Resurrezione
  1. 656 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Basato su un episodio realmente accaduto al procuratore Koni, amico di Tolstòj, Resurrezione narra la vicenda del giovane aristocratico Nehjiudov che, giurato a un processo, si trova di fronte la donna che lui ha sedotto, provocandone la caduta e spingendola sulla via del crimine. Divorato dal rimorso, abbandona la propria vita agiata per seguirla durante la deportazione, dona le terre ai contadini e le propone di sposarla ma, respinto, si rifugia nel Vangelo. Pubblicato a partire dal 1898 ma a lungo meditato, Resurrezione è il romanzo della crisi spirituale di Tolstòj che, ormai settantenne, arriva a rinnegare gli scritti precedenti e legittima la letteratura solo se suscita sentimenti di fratellanza e amore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804556404
eBook ISBN
9788852044762

PARTE PRIMA

I
Per quanto cercassero gli uomini, raccoltisi in un piccolo spazio a centinaia di migliaia, di deturpare quella terra sulla quale si stringevano, per quanto lastricassero di pietre la terra per non farvi crescere nulla, per quanto strappassero ogni filo d’erba che spuntava, per quanto affumicassero l’aria col carbon fossile e col petrolio, per quanto mutilassero gli alberi e cacciassero via tutti gli animali e gli uccelli, la primavera era primavera, perfino in città. Il sole scaldava, l’erba, tornando in vita, cresceva e inverdiva dovunque non fosse stata estirpata, non solo nelle aiole dei viali, ma anche tra i lastroni di pietra, e le betulle, i pioppi, i padi dilatavano le loro foglie viscose e profumate, i tigli gonfiavano le gemme che già scoppiavano; cornacchie, passerotti e piccioni, sentendo la primavera, già preparavano festosamente i nidi, e le mosche, scaldate dal sole, ronzavano presso i muri. Erano allegri e i vegetali, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini. Ma gli uomini – quelli grandi, gli adulti – non la smettevano di ingannare se stessi e gli altri. Gli uomini consideravano che sacro e importante fosse, non quel mattino di primavera, non quella bellezza del mondo di Dio, donata per il bene di tutte le creature – bellezza disposta per la pace, l’accordo e l’amore – ma che sacro e importante fosse quel che loro stessi avevano escogitato per dominare gli uni sugli altri.
Così, nell’ufficio del carcere governatoriale era considerato sacro e importante non che tutti gli esseri viventi e gli uomini avessero avuto in dono la gioia e l’intenerimento della primavera, ma sacro e importante si considerava che il giorno prima fosse stato ricevuto un foglio numerato, con timbro e intestazione, affinché per le nove del mattino di quel giorno, ventotto aprile, venissero tradotti in tribunale tre detenuti sotto inchiesta, due donne e un uomo, che si trovavano nel carcere. Una di queste donne, quale imputata principale, doveva essere tradotta separatamente. Ed ecco, in base a quest’ordine, il ventotto aprile, alle otto di mattina, nel buio e fetido corridoio del reparto femminile entrò il capocarceriere. Dietro di lui nel corridoio entrò una donna dal viso tormentato e dai ricciuti capelli grigi, con indosso una blusa dalle maniche gallonate e cinta da una fusciacca bordata d’azzurro. Era una sorvegliante.
«Volete la Màslova?» chiese, avvicinandosi con il secondino di turno alla porta di una delle celle che davano sul corridoio.
Il secondino, sferragliando, aprì il lucchetto e, spalancando la porta della cella, dalla quale esalò un’aria ancora più fetida, gridò:
«Màslova, in tribunale!» e riaccostò la porta, in attesa.
Perfino nel cortile del carcere l’aria era quella fresca e vivificante dei campi, portata in città dal vento. Ma nel corridoio l’aria opprimente, mefitica, impregnata dall’odore di escrementi, catrame e marciume, sconfortava e rattristava subito chiunque vi fosse appena giunto. E questo fu quel che provò, malgrado l’abitudine all’aria cattiva, la sorvegliante arrivata dal cortile. Entrando nel corridoio, aveva avvertito subito una gran stanchezza e voglia di dormire.
