INTRODUZIONE
Nel labirinto della produzione pseudonima kierkegaardiana Timore e Tremore costituisce il primo punto fermo per una corretta interpretazione di un’avventura letteraria che non ha riscontro in nessuna produzione del turbolento ed irrequieto Ottocento europeo, per l’intensità tematica e la densità ermeneutica. Mentre il monumentale Aut-Aut di Victor Eremita aveva percorso le due tappe polemiche dell’immanenza estetica ed etica con le Carte dei due sottopseudonimi A e B, Timore e Tremore1 di Johannes de Silentio con il contemporaneo La ripresa di Costantino Constantius intende mettere a fuoco l’orizzonte religioso ideale della situazione reale proposta e vissuta dall’autore che il pubblico dei lettori, ammaliato dallo scintillio stilistico di Aut-Aut, non aveva avvertito2: la priorità assoluta del rapporto a Dio e perciò il distacco dello stadio religioso come supremo vertice dell’esistenza e fondamento dell’etica.
La tematica di fondo è la giustificazione della rottura del fidanzamento con Regina Olsen (11 ottobre 1841) che aveva messo in subbuglio gli ambienti letterari di Copenaghen, rimasti ancor più perplessi dalle divagazioni estetico-etiche di Aut-Aut: il nodo della situazione era essenzialmente religioso, cioè quello dell’obbedienza ad un preciso ordine divino come prova suprema della fede che in Timore e Tremore ha per protagonista il patriarca Abramo il quale, in obbedienza a Dio, è disposto a sacrificare Isacco, il figlio della Promessa.
Così nella Ripresa la situazione si ripete: Giobbe, il giusto, è privato dei figli e di tutti i suoi beni e colpito anche nel suo corpo e languisce piagato su di un letamaio, contraddetto dagli amici che lo considerano oggetto della giustizia divina. Due testimonianze assolute di fede di segno opposto, Abramo mantiene il silenzio assoluto e Giobbe invece si sfoga in fiera polemica con i tre amici interlocutori.
L’ermeneutica di Timore e Tremore si profila su di uno sfondo ambiguo o più esattamente ambivalente nel rapporto antitetico di Kierkegaard al padre ed a Regina ch’egli considera i suoi maestri nella dialettica dell’esistenza3: il primo col suo cristianesimo cupo, dominato dal senso di colpa ch’egli dovette subire; il secondo represso con la sua atmosfera spensierata di gioia della vita ch’egli non poté accettare per non tradire la sua vocazione essenziale come di uno ch’era stato «segregato» da un «pungolo nella carne» come Paolo4. Uno scritto quindi doppiamente allusivo e capace di fornire la chiave dell’enigma dell’esistenza del suo autore che lo collocherà al vertice della sua attività di scrittore: «Dopo la mia morte si vedrà che basterà Timore e Tremore per rendere immortale un nome di scrittore. Sarà letto ed anche tradotto all’estero e s’inorriderà per il tremendo pathos che contiene. Ma quando esso è stato scritto, quando colui che era creduto l’autore se ne andava sotto l’incognito del bighellone ed aveva l’aria di un petulante, di motteggiatore e di leggero nessuno poté capirne la profonda serietà». Ma era un inganno, un trucco letterario: «Oh, gli stolti! Eppure mai un libro fu così serio!» nella sua dialettica esistenziale: «Se l’autore avesse avuto un’aria seria, l’orrore sarebbe stato minore. La reduplicazione5 — realizzata dallo pseudonimo — è il massimo dell’orrore». Perciò deplora con una lucida preveggenza: «Ma quando sarò morto si avrà di me un’idea fantastica, come di una figura tetra: allora il libro riuscirà tremendo» per la nuova rotta, quella decisiva, nel cammino dello spirito. E viene indicato il momento critico nel superamento irreversibile di direzione: «Una parola vera vi è già detta, là dove metto in risalto la differenza fra un poeta ed un eroe» — il poeta è lui, nascosto nello pseudonimo, e l’eroe è Abramo, chiamato «eroe della fede» e modello del cristianesimo straordinario. Di qui appare rivelatrice la cadenza autobiografica: «Vi è in me un lato poetico preponderante e la mistificazione è appunto nel fatto che Timore e Tremore riproduceva in fondo la mia vita6». Esso perciò dava la chiave ermeneutica sia della vita personale come di tutta l’attività letteraria, quasi un compendio profetico di quanto seguirà nel volteggiare del gioco dialettico degli pseudonimi nei sette anni seguenti che avranno il loro fulcro nel problema sul senso ultimo della vita, polarizzato nel problema: «Come si fa a diventare cristiani?», che sarà reso esplicito da Ioannes Climacus (Postilla conclusiva non scientifica del 1846) in forma problematica di distacco dalla sfera poetica con la denunzia del tradimento da parte della ragione spinoziana di Lessing ed Hegel e di conclusione mediante il «salto» della fede con Anti-Climacus (La malattia mortale, 1848; L’esercizio del Cristianesimo, 1850)7.
