La gabbia d'oro
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La gabbia d'oro

  1. 259 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La gabbia d'oro

Informazioni su questo libro

Le pigre estati all'ombra dei ciliegi e le sere d'inverno sotto il korsi; il sapore degli halva sfrigolanti di burro e le discussioni sulla moda europea: sono le consuetudini che scandiscono un'amicizia preziosa, quella tra le famiglie di Shirin e Parì. Ma la rivoluzione islamica cambia tutto, disperde su strade diverse i tre fratelli di Parì ormai uomini, rendendoli nemici e mettendo a repentaglio la vita delle due amiche. La storia vera della Gabbia d'oro è quella di molte famiglie iraniane, vittime nel giro di pochi decenni di sconvolgimenti storici e politici che hanno significato la guerra dei padri contro i figli, dei fratelli contro i fratelli, e che hanno provocato l'emigrazione di milioni di cittadini. In controluce scorre la Storia, dagli ultimi giorni della monarchia all'ascesa di Ahmadinejad. E la vicenda, densa come un romanzo, è anche un grido di denuncia e di scandalo: la tragedia della famiglia di Parì, intrecciata alla vicissitudine personale e professionale di Shirin Ebadi, è quella di un intero popolo. Vessato da una monarchia corrotta, rovinato dalle ingerenze straniere e dalla spregiudicata politica americana, e ancora in balìa dell'attuale regime teocratico.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
Print ISBN
9788817037303
eBook ISBN
9788858637593

