Il giorno dei Trifidi
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Il giorno dei Trifidi

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il giorno dei Trifidi

Informazioni su questo libro

Il primo segnale è una straordinaria pioggia di meteoriti verdi che scende su Londra illuminandone il cielo notturno e toglie la vista a chiunque vi assista. Poi, l'invasione: quei corpi celesti contenevano infatti i semi di piante mostruose che crescono a una velocità mai vista, si spostano e inghiottono qualunque essere vivente, umani compresi. Solo una piccola colonia sull'isola di Wight è ancora immune, ma la civiltà, impazzita di terrore, per sopravvivere si è riassestata su spietate basi feudali... Ospitato a puntate sulla rivista americana «Colier's» nel 1951, Il giorno dei trifidi è stato un immediato successo, la prima affermazione di massa della fantascienza al di fuori del ristretto ambiente degli appassionati, dopo gli ormai lontani trionfi di H.G. Wells. Da un giorno all'altro, i silenziosi e letali trifidi si sono conquistati un posto - e un posto di tutto rispetto - nell'ampia galleria di creature mostruose che l'uomo è andato nei secoli evocando per dare corpo ai più nascosti fantasmi della propria immaginazione.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804640547
eBook ISBN
9788852052958

1

Comincia la fine

Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì vi sembra, fin dall’inizio, domenica, potete stare certi che qualcosa non va. Ebbi subito questa impressione, svegliandomi.
Tuttavia, quando cominciai a connettere con maggiore lucidità, rimasi in forse. Dopotutto, sebbene avessi la sensazione nettissima d’essermi svegliato più tardi del solito, poteva anche essere vero il contrario.
Continuai ad aspettare, dubbioso, ma ebbi subito una prima prova obiettiva: un orologio lontano batté, così mi parve, otto colpi. Ascoltai con le orecchie tese, pieno di sospetto. Ed ecco che un altro orologio cominciò a farsi sentire in un tono alto, risoluto. E con calma batté, senza ombra di dubbio, le otto. Allora capii che le cose non andavano come dovevano.
Se non fui travolto subito anch’io dalla fine del mondo – il mondo quale l’avevamo inteso fino a quel momento –, fu per caso; come per un destino di sopravvivenza, a pensarci bene. È nel corso naturale delle cose che un buon numero di individui si trovi ricoverato in ospedale, e per la legge dell’equa distribuzione da circa una settimana facevo parte di questo numero. Con la stessa facilità avrebbe potuto trattarsi della settimana precedente, nel qual caso ora non starei scrivendo; anzi, non sarei affatto qui. Ma il destino volle non solo che mi trovassi all’ospedale proprio in quel momento, ma che avessi gli occhi, anzi, per essere precisi, tutta la testa bendata; ed ecco perché devo essere grato a quel qualcuno, chiunque sia, che regola l’equa distribuzione dei malanni. Allora, a dire il vero, ero soltanto irritato, e mi chiedevo che cosa diavolo stesse succedendo: ero lì da tempo sufficiente per sapere che in un ospedale la cosa più sacra, beninteso dopo la capoinfermiera, è l’orologio.
Senza orologio quel posto non poteva funzionare, e fino ad allora l’orologio aveva sempre decretato che ogni mattina, esattamente tre minuti prima delle sette, qualcuno venisse nella mia stanza per lavarmi e mettermi in ordine, in attesa della colazione. Ma quel giorno, orologi di varie attendibilità avevano battuto le otto da tutte le direzioni, e nessuno si era ancora fatto vedere.
Probabilmente questo mi avrebbe infastidito in qualsiasi mattina, ma quel mercoledì, 8 maggio, era un giorno di eccezionale importanza per me. Aspettavo con particolare impazienza che tutto il piccolo traffico mattutino fosse terminato, perché quello era il giorno in cui dovevano togliermi le bende.
Brancolai un poco per afferrare il campanello e suonai vigorosamente per cinque secondi buoni, tanto perché si sapesse che cosa pensavo di tutti loro.
Aspettando la brusca reazione che quel fracasso avrebbe dovuto provocare, continuavo a tendere l’orecchio.