Mentre La ripresa tematizza in filigrana il rapporto a Regina mostrando l’impossibilità di ritornare sulla propria decisione, Timore e Tremore nasconde (nel rapporto al padre) il mistero tremendo del rapporto del credente all’Assoluto, come si rileva da un testo contemporaneo del Diario al quale rimanda lo stesso Kierkegaard nella conclusione del testo ora citato come alla chiave ermeneutica di tutta la sua attività di scrittore. Il testo — con il titolo Schizzo — capovolge, con evidente allusione del suo rapporto a Regina, la situazione di Abramo per far emergere il senso profondo del suo rapporto alla fanciulla abbandonata e sconvolta dall’inattesa decisione. Qui la situazione rasenta la tragedia di un conflitto irreparabile che solo la fantasia creatrice di Kierkegaard poteva immaginare: «Supponiamo... che Isacco avesse saputo che il padre lo portava con sé al monte Moria per sacrificarlo». Ebbene, se avessimo oggi un poeta, egli ci potrebbe esporre l’argomento dei colloqui fra padre e figlio lungo la strada. In un primo momento la scena patetica: «Anzitutto immagino che Abramo abbia concentrato nel suo sguardo tutto il suo amore di padre; il suo volto venerando ed il cuore straziato davano risalto alle sue parole; esortò il figlio a sopportare il destino con pazienza facendo capire con parole velate che anch’egli, come padre, ne soffriva ancor più». Ed ora la finzione poetica della trasposizione del racconto biblico alla sua situazione esistenziale nella tensione doppia, cioè del padre verso di lui e della sua verso Regina: «Davanti al suo insuccesso, Abramo dovette probabilmente scostarsi un momento e, quando tornò a guardarlo, per Isacco egli era irriconoscibile: l’occhio selvaggio, l’aspetto glaciale e la veneranda canizie drizzata come una furia sulla fronte. Egli afferrò Isacco per lo stomaco, tirò fuori il coltello e l’apostrofò: "Credi tu ch’io volessi compiere tutto questo per Iddio? Ti inganni. Io sono un idolatra: questo desiderio si è risvegliato in me, io voglio ammazzarti, io sono peggio di un cannibale. Non lusingarti, sciocchino di ragazzo, al pensiero che sono tuo padre; io sono e voglio essere il tuo assassino". Ed ora il nocciolo dell’allusione del dramma: «Ed Isacco s’inginocchiò gridando al cielo: "O Dio misericordioso, abbi pietà di me!" Ma allora ecco Abramo mormorare fra sé e sé: "Bisogna proprio che la cosa vada così; alla fin fine è meglio ch’egli mi creda un mostro, che mi maledica perché sono stato suo padre e preghi ancora Dio, piuttosto di sapere che è stato Dio a impormi la tentazione, altrimenti perderebbe la ragione e forse maledirebbe Iddio!"» — «Ma dov’è ai nostri tempi — si chiede Kierkegaard — il poeta capace di immaginare conflitti simili? E tuttavia la condotta di Abramo riuscirebbe di un’autentica poesia, di una magnanimità che sorpassa tutto ciò ch’io ho letto nelle tragedie».
