La confessione
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La confessione

  1. 168 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La confessione

Informazioni su questo libro

Il breve romanzo La confessione è stato concepito da Soldati nel 1935, con uno sforzo progettuale che solo le carte preparatorie da poco venute alla luce rivelano nella sua complessità e tensione. Ripreso e pubblicato vent'anni più tardi, narra la vicenda del quattordicenne Clemente, adolescente ipersensibile, studente a Torino presso un collegio di gesuiti. Clemente pensa che anche lui un giorno sarà gesuita, ma le vacanze estive a Chiavari con madre e nonna incrinano questa certezza. Sollecitato dai suoi educatori alla santità, alla rinuncia al peccato - soprattutto a quel peccato per eccellenza che è il corpo della donna -, Clemente rifiuta l'istintiva attrazione per un'avvenente amica della madre, o per una procace sconosciuta incontrata in ascensore, per trovare infine in modo libero e inatteso una via al piacere.
Romanzo tra i più sottili e riusciti di Soldati, senza compiacimenti, nitido, spietato e partecipe, La confessione rivela le migliori doti narrative dell'autore torinese, quella felicità di scrittura, quel brio, quell'acutezza pungente nel cogliere e descrivere l'ambiguità dei sentimenti in un'età particolarmente "fluida" che pochi altri hanno saputo raccontare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804564072
eBook ISBN
9788852013461

Parte seconda

1

La nonna russava troppo forte e non lo lasciava dormire. Allora Clemente aprì gli occhi e provò, per un lungo tempo, a guardarla attraverso le zanzariere.
Nella camera bianca, alta, vasta, in una penombra affocata, appena rotta da una lista gialla di sole tra le imposte socchiuse, la nonna, sotto la sua zanzariera, era una piccola massa scura: il suo volto magro, incorniciato dai capelli grigi e sostenuto da cinque cuscini, si agitava nel sonno: dormiva con la bocca aperta verso l’alto, sembrava che soffocasse e cercasse l’aria. Ogni tanto, il rumore che faceva russando era così forte che doveva svegliare lei stessa: si ricomponeva, infatti, si riassestava sui cuscini, alzava alle labbra il rosario che stringeva, come sempre quando era a letto, tra le dita, baciava la medaglietta della Madonna di Pompei, cominciava a mormorare un’Ave Maria e prima di giungere all’Amen tornava a riaddormentarsi e a russare.
No, lo sentiva; forse per il russare della nonna, forse per altro, quel pomeriggio non avrebbe potuto dormire. Pensava alla spiaggia, come doveva essere in quelle ore del primo pomeriggio, nel colmo dell’estate; come se l’immaginava e come non l’aveva mai vista: assolutamente deserta, cabine, rotonda, mare; non un’anima viva, neanche i bagnini: soltanto Luisito, perché il pomeriggio non dormiva, lui, e aveva il permesso della mamma, dopo mangiato, di tornare subito alla spiaggia. Ma che cosa ci andava a fare da solo? Clemente glielo aveva chiesto.
«Oh, mi diverto» aveva risposto Luisito con la sua cadenza genovese e il suo accento spagnolo, anzi argentino: «mi diverto: prima di tutto qualche volta ci vengono dei pescatori: e poi mi diverto lo stesso più che a casa. Perché non ci vieni anche tu?»
Ecco, oggi, per la prima volta, pensò alla possibilità di accettare l’invito di Luisito. Piano piano scalzare la zanzariera, scivolare giù dal letto, prendere i sandali, uscire a piedi nudi senza svegliare la nonna, correre alla spiaggia!
Clemente amava svisceratamente la nonna. Una delle gioie più vive che, ogni anno, egli si riprometteva dalle vacanze era questa: al mare, nel villino o nell’appartamento d’affitto, dove il numero delle stanze non era di solito sufficiente perché ogni membro della famiglia avesse la sua, egli avrebbe, per antica consuetudine, dormito con la nonna.
D’accordo, il russare era fastidioso; ma Clemente vi aveva fatto abitudine, fino dagli anni precedenti: non propriamente piacevole, sembrava, tuttavia, conciliargli il sonno. Perché era la nonna che russava; e tutto quanto riguardava la nonna suscitava in Clemente, fin dalla prima infanzia, una sottile, misteriosa, tenerissima commozione.