Prologo

«Aspettami qui, torno tra poco» dissi all’autista della macchina a noleggio.
Controllai nello specchietto retrovisore che il foulard coprisse bene i capelli, ma non avevo di che preoccuparmi: era incollato alla fronte dal caldo. Appena scesa dall’auto, l’aria torrida del deserto di Khavaran mi investì come il morso di una fornace. Era pieno agosto, l’afa, insostenibile. Per un attimo fui tentata di ritornare dentro, nell’abbraccio artificiale dell’aria condizionata. No, non potevo, inutile pensarci. Sistemai meglio la borsetta sulla spalla e mi avviai con passo spedito. Passando accanto alle vecchie tombe di comunisti e bahai, mi avvicinai alla folla che si stava radunando.
Le fosse comuni, probabilmente. Una distesa informe di erba e terriccio, senza neppure una recinzione. I corpi di migliaia di oppositori politici, caduti sotto i colpi dei pasdaran, erano stati ammassati lì, uno sull’altro come spighe falciate. Non meritavano neppure un funerale o una sepoltura in un cimitero musulmano. Non solo erano zedd-e enghelab, controrivoluzionari, ma anche comunisti. «Nessuna cerimonia. Forse vi faremo sapere dove si trova il corpo.» Solo questo si sentivano dire le famiglie dei condannati. La morte si scopriva dopo settimane, mesi di silenzio, incertezza, assenza. Con Javad era stato così.
Ero lì per lui. Negli ultimi anni ci eravamo persi, ma non sarebbe mai uscito dal mio cuore. Lui e tutta la nostra generazione violata, dilaniata da mezzo secolo di ideologie in lotta per il dominio sul mio Paese. La nobile Persia, lo sventurato Iran. In quel giorno senza respiro ero lì per Javad, da cui mi aveva separato la storia. E per Parì, Abbas, Alì e tutti gli altri. Per ricomporre gli anni di incomprensione e lontananza, cancellare le parole di odio e ritrovarne altre, quelle della nostra antica amicizia.
Mi unii al nutrito gruppo di donne e uomini. Arrivavano lenti come una migrazione, da ogni parte. Madri, mogli e sorelle che stringevano in mano un garofano o una rosa rossi. Erano diverse in tutto, ma avevano tutte lo sguardo fiero e senza lacrime. I morti come questi si piangono solo a casa.
Riconobbi, al centro, la donna che chiamavano la Madre, la portavoce del loro dolore. Si muoveva a fatica in mezzo alla folla. Sotto il foulard si intravedevano i capelli bianchi e radi. Settant’anni, forse. Suo figlio, un ingegnere che aveva studiato in America, era sepolto da qualche parte a Khavaran.
La Madre alzò lentamente il braccio e prese la parola. Il brusio cessò.
«Oggi siamo qui per ricordare. Lo sappiamo bene che il sangue non si lava con il sangue. Siamo donne, non guerriglieri. Mogli e madri e figlie e sorelle che hanno già visto fin troppa violenza. Uccidere gli assassini non riporta a casa le vittime...»
«Taci miscredente! Non erano vittime, ma traditori, zedd-e enghelab, e dovevano morire!»
La voce risuonò nell’aria tesa sopra le nostre teste. Cercai con gli occhi la donna che aveva parlato. Era avvolta da capo a piedi in un chador nero.
Vidi che eravamo circondati da donne e uomini del goruh-e feshar. Le forze che attaccavano e disperdevano le manifestazioni erano pronte a entrare in azione ancora una volta.
Ci stringemmo in cerca di protezione, spalla contro spalla, incerti sul da farsi. Mi tornarono in mente le parole di mia madre mentre uscivo di casa: «Shirin joon, cara, non andare, è pericoloso». Mi attraversò la mente il pensiero che forse, l’anno prossimo, sarebbe toccato a lei celebrare un rito funebre per sua figlia.
Come obbedendo a un tacito ordine, il goruh-e feshar estrasse catene e coltelli. Stavano per colpire. Intorno solo silenzio e l’odore compatto della nostra paura.
Si lanciarono all’attacco della cerchia più esterna. La folla sbandò. Le donne correvano in ogni direzione, schivando calci e pugni. I pochi uomini furono immediatamente raggiunti dai lebas-shakhsi, gli agenti in borghese. Colpivano alla schiena con manganelli e intanto ringhiavano: «Così finalmente la smetterete con queste adunate da traditori. I vostri figli non meritano nessuna cerimonia. Erano nemici di Allah e dell’Iran. Dovevate pensarci prima e trasmettere loro i giusti valori. È colpa vostra se sono morti!». E trascinavano via le loro vittime semisvenute, bagnando la sabbia con sottili rivoli di sangue. Quasi tutte le persone a terra avevano i capelli bianchi.
Una delle donne in chador, che lanciava pietre contro la Madre, riuscì a colpirla in fronte. Alla vista del sangue, come impazzita, proseguì più in fretta, una gragnola fitta di colpi, come se non le bastassero tutte le pietre del deserto. Alcune compagne la imitarono. La Madre restava immobile. I sassi fischiavano intorno al suo corpo diritto. «Vigliacche» mormorava, gli occhi fissi.
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Neppure io riuscivo a muovere un passo, come paralizzata da quella scena di una violenza irreale. Una donna mi strattonò scappando: non saprò mai se abbia voluto aiutarmi o solo scansarmi, in ogni caso mi risvegliò da quella sorta di ipnosi. Presi a correre anch’io, dietro quella sconosciuta. Vedevo confusamente volti di donne accasciate, sentivo il suono metallico delle catene, l’odore metallico del sangue. La Madre ora gridava: «Vigliacche!», ma era sempre più lontana.
Inciampai in una radice, caddi, mi rialzai. Finire travolta e calpestata era un attimo. O essere colpita, in quella mischia che confondeva amici e nemici. Il cuore mi era salito in gola, rimbombava nel cervello e copriva ogni pensiero. Correvo, con la gola secca e senza più fiato. Un uomo mi afferrò per il braccio e ciecamente mi voltai per sferrargli un calcio.
«Signora Ebadi, sono io.»
Era l’autista. Mi trascinò in macchina quasi di peso e partì a tutta velocità. Priva di forze, mi asciugai il sudore che mi pungeva gli occhi e cercai di calmarmi. Sentendo per la prima volta freddo, abbassai gli occhi e mi accorsi che nella fuga avevo perso una scarpa. Sollevai il piede su un ginocchio, la pianta era graffiata e perdeva sangue. Guardai cadere una goccia densa sul tappetino dell’auto, e solo allora avvertii il bruciore delle ferite.