Nella cella si sentiva un tramestio: voci femminili e passi di piedi scalzi.
«Presto, dai, Màslova, spicciati, ti dico!» gridò il capocarceriere alla porta della cella.
Dopo un paio di minuti una giovane donna non alta, dal seno assai pieno, con un halàt grigio infilato sopra una camicetta bianca e una gonna bianca, uscì con passo svelto dalla porta, si voltò rapidamente e si fermò accanto al secondino. Ai piedi aveva delle calze di filo, e sopra le calze delle pantofole da carcerata; la testa era avvolta da un fazzoletto bianco, da cui sfuggivano, chiaramente ad arte, dei boccoli di ricciuti capelli neri. Tutto il viso della donna aveva quel particolare biancore che c’è sui visi delle persone che hanno trascorso molto tempo al chiuso, e che ricorda i germogli delle patate in cantina. Tali erano anche le sue piccole mani larghe e il collo bianco e sodo che si scorgeva sotto il grande colletto del halàt. In quel viso, soprattutto sull’opaco pallore del viso, colpivano gli occhi nerissimi, splendenti, un po’ gonfi, ma molto vivaci, uno dei quali era un po’ strabico. Si teneva molto diritta, facendo sporgere il grosso seno. Uscendo nel corridoio, rovesciata un po’ indietro la testa, guardò il secondino dritto negli occhi e si fermò, pronta a fare tutto quel che le venisse chiesto. Il secondino stava già per richiudere la porta quando da quella si sporse il viso pallido, severo e rugoso di una vecchia col canuto capo scoperto. La vecchia prese a dire qualcosa alla Màslova. Ma il secondino premette la porta sulla testa della vecchia e la testa sparì. Nella cella si sentì una risata femminile. Anche la Màslova sorrise e si volse verso lo spioncino inferriato della porta. La vecchia, dall’altra parte, si accostò allo spioncino e disse con voce roca:
«Soprattutto non parlare troppo, dinne una e basta.»
«Foss’anche una sola, peggio di così non potrebbe andare» disse la Màslova scuotendo la testa.
«Si sa, una, e due no» disse il capocarceriere con autorevole sicurezza della propria arguzia. «Seguimi, marsc’!»
L’occhio della vecchia sparì dallo spioncino e la Màslova si portò al centro del corridoio per avviarsi a piccoli passi rapidi dietro al capocarceriere. Scesero una scala di pietra, passarono accanto alle celle degli uomini, ancora più fetide e rumorose di quelle delle donne, con occhi che dalle fòrtočki delle porte li seguirono dovunque, ed entrarono nell’ufficio, dove già si trovavano i due soldati della scorta con i fucili. Lo scrivano, là seduto, diede a uno dei soldati un foglio impregnato di fumo di tabacco e, indicando la detenuta, gli disse: «Prendila in consegna». Il soldato, un contadino di Nižnij Nòvgorod2 dalla faccia rossa e scavata dal vaiolo, ripose il foglio nel risvolto della manica del pastrano e, sorridendo, ammiccò al compagno, un ciuvascio dagli zigomi sporgenti, indicando la detenuta. I soldati e la detenuta scesero le scale e si avviarono verso l’uscita principale.
Nel portone dell’uscita principale si aprì un cancellino e, oltrepassata la soglia del cancellino, i soldati e la detenuta si trovarono fuori dal perimetro carcerario e si avviarono per la città camminando al centro delle strade lastricate.
Cocchieri, bottegai, cuoche, operai, impiegati si fermavano e osservavano con curiosità la detenuta; alcuni scuotevano la testa e pensavano: “Ecco a cosa porta la cattiva condotta ben diversa dalla nostra!”. I bambini guardavano con terrore la delinquente, tranquillizzandosi solo perché era seguita dai soldati e lei ora non poteva più far niente. Un contadino venuto di fuori, che aveva venduto il carbone e bevuto il tè in un’osteria, le si avvicinò, si fece il segno della croce e le diede un copeco. La detenuta arrossì, abbassò la testa e mormorò qualcosa.