La dolcezza, per esempio, di dire ogni sera le preghiere con lei. La dolcezza, ogni mattina, prestissimo, quando tutti gli altri ancora dormivano, di essere svegliato da lei, di vestirsi in fretta, e di andare con lei a sentire la Messa e a fare la Santa Comunione.
La sera, è vero, la nonna faceva con Clemente una prima preghiera molto breve, poi si accostava a lui, lo baciava attraverso la zanzariera, poi andava nell’angolo più lontano della stanza, s’inginocchiava sul pavimento di mattonelle, e continuava, per molto tempo, a pregare da sola.
Qualche volta, tardando ad addormentarsi, Clemente la guardava, affascinato. La nonna, vestita di un suo camicione bianco di tela ruvida, stretto al collo e ai polsi con un orlo di semplice merletto, alla vita il cordone di terziaria di san Francesco, pregava inginocchiata e rigida, con le ginocchia piegate ad angolo retto, senza alcun sostegno per il corpo; e ora, pregando, teneva le braccia allargate in forma di croce, per lunghissimo tempo, vincendo eroicamente, con la sua forza di volontà, che in famiglia era proverbiale, la stanchezza e la debolezza dell’età; ora, invece, si trascinava sui ginocchi fino al comodino, metteva gli occhiali, e avvicinandosi al lume, che aveva avuto cura di schermare con una pezzuola perché non offendesse direttamente il nipotino, leggeva fino a notte alta il suo libro di meditazioni.
Clemente a volte si addormentava e svegliandosi dopo qualche tempo si accorgeva che la nonna era ancora là, in ginocchio, il volto curvo sul libro. Ed ecco, a tratti, chiudeva il libro, lasciandoci l’indice per segnale tra una pagina e l’altra, e a palpebre abbassate sussurrava una giaculatoria, faceva l’esame di coscienza, diceva l’atto di contrizione. Clemente capiva che la nonna, pregando, era felice, e la amava, la ammirava, la invidiava: oh, avesse anch’egli potuto pregare come lei, con tutto il cuore e per così lungo tempo!
La mattina, invece, era svelto a vestirsi e a uscire con lei. A passi rapidi, nella cittadina ligure ancora deserta, ancora fresca della notte, per l’ampio viale azzurrato d’ombra e tagliato, alle successive traverse, dalle strisce gialle del sole basso, la vecchia e l’adolescente si affrettavano verso la cattedrale.
Generalmente la prima campanella della Messa li sorprendeva a mezzo cammino, squillando pulita e lieta in quell’aria leggera, e Clemente, che già studiava Dante e già mostrava tendenze letterarie, più volte, udendola, si ripeteva mentalmente i versi famosi:
E siccome orologio che ne chiami
nell’ora che la Sposa di Dio surge
a mattinar lo Sposo perché l’ami,
che l’una e l’altra corda tira ed urge
tin tin sonando con sì dolce nota…
Ma non lo diceva alla nonna; perché capiva che essa era veramente religiosa e, in quel momento, le sarebbe sembrata profana qualunque citazione, anche se di Dante e anche se appropriata.
«Raccogliamoci, raccogliamoci, Clemente» diceva essa quasi correndo verso la chiesa coi suoi piccoli passi, e tenendo stretti al petto col rosario la borsa e il libro delle preghiere. «Pensiamo che tra pochi minuti riceveremo il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo, che è morto sulla croce per noi. Preghiamo, preghiamo. Non distraiamoci.»
Sapeva infatti che, dopo la Messa, Clemente avrebbe avuto, cosa comprensibile data la sua età, grande appetito; e che quindi le preghiere di ringraziamento che devono seguire la Comunione non avrebbero potuto essere protratte per tutta la durata che nel suo fervore e nella sua umiltà essa credeva necessaria. Meglio dunque fare la Comunione, anziché a metà Messa, al principio. Così tutta la durata della Messa sarebbe servita alla preghiera di ringraziamento. Ma per fare la Comunione al principio bisognava prepararsi; e non c’era veramente il tempo di prepararsi convenientemente, a meno di cominciare a pregare per la strada.