1

Antiche amicizie

La prima cosa che ricordo è il profumo del tè, dall’alto della stufa che non arrivavo a toccare. L’acqua che bolliva nella panciuta teiera di metallo, poi le mani veloci di Simin che prendeva il bricco più piccolo dal mobile, al di sopra della mia testa.
«Shirin joon, spostati, che non mi cada qualcosa.»
Altre mani che mi allontanavano, mentre Simin apriva la scatola del tè. Solo le punte, la parte migliore della pianta. Pochi cucchiaini, e poi l’acqua bollente. Fissavo affascinata il fumo che si sprigionava, profumato. Simin poneva con attenzione il bricco piccolo su quello grande, ancora pieno d’acqua a metà. Sotto, il fuoco basso.
«Non deve bollire» mi spiegava Parì, didattica, ogni volta.
E le mani di Simin, la voce di Parì, il profumo del tè e il bianco macchiato dei muri della cucina si chiudono su di me a formare il nucleo caldo di un ricordo d’infanzia.
Sono cresciuta insieme a Parì e ai suoi fratelli. Le nostre madri erano grandi amiche, da quando avevano cinque o sei anni. All’epoca entrambe abitavano a Hamadan, una città nella zona nordoccidentale dell’Iran, che nell’antichità, con il nome di Ecbatana, era la capitale del Paese. Un’amicizia di bambine, nata sopra una manciata di dolcetti di mandorle, che però aveva attraversato indenne gli anni irruenti dell’infanzia, quelli inquieti dell’adolescenza, due matrimoni e due traslochi. Simin infatti si era sposata giovanissima con Hossein, un bazarì di Teheran, ma nemmeno allora avevano smesso di sentirsi. Sulle distanze le lettere viaggiavano con la regolarità di un diario intimo, fatto di confidenze, ricette e memorie. E quando mia madre, a sua volta sposata con figli, si era trasferita nella capitale nel 1948 l’amicizia tra due donne si era trasformata come spesso accade in uno stretto legame tra due famiglie.
Mio padre Mohammad Alì trovava molto rilassante la compagnia di Hossein, sempre pronto alla battuta e facile al sorriso. Rappresentavano due filosofie di vita contrapposte: mio padre era un uomo esigente e battagliero, giurista per vocazione, leale e serio di carattere, a volte fino a mostrare un rigore che alcuni scambiavano per freddezza ma era invece senso appassionato della giustizia. Aveva cresciuto noi quattro figli – un maschio e tre femmine – in assoluta parità perché riteneva che l’educazione all’uguaglianza e al rispetto del prossimo dovessero nascere innanzitutto in famiglia. Aveva grandi ideali che seguiva con coerenza e aveva inculcato a tutti noi, convinto che non ci si potesse esimere dalla partecipazione civile e politica alla vita del Paese. Qualunque fosse il prezzo.
Hossein, pur essendo un uomo retto e onesto, aveva un atteggiamento più conciliante. Aveva ereditato dal padre il negozio di tappeti situato nel cuore del bazar cittadino e lo gestiva con il fratello minore Nader. L’attività assicurava a entrambi di che vivere dignitosamente, senza arricchirsi. Se fossero stati un po’ più intraprendenti, avrebbero potuto imitare altri commercianti iraniani e lanciarsi nell’esportazione, in un momento favorevole in cui la richiesta di oggetti esotici dall’Europa e dall’America era molto forte. Ma Hossein amava godersi la vita e considerava