Sentendo quegli sguardi puntati su di lei, la detenuta, in modo impercettibile, senza voltare la testa, sbirciava con la coda dell’occhio quelli che la guardavano, e l’attenzione che le veniva rivolta la rallegrava. La rallegrava anche l’aria primaverile pura, rispetto a quella del carcere, ma le faceva male procedere sulle pietre con i piedi disavvezzi al cammino e calzati delle rozze pantofole carcerarie, e lei guardava dove li metteva e si sforzava di avanzare il più leggermente possibile. Passando accanto a una panetteria, davanti alla quale dei piccioni passeggiavano dondolandosi indisturbati, la detenuta per poco non ne urtò uno grigio con il piede; il piccione spiccò il volo e, sbattendo le ali, le svolazzò proprio accanto all’orecchio, facendole vento. La detenuta sorrise e poi fece un profondo sospiro, ricordandosi della propria situazione.
II
La storia della detenuta Màslova era una storia molto comune. La Màslova era figlia di una domestica non sposata che era vissuta con la madre, vaccaia, in campagna, presso due sorelle, due signorine proprietarie terriere. Questa donna non sposata partoriva ogni anno e, come di solito avviene in campagna, il bambino lo battezzavano e poi la madre non nutriva quell’essere indesiderato, inutile e di ostacolo al lavoro, e quello ben presto moriva di fame.
Così le erano morti cinque bambini. Erano stati tutti battezzati, poi non gli davano da mangiare, e loro morivano. Il sesto, concepito da uno zingaro di passaggio, era una bambina e avrebbe avuto la stessa sorte, ma accadde che una delle due vecchie signorine entrasse nella stalla a sgridare le vaccaie perché la panna odorava di mucca. Nella stalla giaceva la puerpera con un florido, bellissimo neonato. La vecchia signorina fece una ramanzina sia per la panna sia perché avevano lasciato entrare la puerpera nella stalla, e stava già per andarsene quando, scorgendo la bambina, si intenerì e si offrì di farle da madrina. Infatti battezzò la bambina e poi, provando compassione per la propria figlioccia, diede latte e soldi alla madre, e la bambina rimase in vita. E fu così che le vecchie signorine la chiamavano la “salvata”.
La bambina aveva tre anni quando sua madre si ammalò e morì. Alla nonna, vaccaia, la nipote era di peso, e allora le vecchie signorine presero la bambina con sé. La bambina dagli occhi neri diventò insolitamente vivace e graziosa, ed era il conforto delle vecchie signorine.
Le vecchie signorine erano due: la minore, Sof’ja Ivànovna, un po’ più buona, ed era proprio lei che aveva battezzato la bambina, e la maggiore, Mar’ja Ivànovna, un po’ più severa. Sof’ja Ivànovna agghindava la bambina, le insegnava a leggere e voleva tenerla come pupilla. Mar’ja Ivànovna diceva che bisognava farne una lavoratrice, una buona cameriera, e per questo era esigente, la puniva e addirittura la picchiava, quand’era di malumore. Così, tra i due influssi, dalla bambina, quando fu cresciuta, venne fuori una mezza cameriera e una mezza pupilla. E la chiamavano anche con un nome di mezzo: né Kat’ka, né Kàten’ka, ma Katjuša.3 Cuciva, riordinava le stanze, puliva le icone col gesso, tostava, macinava e serviva il caffè, faceva i bucati leggeri, e a volte sedeva con le signorine facendogli lettura.
L’avevano chiesta in moglie, ma lei non voleva sposare nessuno, sentendo che la vita con quegli uomini di fatica, i quali l’avevano chiesta, sarebbe stata faticosa per lei, viziata dalla dolcezza della vita signorile.
Così visse fino a sedici anni. Quando ebbe compiuto i sedici anni, dalle sue signorine venne un loro nipote studente, un ricco principe, e Katjuša, non osando confessarlo né a lui e nemmeno a se stessa, se ne innamorò. Poi, due anni dopo, questo stesso nipote, andando in guerra, passò dalle zie, trascorse da loro quattro giorni e alla vigilia della partenza sedusse Katjuša e l’ultimo giorno, dopo averle cacciato in mano un biglietto da cento rubli, se ne ripartì. Cinque mesi dopo la sua partenza, lei seppe con certezza di essere incinta.