Mi accorsi allora che fuori c’era nell’aria qualcosa di ancora più strano di quanto avessi immaginato. I rumori che si udivano, e quelli che non si udivano, davano il senso della domenica più di una domenica vera e propria, e io avevo raggiunto la certezza assoluta che era mercoledì, qualsiasi cosa stesse succedendo.
Non sono mai riuscito a capire per quale ragione i fondatori del St Merryn’s Hospital avessero fatto erigere il loro pio istituto all’incrocio di due grandi strade, al centro di un attivo quartiere di uffici, esponendo così i nervi dei pazienti a un logorio continuo. Ma ai fortunati i cui malanni non fossero tali da renderli particolarmente sensibili al frastuono del traffico, quell’ubicazione offriva il vantaggio di starsene a letto senza essere, per così dire, tagliati fuori dal grande flusso della vita. Di solito gli autobus diretti al West End passavano rombando, nel tentativo di bruciare il semaforo sul giallo, ma spesso uno stridore di freni e una salva di colpi dello scappamento annunciavano che non c’erano riusciti. Poi si udiva il frastuono dei veicoli che si rimettevano in moto. E ogni tanto c’era un interludio: un fragore improvviso e poi un arresto generale, una tortura autentica per chi si trovasse nelle mie condizioni, costretto a giudicare l’entità degli incidenti dal tipo di imprecazioni che provocavano.
Ma quella mattina tutto era diverso dal solito. Diverso in modo sconcertante perché misterioso. Non c’era rumore di ruote, o rombo di autobus; in realtà non si riusciva a udire il rumore di un solo veicolo. Né freni né clacson, neppure il trotto dei rari cavalli che talvolta passavano ancora di là. Né il confuso trapestio di gente diretta al lavoro.
Ascoltai attentamente per un tempo che calcolai di dieci minuti: udii soltanto rari passi strascicati, esitanti, voci lontane che urlavano qualcosa d’incomprensibile, e una volta i singhiozzi isterici di una donna. Non si udiva il tubare dei piccioni, né il cinguettio dei passeri. Niente, tranne il fremito dei fili della rete elettrica nel vento... Un tormentoso senso di vuoto cominciò a insinuarsi in me. Era lo stesso sentimento provato a volte da bambino, quando mi sembrava che mostri orribili stessero in agguato negli angoli più in ombra della mia cameretta. Cercai di combattere contro quella sensazione, proprio come facevo da piccolo. E non fu facile.
Quando riuscii a ricompormi un poco, tentai di ragionare. Perché il traffico subisce un arresto? Di solito perché in quel punto il transito è interrotto per riparazioni. Semplicissimo. Ora per tutta la giornata si sarebbero fatte sentire le perforatrici pneumatiche: una novità, per le povere orecchie dei pazienti. Ma il fatto era che, continuando a ragionare, si andava oltre. Constatai infatti che non era possibile udire neppure il più lontano ronzio di veicoli, non il fischio di un treno, non l’urlo di un rimorchiatore. Nulla assolutamente, finché gli orologi cominciarono a battere in coro le otto e un quarto.
La tentazione di dare una sbirciatina, non più di una sbirciatina naturalmente, tanto da avere un’idea di che diavolo stesse succedendo, era immensa. Ma la repressi. Anzitutto, una sbirciatina era una faccenda assai meno semplice di quanto potesse sembrare. Non si trattava di sollevare una benda sola dai miei occhi coperti: c’era una gran quantità di bende, garze e ovatta. Ma soprattutto c’era il fatto che avevo paura di fare il tentativo. Una settimana e più di completa cecità è sufficiente a suscitare in te una certa prudenza, per quanto riguarda i tuoi occhi. Era vero che avrebbero dovuto togliermi le bende proprio quel giorno, ma per questo era necessario creare nella stanza una luce speciale, attenuata, e solo nel caso che la vista ai miei occhi fosse risultata del tutto soddisfacente, non me le avrebbero più rimesse. Non sapevo come sarebbe andata...
Imprecai a mezza voce e afferrai di nuovo il campanello. Ma nessuno dava retta ai campanelli, evidentemente. La mia pazienza stava per esaurirsi. Decisi che bisognava fare qualcosa.