il suo tempo libero sacro. Anche lui si sforzava di non fare differenza tra i figli, nell’educazione o nel modo di indirizzarli verso la vita adulta. Certo, sperava che i maschi avrebbero scelto di succedergli nella gestione del bazar, ed era sicuro che Parì si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei bambini. Ma cercava di educarli alla tolleranza. Aveva conosciuto troppe persone e sentito troppe storie per soffrire di quel male che è una mente ristretta. Stare in mezzo alla gente per lui era una vera e propria passione, che portava anche a casa. Andava orgoglioso della sua ospitalità e stringeva facilmente amicizia con persone di ogni tipo, che invitava poi alla propria tavola, felice di ascoltare nuovi racconti. Per lui era come viaggiare, respirare l’aria di Paesi lontani che non avrebbe mai visitato. Simin lo assecondava volentieri e cucinava sempre in abbondanza anche quando non aspettava ospiti, certa che il marito avrebbe scovato un commensale inatteso per fare onore ai suoi piatti.
Nonostante le differenze, mio padre e Hossein avevano stretto una quieta amicizia. Nelle lunghe serate a casa del bazarì, dopo mangiato amavano sedersi sui cuscini bassi ricamati sotto la finestra d’angolo. Le mogli stavano in cucina e a noi bambini era assolutamente proibito disturbare le discussioni, accese o filosofiche, dei padri. Parlavano di politica, di inflazione, di prezzi all’ingrosso e di diritto commerciale, di cui mio padre era esperto. Ma ora credo che si trattasse solo di una fase preparatoria, una sorta di riscaldamento per prolungare l’attesa, e così il piacere, del loro passatempo preferito: il backgammon. Dopo un po’ di chiacchiere, infatti, Hossein sfoderava puntualmente una bellissima scatola in legno lavorato per il gioco di takteh-nard. Suo padre l’aveva acquistata quando era un giovane mercante alle prime armi. All’esterno era disegnata una scacchiera, e all’interno erano intagliate nel legno le rientranze per appoggiare le pedine chiare e scure. Hossein spostava tra loro il basso tavolino che in genere stava addossato al muro e apriva con studiata lentezza la scatola facendo scattare il meccanismo al centro del coperchio. La custodia si apriva in due metà, dove si trovavano le pedine finemente intagliate, lucidate da Simin con la cera, scintillanti come gioielli contro il velluto. Il cerimoniale di apertura strappava a mio padre sempre la stessa esclamazione: «Oggetti così belli se ne vedono di rado!».
Solo a quel punto si immergevano in sequenze di partite interminabili. Per ore si sentiva echeggiare lo schiocco secco dei dadi, il rumore di legno su legno delle pedine spostate con destrezza. E i feroci sfottò con cui gli uomini cercavano di «demoralizzarsi».
«Se vuoi mentre ci pensi vado a fare un tè» diceva pronto mio padre appena la mano di Hossein indugiava per un secondo di troppo sulla pedina.
«È una scusa per ritirarti, dato che sai di non poter vincere?» ribatteva pronto Hossein.
Avrei ricordato, negli anni, quei battibecchi formali, così tipici del loro modo di giocare e della loro solida amicizia. E avrei pianto un tempo in cui quei duelli scherzosi erano gli unici «litigi» tra le mura di una casa felice.