Da quel momento tutto le diventò odioso e pensava soltanto a come evitare quella vergogna che l’aspettava e non solo prese a servire svogliatamente e male le signorine ma, senza sapere lei stessa come potesse succedere, a un tratto esplose. Investì le signorine di insolenze, delle quali poi lei stessa si pentì, e chiese il conto.
E le signorine, molto scontente di lei, la lasciarono andare. Subito dopo entrò come cameriera in casa dello stanovòj, ma ci poté restare solo tre mesi, perché lo stanovòj, un vecchio di una cinquantina d’anni, aveva preso a molestarla e una volta che si era fatto particolarmente intraprendente, lei si infuriò, lo trattò da stupido e da vecchio imbecille e gli diede uno spintone sul petto da farlo cadere. Venne cacciata per insolenza. Non c’era più da cercarsi un posto, presto doveva partorire, e si trasferì da una vedova, levatrice di villaggio, che trafficava in alcolici. Il parto fu facile. Ma la levatrice, che nel villaggio aveva fatto partorire una donna malata, contagiò Katjuša di febbre puerperale, e il bambino, un maschio, lo mandarono all’orfanotrofio dove, come raccontava la vecchia che ce l’aveva portato, era morto subito dopo l’arrivo.
Tutti i soldi che Katjuša possedeva quando si era trasferita dalla levatrice erano centoventisette rubli: ventisette guadagnati e i cento rubli che le aveva dato il suo seduttore. Quando se ne andò da lei, in tutto le erano rimasti sei rubli. Non sapeva risparmiare i soldi, li sperperava per sé e li dava a chiunque glieli chiedesse. La levatrice per il mantenimento di due mesi, cibo e tè, le aveva preso quaranta rubli, venticinque rubli erano andati per il trasferimento del bambino, quaranta la levatrice glieli aveva chiesti in prestito per comprare una mucca e una ventina di rubli erano spariti in abiti e in regali: così quando Katjuša fu guarita, soldi non ne aveva e bisognava che si cercasse un posto. Il posto venne trovato in casa di un ispettore forestale. L’ispettore forestale era sposato ma, esattamente come lo stanovòj, fin dal primo giorno cominciò a molestare Katjuša. Katjuša lo trovava disgustoso e cercava di evitarlo. Ma lui era più esperto e più astuto di lei, soprattutto era il padrone che poteva mandarla dove voleva, così che, colto il momento, approfittò di lei. La moglie lo venne a sapere e una volta, trovato il marito in una stanza solo con Katjuša, le si gettò addosso per picchiarla. Katjuša non glielo permise e ne venne fuori una zuffa, in conseguenza della quale la cacciarono di casa senza pagarle il dovuto. Allora Katjuša andò in città e prese alloggio da una zia. Il marito della zia era un rilegatore e prima se l’era passata bene, ma ormai aveva perso tutti i clienti e si ubriacava, spendendo nel bere tutto quel che gli veniva in mano.
La zia teneva una piccola lavanderia e con questa campava se stessa e i figli e manteneva il marito scioperato. La zia propose alla Màslova di entrare a lavorare da lei, nella lavanderia. Ma, vedendo la vita faticosa che facevano le lavandaie che vivevano dalla zia, la Màslova indugiava e cercava negli uffici di collocamento un posto di cameriera. E il posto venne trovato presso una signora che viveva con due figli, studenti ginnasiali. Una settimana dopo il suo arrivo, il maggiore, un baffuto ginnasiale della sesta classe, smise di studiare e non lasciava in pace la Màslova, standole sempre appiccicato. La madre incolpò di tutto la Màslova e la licenziò. Un nuovo posto no...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Resurrezione
  3. Introduzione
  4. Cronologia della vita e delle opere
  5. Bibliografia
  6. Resurrezione
  7. PARTE PRIMA
  8. PARTE SECONDA
  9. PARTE TERZA
  10. Note
  11. Termini mal traducibili, nomi, cose e luoghi caratteristici
  12. Postfazione - di Romain Rolland
  13. Copyright