Se mi fossi messo a urlare affacciandomi al corridoio, o avessi fatto baccano in qualche altro modo, qualcuno sarebbe pur comparso, non foss’altro per dirmi che cosa pensava di me. Buttai indietro le lenzuola e saltai fuori dal letto. Non avevo mai visto la camera in cui mi trovavo, e benché mi fossi fatto attraverso l’udito un’idea quasi esatta della posizione della porta, non fu tanto facile trovarla. Pareva che ci fossero molti ostacoli assurdi e sconcertanti da superare per raggiungerla, ma a prezzo di una contusione all’alluce e di un colpo meno forte allo stinco ci riuscii.
Sporsi la testa.
«Ehi!» gridai. «Voglio la colazione. Camera quarantotto!»
Per un momento non accadde niente. Poi distinsi voci che urlavano tutte insieme. Parevano un centinaio, e non si riusciva ad afferrare con chiarezza una sola parola. Era come se avessi messo un disco che riproducesse il rumoreggiare di una folla, e di una folla mal disposta a lasciarsi intervistare. Mi prese improvvisamente il dubbio pazzesco che, durante il sonno, qualcuno mi avesse trasportato in un manicomio, e che quello non fosse affatto il St Merryn’s Hospital. Quelle voci non erano normali. Chiusi la porta in gran fretta e tornai barcollando al mio letto, che mi sembrava in quel momento la sola cosa sicura e confortante nel mondo incomprensibile che mi circondava. Come a sottolineare quest’impressione, udii un suono che mi fermò nell’atto di tirare su le lenzuola. Dalla strada sottostante salì un grido, selvaggio e colmo di terrore contagioso. Echeggiò tre volte e, quando svanì, sembrò che l’aria ne fosse ancora trafitta.
Rabbrividii. Sentii il sudore imperlarmi la fronte sotto le bende. Ebbi allora la certezza che stava succedendo qualcosa di spaventoso. Non potevo sopportare più a lungo il mio isolamento, il mio stato d’impotenza. Dovevo sapere. Alzai le mani alle bende, poi, con le dita già sulle spille di sicurezza, mi bloccai... Mi mancava il coraggio di essere lì solo a scoprire che non mi avevano salvato la vista. E quando anche la mia vista fosse stata salva, non sarebbe stato pericoloso tenere gli occhi scoperti?
Abbassai le mani e mi appoggiai ai guanciali. Ero furibondo contro me stesso, contro quel posto, e imprecai debolmente, stupidamente.
Dovette passare qualche tempo prima che riuscissi a considerare di nuovo la cosa dal lato giusto, ma dopo poco mi ritrovai ad arrovellarmi in cerca di una possibile spiegazione. Non ne trovai alcuna, ma mi convinsi una volta per tutte che quel giorno era proprio mercoledì, perché il giorno precedente era stato un giorno notevole, e sapevo che non era passata da allora più di una notte.
Negli annali troverete che martedì, 7 maggio, l’orbita della Terra passò attraverso una nube formata da frammenti di cometa. Potete anche crederlo, se vi piace; milioni di persone vi credettero. Forse fu veramente così. Io non posso testimoniare a favore o a sfavore. Non ero in grado di vedere quanto accadde; ma certo ho le mie idee in proposito. Tutto quello che in realtà so dell’evento è che io dovetti passare la serata a letto ad ascoltare il resoconto di quello che, a detta di quanti ci vedevano, era il più grandioso spettacolo celeste cui si fosse mai assistito.
Eppure, finché la cosa non ebbe effettivamente inizio, nessuno aveva mai sentito parlare di quella cosiddetta cometa o dei suoi frammenti...
Perché poi si mettessero a fare trasmissioni radiofoniche sull’avvenimento, considerato che chiunque fosse in grado di camminare, di trascinarsi in qualche modo o di farsi trasportare, era per la strada o a una finestra a godersi il più grande e vario spettacolo di fuochi d’artificio mai visto, non lo so. Comunque, la trasmissione ci fu e contribuì a farmi capire in misura più profonda e dolorosa che cosa significhi essere privati della vista.
Nel notiziario di quel giorno si riferì che nel cielo della California, la notte precedente, erano apparsi misteriosi lampi di un verde vivido. Accadono però talmente tante cose in California, che nessuno se ne diede pensiero, ma quando furono trasmessi ulteriori notiziari, l’idea dei frammenti di una cometa cominciò a farsi strada e si affermò.