Il matrimonio di Hossein e Simin fu presto benedetto dall’arrivo di un figlio maschio, Abbas. Fin da piccolo si dimostrò vigoroso e sano: alla nascita pesava più di quattro chili, scalciava per ore, piangeva due volte più forte degli altri bambini e, cosa insolita per un neonato, aveva una folta capigliatura scurissima. Crescendo non sarebbe cambiato: ai capelli sempre neri e folti si aggiunse poi una barba che lasciava sul viso olivastro un’ombra azzurrina, e che se non la radeva per pochi giorni diventava inestricabile. Era un ragazzo alto e robusto, perfino imponente, con un viso che, forse perché così scuro, sembrava sempre serio. Hossein guardava con orgoglio dal basso in alto quel primogenito per cui stravedeva. Abbas ricambiava la predilezione con altrettanto affetto, sforzandosi di assomigliargli ogni giorno di più. Da lui aveva ereditato l’onestà e l’amore profondo verso la famiglia, ma non la giovialità e la voglia di scherzare. Le poche volte in cui il viso si apriva nel suo sorriso quasi riluttante ricordo che sembrava un altro, i tratti squadrati del viso improvvisamente inteneriti.
Abbas non chiedeva che una schiera di fratelli e sorelle da proteggere e istruire, ma ci vollero sette anni di dolorosi aborti e inutili pellegrinaggi propiziatori, prima che arrivasse Parì, destinata a diventare una delle mie più care amiche. E poi, nel 1950, il secondo attesissimo maschio, Javad, a detta di mia madre il più bel bambino che avesse mai visto. Anche il più testardo aggiungeva Simin, che aveva dovuto portarlo in grembo per due settimane oltre il termine stabilito, perché Javad non dava segno di voler uscire. Quando finalmente si era deciso, si era fatto perdonare presentandosi con due guanciotte rosee e piene, senza nemmeno una grinza da neonato, e con un ciuffo di peluria sbarazzina proprio sulla fronte.
Indipendente e irrequieto fin dall’infanzia, Javad era consumato da una curiosità vorace, incapace di restare con gli altri bambini i cui giochi lo annoiavano presto. Già a quattro anni, quando Hossein si sedeva in poltrona per leggere il giornale, si appollaiava alle sue spalle e ascoltava il ritmo cantilenante del padre mentre sillabava. Capì prestissimo il meccanismo nascosto dietro il disegno sinuoso delle lettere e pochi anni dopo recitava all’orecchio del padre le parole ben prima che Hossein avesse il tempo di leggerle per intero.
Nella sua ansia di crescere, Javad disprezzava un po’ la compagnia dei coetanei e preferiva intrufolarsi tra gli adulti. A nulla servivano i richiami di Hossein per rimetterlo al suo posto soprattutto in presenza di ospiti; lui continuava a seguire i discorsi dei grandi e non esitava a fare domande quando non capiva. Simin lo sgridava e lo puniva, ma sotto sotto era orgogliosa di quel figlio intelligente e per di più bello, perché Javad, con la sua carnagione dorata, i grandi e intensi occhi da antico guerriero persiano e i ricci scomposti, era l’invidia di tutte le altre madri. La sua arma vincente, però, era il sorriso, che svelava denti bianchi e perfetti, illuminando come un lampo il viso sottile. Javad era consapevole del suo fascino e imparò presto a sfoderarlo con grazia per ottenere quello che voleva: dai genitori soprattutto, ma anche da Parì, da me e dalle mie sorelle, che lo consideravamo tutte il nostro beniamino.
Con la sua faccia tosta riuscì a insinuarsi persino nelle partite a backgammon del padre. Le prime volte si era accucciato silenzioso vicino al bordo del tavolino, per osservare con attenzione; poi aveva osato commentare le mosse dei giocatori con leggeri fischi che cercava subito di camuffare sotto colpi di tosse. Quando finalmente chiese a mio padre «l’onore di sfidarlo» lui, piuttosto divertito, accettò e nel giro di quattro minuti sbaragliò l’avversario, sentendosi un po’ colpevole di fronte al suo sguardo deluso. Javad non si arrese e presto lo pregò di dargli la rivincita; fu sconfitto ancora una volta, ma tornò alla carica alla prima occasione, finché anche per mio padre quella sfida «minore» a margine delle battaglie col vecchio amico Hossein divenne un’abitudine. Rinunciava solo alle schermaglie verbali, si sarebbe vergognato a provocare un ragazzino.
Una sera, Parì e io ci eravamo chiuse nella sua stanza a parlare di questioni fondamentali come la nuova moda arrivata da Parigi, quando fummo distolte da un grido in salotto. Accorremmo e trovammo Javad raggiante in piedi accanto al tavolino del backgammon. Un’occhiata alla disposizione delle pedine e al sorri...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La gabbia d'oro