Ed ora la chiave ermeneutica: «Colui che riuscirà a spiegare quest’enigma avrà spiegato anche la mia vita. Ma dove trovare tra i contemporanei chi possa comprendere un tale enigma?»
dp n="10" folio="10" ? A differenza del successo strepitoso di Aut-Aut, Timore e Tremore passò quasi inosservato: ma al tema di Abramo, come sigla del suo rapporto intimo religioso, Kierkegaard ritorna con insistenza in tre testi nel Diario della maturità al termine della propria attività letteraria e sul vertice della matura esperienza religiosa. Non sono più espressioni dello pseudonimo, ma variazioni esistenziali di trasfigurazione spirituale8 dell’evento biblico nella vita di Kierkegaard passate del tutto inosservate nella Kierkegaard-Forschung: appartengono tutte e tre allo stesso ciclo riflessivo e le riportiamo nella loro progressione.
A. «Timore e Tremore: Abramo e la decisione di sacrificare Isacco».
... Ed egli tagliò la legna, legò Isacco, e accese il rogo: trasse il coltello — e lo vibrò su Isacco!
Nello stesso istante Dio appare in forma corporea ad Abramo e gli dice: "Che fai, povero vecchio? Non pretendevo da te una cosa simile! Tu eri il mio amico, ed io volevo solo provare la tua fede. Anche all’ultimo momento ti ho gridato: ’Abramo, Abramo, férmati!’ ".
Allora Abramo rispose con una voce ch’era della debolezza solenne propria dell’adorazione, e al tempo stesso della debolezza accasciata, propria della pazzia: "Oh, Signore, questo non l’ho udito. Ma ora che me lo dici, anche a me sembra di aver sentito una voce di quel genere. Oh, ma quando sei Tu, o mio Dio, che lo ordini, Tu che ordini ad un padre di uccidere il suo proprio figlio: in quel momento ci si sente un po’ tesi: perciò non sentii la Tua voce. E se l’avessi sentita, come avrei osato credere che fosse la Tua? Quando Tu mi ordini di sacrificare mio figlio, e all’ultimo momento si sente una voce che dice: ’Férmati!’ dovetti credere evidentemente ch’era del tentatore che voleva trattenermi dall’adempiere la Tua volontà. Una delle due: o avrei dovuto pensare che quella voce che mi diceva di sacrificare Isacco fosse del tentatore; e allora non mi sarei messo in cammino. Ma siccome mi assicurai che quella era la Tua voce, allora dovetti concludere che l’altra era del tentatore".
Poi Abramo fece ritorno a casa, e il Signore gli diede un secondo Isacco. Ma Abramo, guardandolo, non si mostrava mai contento. Quando lo guardava, scuoteva la testa e diceva: "Non era questo quell’Isacco!".
Ma a Sara egli disse: "Fu però una cosa strana che sia stato Iddio a volere ch’io sacrificassi Isacco: questo era certo, eternamente certo, Dio stesso non lo può voler negare. E quando poi io lo feci per davvero ecco che era uno sbaglio da parte mia: non era più volontà di Dio...".
Ma non così con il padre della Fede, Abramo! Proprio in questo consiste l’ubbidienza, nell’ubbidire subito e incondizionatamente all’ultimo momento. Oh, quando si è andati tanto oltre col dire A, si è allora umanamente piuttosto disposti a dire anche B e a colpire. Più difficile che salire al Moria e sacrificare Isacco è quando già si è tirato fuori il coltello, poter allora e voler capire, in obbedienza assoluta, che ciò non si esige da me. Quando si tratta di decisioni simili, come quella di sacrificare il proprio figlio o di tenerselo, poter conservare ancora all’ultimo momento la stessa prontezza ubbidiente e, se oso dire, agile di un servitore che deve rassegnarsi — quando è quasi al termine — a tornare indietro e dunque ad aver fatto quasi invano la corsa. Oh, questo è grande. "Ma nessuno però fu grande come Abramo: chi può capirlo?"9».
B. «Timore e Tremore: la fiducia in Dio di Abramo».
... Abramo sacrificò l’ariete e tornò a casa con Isacco che gli era rimasto.