Da tutti i paesi sul Pacifico giunsero descrizioni di una notte illuminata da meteore verdi che, così si diceva, «piovono talvolta in nembi tanto fitti, che il cielo sembra ruotare intorno a noi». Il cerchio della notte mosse verso occidente, ma il fulgore di quelle luci non si attenuò affatto. Qua e là qualche lampo attraversò il cielo prima ancora che fosse caduta l’oscurità. L’annunciatore, dando un resoconto del fenomeno con il notiziario delle sei, avvertì che si trattava di una scena eccezionale che nessuno avrebbe dovuto perdere. Disse inoltre che sembrava interferire con la ricezione delle onde corte a grande distanza, ma che le onde medie con cui sarebbe stato trasmesso un servizio speciale non erano affatto disturbate, come al momento non lo era la televisione.
Avrebbe potuto risparmiarsi la pena di dare quell’avvertimento. Per quanto riguarda l’ospedale, tutti caddero in preda alla più grande agitazione e mi parve che non esistesse la benché minima possibilità che qualcuno perdesse lo spettacolo, eccettuato me.
E, come se i commenti della radio non bastassero, l’infermiera che mi portò la cena volle raccontarmi tutto.
«Il cielo è tutto pieno di stelle cadenti» disse. «Tutte color verde vivo. Fanno sembrare le facce della gente spaventosamente pallide. Sono tutti fuori a guardarle, e in certi momenti è chiaro come in pieno giorno, ogni cosa ha però un colore curioso. Ogni tanto ce n’è una grande, così luminosa che a guardarla fa male agli occhi. È uno spettacolo meraviglioso. Dicono che non si sia mai visto niente di simile. È proprio un peccato che lei non possa vedere, no?»
«Certo» risposi un po’ seccato.
«Nelle corsie abbiamo aperto le tende, in modo che tutti possano vedere» continuò lei. «Se solo non avesse queste bende, da qui potrebbe godersi una vista magnifica.»
«Davvero?» dissi.
«Ma fuori dev’essere ancora meglio. Dicono che centinaia di migliaia di persone siano fuori nei parchi o lungo il Tamigi a godersi lo spettacolo. E su tutti i tetti a terrazza si vede gente che osserva.»
«Quanto pensano che durerà?» chiesi pazientemente.
«Non so, ma dicono che ci sia meno luce, ora, di quanta ce ne fosse prima. Anche se le avessero tolto le bende oggi, non credo che le avrebbero permesso di guardare. Deve essere molto cauto, in principio. Qualche lampo è più luminoso... È... Ooooooooh!»
«Che succede?» chiesi.
«Ce n’è stato uno così vivido da far sembrare verde tutta la stanza. Peccato che non abbia potuto vederlo.»
«Già» dissi. «E ora vada, da brava.»
Provai ad ascoltare la radio, ma emetteva gli stessi oooh e aaah, prodotti da voci mielate, che andavano cianciando di «magnifico spettacolo» e «fenomeno unico», finché cominciai ad avere l’impressione che si stesse svolgendo una gran festa a cui tutti fossero invitati tranne me. Non potevo scegliermi un altro genere di passatempo perché la radio dell’ospedale prendeva un solo programma: o sentire quello o rinunciare. Dopo un po’ compresi che lo spettacolo stava per finire. L’annunciatore consigliò chiunque non l’avesse visto ancora di affrettarsi, se non voleva rimpiangere per tutto il resto della vita di averlo perduto. Alla fine mi seccai e spensi la radio. L’ultima cosa che udii fu che l’ineguagliabile spettacolo andava rapidamente perdendo smalto e che, probabilmente, in poche ore ci saremmo trovati fuori dell’area dei frammenti di cometa.
Non potevo avere dubbi che tutto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il giorno dei Trifidi
  3. 1. Comincia la fine
  4. 2. La comparsa dei trifidi
  5. 3. La città cieca
  6. 4. L’altra minaccia
  7. 5. Una luce nella notte
  8. 6. Incontri
  9. 7. La conferenza
  10. 8. Fallimento
  11. 9. Partenza
  12. 10. Tynsham
  13. 11. La marcia continua
  14. 12. Vicolo cieco
  15. 13. Verso la speranza
  16. 14. Shirning
  17. 15. Il mondo si restringe
  18. 16. Contatto
  19. 17. Ritirata strategica
  20. Copyright