«Clemente, è già tardi» diceva la nonna passando davanti alla stazione. «La prima campana è già suonata. Ripeti con me, ripeti: Domine non sum digna…»
«… dignus» diceva per conto suo Clemente, a mezza voce. E nonna e nipotino correvano al celeste convito mormorando sullo stesso ritmo la stessa preghiera, con la sola variazione della desinenza, come in un duetto dei Puritani.
In fondo al lungo viale dei platani, la cattedrale era tutta bianca, neoclassica, colonne di marmo bianco e una bella cupola verde pisello. Fresca e grigia nell’interno, vasta e vuota. I fedeli, a quell’ora, rarissimi: qualche donnetta e il professor Barilari, un uomo anziano, barbuto, che camminava curvo e come spezzato dalla propria devozione.
Clemente, spinto a ciò oltre che dalla propria devozione anche da un espresso desiderio della nonna, anelava a servire la Messa. E siccome anche il professor Barilari veniva in chiesa ogni mattina con la stessa intenzione, era stata, i primi giorni, una gara imbarazzante. Il vecchio bigotto e il magro adolescente entravano cauti, umili, supplici in sacrestia e attendevano in un angolo l’arrivo dell’arciprete.
L’arciprete era sulla sessantina, calvo, ben pasciuto, elegante, pulitissimo, soave. La soavità di monsignor Baldelli poteva essere del suo naso, che gli pendeva, dolcemente carnoso, sulle labbra, sottili e arricciolate agli angoli come in un perpetuo sorriso. Poteva essere delle gote, che si gonfiavano ogni tanto, e ogni volta prima di parlare. Ma non degli occhi, che forse nessuno aveva mai visto o, avendoli visti, ricordava. Le sue mani bianche e molli, su cui spiccava l’anello benedetto, uscivano da lunghi e stretti polsini inamidati. Parlava con accento fortemente genovese ma raffinato dall’erre moscia.
Con un breve cenno, o un sorriso appena più pronunciato verso Clemente o verso il professore, egli sceglieva chi dovesse, ogni mattina, servirgli Messa. Ma fu, fin dal principio, tacito privilegio del professore aiutare nella vestizione, anche quando non toccava a lui servir Messa. Curvo, quasi prono, il professore saliva sulla pedana, s’accostava al credenzone, porgeva l’amitto, il camice, il cordone, i paramenti, non senza, di volta in volta, sfiorare ciascun capo del vestiario con un bacio devoto.
Ora l’arciprete, indossato il camice, strettosi alla vita la corda benedetta, si appoggiava all’orlo del credenzone con la punta delle dita, e si raccoglieva in breve preghiera. Era vestito, pensava Clemente, preciso alla nonna di notte. Il Barilari attendeva da una parte, tutto compunto, con la stola tra le mani: pronto a gettarla attorno alla testa dell’arciprete appena costui, finita la preghiera, si voltasse di mezzo giro verso di lui e si inchinasse leggermente per riceverla.
Il Barilari poi, quando serviva Messa, aveva l’abitudine di urlare: le sue risposte, con voce di basso profondo, rintronavano grottescamente nella grande navata deserta. La prima parte del Confiteor era un crescendo che raggiungeva il fortissimo al Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa: allora il Barilari si batteva il petto tre volte con forza inaudita e, forse perché portava camicie col plastron, quei tre colpi risuonavano in tutta la chiesa come se fossero stati battuti su un tamburo.
La nonna non poteva soffrire il Barilari. Era un grossolano, un grossier, un paysan, diceva a Clemente nel suo francese provinciale e signorile. «E poi» aggiungeva, «disturba, non si può pregare. A me piace quando la Messa la servi tu… oh! se il Signore un giorno mi facesse quella grande grazia!»
«Ma, nonna!» rispondeva Clemente stupito. «La grazia è già fatta: io ho deciso.»
«Speriamo, speriamo. Dio volesse!» concludeva la nonna come scettica suo malgrado.
Perché la nonna era la sola persona al mondo, alla quale, oltre che al padre Genovesi e al padre Maselli, Clemente aveva confidato il suo segreto proposito di farsi gesuita. Ora, la prima volta che Clemente le aveva fatto la grande confidenza, la nonna aveva pianto di gioia. Non c’era nulla al mondo che ella desiderasse di più.