Ma, diceva Abramo a se stesso, io però con questa storia sono diventato per sempre eterogeneo dall’umanità. Se ti fosse piaciuto, o Signore, farmi nascere, pur restando uomo, in forma di cavallo, non sarei più eterogeneo dall’umanità, di quel che non sia diventato con questo fatto. La differenza di non aver in comune la figura esteriore non è poi così grande, come la differenza di non aver in comune i concetti e di averli, proprio sul punto più decisivo, infinitamente opposti. Con Sara non posso parlare, essa deve considerare questo viaggio al Moria come il più tremendo delitto contro di essa, contro il suo figlio amato e contro di Te, o Signore. Verrà certamente il tempo che la sua collera si calmerà, ed essa mi perdonerà. Ed allora dovrò ringraziarla per questo perdono amoroso. Così anche con Isacco: un giorno egli rifletterà a questa storia e mi odierà; ma poi verrà il momento che mi perdonerà, ed io lo ringrazierò. Oh, Signore, alla sofferenza del mio cuore, quando vinsi me stesso per sacrificare Isacco, a questo strazio si risponde col perdonarmi questo delitto amoroso. E se io (ciò che però non farei per non contaminare la mia relazione con Te iniziando altri) volessi dire a qualcuno che si trattava di una Tua prova o dipendeva dal fatto di avere un rapporto a Te, con questo mi sarei reso più eterogeneo dall’essere uomo che se fossi nato in forma di cavallo. Ma non così il Padre della Fede, Abramo! Perché abbandonarsi a simili pensieri significa avvicinarsi ai limiti della Fede, anche se uno pensasse che fosse per mantenersi dentro i limiti della Fede, per non valicare con le riflessioni i limiti della Fede. Oh, le riflessioni hanno solo l’effetto di far trasgredire i limiti. Ma Abramo, il Padre della Fede, rimase nella Fede lungi dai limiti, da quei confini dove la fede svanisce in riflessioni10».
C. «Nuovo Timore e Tremore: la misericordia di Dio con Abramo».
...E Abramo salì sul monte Moria con Isacco. Egli decise di parlare ad Isacco... — e riuscì a persuadere Isacco che era volontà di Dio, e così Isacco è disposto a lasciarsi sacrificare. Tagliò la legna, legò Isacco e accese il rogo... — baciò un’ultima volta Isacco. Non erano più come padre e figlio; no, ma come amico ed amico, ambedue figli ubbidienti al cospetto di Dio. Impugnò il coltello... e lo cacciò in Isacco.
Nello stesso momento Dio, in forma corporea, apparve a lato di Abramo e gli disse: "Vecchio, vecchio mio, che hai tu fatto? Non hai sentito le mie parole, non hai sentito quel ch’io gridavo? 'Abramo, Abramo, fermati’?".
Ma Abramo rispose con una voce che in parte aveva l’accento della sottomissione, e in parte quello della pazzia: "No, Signore, non l’ho sentita. Grande era il mio dolore, tu lo sai bene, perché tu sai dare la cosa migliore e la sai anche esigere. Però il mio dolore fu mitigato perché Isacco comprese e nella gioia di essere d’accordo con lui, non ho affatto sentito la tua voce. Fui io stesso, persuaso di fare l’ubbidienza, che cacciai il coltello nella vittima ubbidiente".
Allora Dio risuscitò Isacco. Ma, chiuso in un muto dolore, Abramo rimuginava fra sé e sé: "Però non era questo quell’Isacco!" E in un certo senso neppure lo era, perché per aver compreso ciò che Isacco comprese sul Monte Moria, di essere cioè stato scelto da Dio per vittima, era egli in un certo senso diventato un vecchio, vecchio come Abramo, non era del tutto quell’Isacco, e soltanto per l’eternità essi erano fatti veramente l’uno per l’altro.
Dio lo previde, ed ebbe misericordia di Abramo e fece, come sempre, andare tutto bene, infinitamente meglio che se non fosse successo quell’errore. C’è, diss’Egli ad Abramo, un’eternità; tra poco tu sarai eternamente congiunto a Isacco dove in eterno voi sarete fatti l’uno per l’altro. Se tu avessi sentito la mia voce, se ti fossi fermato: avresti allora avuto Isacco per questa vita — ma l’affare dell’eternità no...