversamente dal solito, Il’jà Il’ìč s’era svegliato prestissimo, verso le otto. Qualcosa lo preoccupava molto. Sul suo viso si alternavano espressioni di timore, ansia e dispetto. Si vedeva che una lotta interiore lo sopraffaceva, e che la mente non era ancora intervenuta in suo soccorso.
Il fatto era che il giorno prima Oblòmov aveva ricevuto dalla campagna, dal suo stàrosta, una lettera dal contenuto poco piacevole. Si sa di quali seccature può scrivere uno stàrosta: cattivi raccolti, arretrati non riscossi,1 riduzione delle entrate e cose simili. Benché lo stàrosta avesse scritto al suo padrone le stesse identiche cose anche l’anno precedente e due anni prima, quest’ultima lettera aveva avuto ugualmente un forte effetto, come qualsiasi sgradevole sorpresa.
Non era uno scherzo! Toccava pensare al modo di prendere qualche provvedimento. Del resto, bisogna render giustizia alla sollecitudine di Il’jà Il’ìč per i propri affari. Dopo la prima lettera spiacevole dello stàrosta, ricevuta alcuni anni prima, aveva già cominciato a elaborare mentalmente un progetto di varie modifiche e migliorie per la gestione della propria tenuta.
Questo progetto prevedeva l’introduzione di varie nuove misure economiche, poliziesche e d’altro genere. Ma il progetto era ancor lungi dall’essere messo a punto, mentre le lettere spiacevoli dello stàrosta si ripetevano anno dopo anno, lo incitavano all’azione e, di conseguenza, turbavano la sua pace. Oblòmov era cosciente della necessità di intraprendere qualcosa di decisivo.
Appena si svegliò, subito ebbe l’intenzione di alzarsi, lavarsi e, bevuto il suo tè, riflettere per benino, escogitare qualcosa, prendere appunti e insomma occuparsi seriamente della questione.
Restò disteso per una mezz’oretta, assillato da questa intenzione, ma poi ragionò che avrebbe avuto tutto il tempo anche dopo il tè, e che il tè si poteva bere come al solito a letto, tanto più che nulla vieta di pensare anche stando sdraiati.
E così fece. Dopo il tè si era già sollevato un po’ dal suo giaciglio e per poco non s’era alzato; guardando le pantofole, aveva perfino cominciato a lasciar scivolare giù un piede, ma subito lo ritirò sul letto.
Batterono le nove e mezzo, Il’jà Il’ìč si riscosse.
«Ma insomma, che sto facendo?» disse ad alta voce con stizza, «bisogna aver coscienza: è ora di mettersi al lavoro! Basta che mi lasci un po’ andare, e…»
«Zachàr!» gridò.
Nella stanza che solo un piccolo corridoio separava dallo studio di Il’jà Il’ìč, si udì prima come il ringhio di un cane alla catena, poi il tonfo di due piedi che toccavano terra. Era Zachàr che era saltato giù dalla panca sulla quale trascorreva solitamente il tempo, pisolando seduto.
Nella stanza entrò un uomo anziano in finanziera grigia, con uno strappo sotto l’ascella da cui spuntava un brandello di camicia e un panciotto pure grigio con i bottoni di rame: aveva il cranio nudo come un ginocchio e larghi e folti favoriti chiari, brizzolati, ognuno dei quali sarebbe bastato per tre barbe.
Zachàr non cercava di modificare non solo l’immagine datagli da Dio, ma neppure il costume che aveva portato in campagna. Il suo abito veniva cucito secondo il modello che aveva esportato dal villaggio. La finanziera grigia e il panciotto gli piacevano anche perché in quella specie di uniforme vedeva un pallido ricordo della livrea che aveva portato un tempo, accompagnando i padroni buonanime in chiesa o in visita; e la livrea nei suoi ricordi era l’unica rappresentante della dignità di casa Oblòmov.
Nient’altro ricordava al vecchio l’opulenta e pacifica esistenza signorile nella profondità della campagna. I vecchi padroni erano morti, i ritratti di famiglia erano rimasti a casa, e forse giacevano dimenticati in qualche soffitta; le leggende sulla vita antica e l’importanza della famiglia sfumavano sempre di più o sopravvivevano solo nella memoria di pochi vecchi rimasti in campagna. Perciò Zachàr era affezionato alla finanziera grigia: lì e in certi segni che s’erano conservati nel viso e nelle maniere del padrone e che ricordavano i suoi genitori, e poi nei capricci di Oblòmov, di cui magari brontolava sia fra sé sia ad alta voce, ma che intimamente rispettava come manifestazione del suo volere padronale, del suo diritto di signore, vedeva deboli allusioni alla passata grandezza.
Senza quei ca...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione. di Emanuela Guercetti
- Cronologia
- Bibliografia
- Pronuncia dei nomi
- Oblòmov
- PARTE PRIMA
- PARTE SECONDA
- PARTE TERZA
- PARTE QUARTA
- Note
- Che cos’è l’oblomovismo?. di Nikolàj Dobroljùbov
- Copyright