«Fatemi questa grazia, Signore» cominciò essa a ripetere da quel giorno, ogni sera e ogni mattina, a conclusione delle sue innumerevoli preghiere, «e poi fatemi morire perché morirei felice!»
Tuttavia, forse proprio perché vedere il suo Clemente vestito da gesuita rappresentava per lei il colmo della felicità, essa non osava sperarlo, non sapeva crederci troppo.
«Il mondo è brutto, mio caro Clemente. Sapessi com’è brutto! Fai bene a fuggirlo» diceva la nonna. «Ma il diavolo si nasconde da tutte le parti, e si trova dove meno te lo aspetti. Bisogna pregare! Pregare per vincere le tentazioni: altrimenti da solo non ne avresti la forza.»
Quando la nonna parlava così, piuttosto misteriosamente, di tentazioni, Clemente credeva che la nonna avesse capito quali fossero per lui le tentazioni, e vi alludesse con precisa intenzione. Proprio quell’estate, fino a pochi giorni prima, la grande tentazione per lui era stata Jeannette, la signorina Jeannette, l’amica più che trentenne di sua madre, ospite del villino per i bagni di mare fin dal principio di giugno.
Donna mondana, spregiudicata, spiritosa, elegantissima, non bella ma molto attraente, Jeannette aveva inoltre qualcosa, nel biondo dei capelli, nel marrone degli occhi e nel colore ambrato della pelle, che forse ricordava a Clemente la signora dell’ascensore.
Ora finalmente era partita, per andare in montagna, a Gressoney. Clemente credeva di aver scoperto, nella nonna, una segreta soddisfazione quando Jeannette era partita. La nonna, naturalmente, era una grande dama ed era, perciò, sempre stata gentilissima con Jeannette. Ma a Clemente non era sfuggita, in questi modi fin troppo gentili, una affettazione, una esagerazione quasi ironica: come se la nonna volesse ricordare insistentemente all’avvenente elegante matura signorina la sua posizione di ospite, e staccarla così con nettezza dall’intimità della famiglia.
Forse la nonna era anche gelosa delle attenzioni, delle confidenze, dell’affettuosissima amicizia che pareva unire all’ospite la figlia, la mamma di Clemente. Comunque, la prima volta che la famiglia si era radunata a tavola dopo la partenza di Jeannette, la nonna, riprendendo il suo posto abituale tra la figlia e Clemente, che aveva dovuto cedere per due mesi, non si era trattenuta dal tirare un gran sospiro.
«À la bonne heure!» aveva detto in francese per non farsi capire dalla cameriera che serviva la minestra. E non aveva detto altro. Ma tutti avevano capito. E la mamma si era rabbuiata, e aveva detto:
«Maman, je t’en supplie!»
Dopo, per qualche minuto, si era mangiato in silenzio.
Jeannette sarebbe forse stata per Clemente una tentazione anche più forte della signora dell’ascensore. E se tre mesi prima, in quella famosa confessione, egli non si fosse imposto di credere di aver commesso un peccato mortale di desiderio, avrebbe certamente commesso adesso il medesimo peccato.
Per tutto giugno e tutto luglio, aveva visto Jeannette moltissime volte al giorno, e qualche volta, a tavola, alla spiaggia, dopo pranzo in salotto, aveva anche avuto modo di contemplarla per lungo tempo. Essa aveva una maniera di ridere, denti bianchi, forti e sani, labbra carnose e cariche di rossetto, che rimescolava il sangue. Aveva i polsi sempre carichi di braccialetti tintinnanti. E alle dita anelli sempre diversi. Le sue mani erano piccole, grassottelle, e tuttavia le dita affusolate. Le unghie avevano una particolarità unica, una stranezza affascinante, che Clemente non aveva mai osservato in nessun’altra creatura umana: delle brevi lenticchie ovali e bianche,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Stefano Ghidinelli
  4. Cronologia di Bruno Falcetto
  5. Bibliografia critica essenziale di Bruno Falcetto
  6. Nota al testo di Stefano Ghidinelli
  7. La confessione
  8. Parte prima
  9. Parte seconda
  10. Parte terza
  11. Copyright