Le sfide della transizione ecologica
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Le sfide della transizione ecologica

  1. 336 pagine
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Le sfide della transizione ecologica

Informazioni su questo libro

Non c'è negazionismo che tenga: la crisi climatica è inesorabile e minaccia l'umanità, prima ancora che il pianeta. Se si è arrivati a questo punto è perché le politiche per contrastare il riscaldamento globale sono state inefficaci, nonostante la sempre più diffusa sensibilità green. Oggi, finalmente, si parla di "transizione ecologica": in questo libro di Edo Ronchi, fra i principali esponenti dell'ambientalismo in Italia, c'è tutto quello che bisogna sapere per passare dalle parole ai fatti.
Sostegno alle energie rinnovabili, carbon tax, rigenerazione urbana, economia circolare, ripensamento del sistema produttivo, dei trasporti e del sistema agroalimentare: Ronchi passa in rassegna con passione e chiarezza cristallina tutte le armi a nostra disposizione per vincere la battaglia più importante per il nostro futuro. Come ci ricordano Greta Thunberg e i ragazzi di Fridays for future, per una riconversione economica a basse emissioni di CO2 è necessario un massiccio Green New Deal, che concili ambiente ed equità e riesca dunque ad affrontare insieme crisi climatica e crisi sociale. Non a caso, nel Next Generation EU, il programma europeo per la ripresa dalla crisi pandemica dovuta al Covid-19, la transizione ecologica è messa al primo posto. Le sfide della transizione ecologica è un appello ad attivarsi per una politica e un'economia completamente nuove: non basta cambiare i comportamenti individuali, dobbiamo cambiare un intero sistema sociale ed è tempo di reclamarlo con forza.

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La neutralità climatica con emissioni nette zero al 2050

Perché la crisi climatica è arrivata
a questo livello di gravità?

La prolungata siccità, le alte temperature già nel mese di giugno, le immagini trasmesse in tv di catastrofici incendi in varie parti del mondo, sono solo alcune manifestazioni della crisi climatica. La gravità degli impatti di questa crisi è oggetto di numerosi studi internazionali. Un vasto rapporto pubblicato dall’Accademia nazionale delle scienze americana, curato da un gruppo di scienziati di varie parti del mondo (Attribution of extreme weather events in the context of climate change, 2016), lascia pochi dubbi sulla vastità ormai raggiunta dagli eventi atmosferici estremi. Il Global climate risk index 2016, elaborato e pubblicato dall’Istituto Germanwatch di Bonn, fornisce una mappa mondiale del livello di rischio di eventi atmosferici estremi connessi con il cambiamento climatico. Anche l’Agenzia europea per l’ambiente ha pubblicato un rapporto sugli impatti del cambiamento climatico (Climate change, impacts and vulnerability, 2016). Concludo questa ricognizione con un’ultima citazione: il rapporto sui rischi globali del World Economic Forum di quest’anno, che mette gli eventi atmosferici estremi connessi con il cambiamento climatico al primo posto (nei tre anni precedenti erano al secondo posto).
La gravità raggiunta dalla crisi climatica è ormai evidente, ampiamente documentata e studiata. La domanda che ci dovremmo porre è perché siamo arrivati a questo punto. Perché un mondo che dispone di conoscenze, tecnologie, capacità in quantità e qualità tanto elevate – come mai nella sua storia passata – non è stato capace di prevenire una crisi climatica come quella prodotta dall’aumento record di concentrazione di gas serra in atmosfera? Pur avendo individuato da tempo la gravità del problema e avendo stipulato, nella Conferenza delle Nazioni Unite nel 1992, un accordo internazionale per il clima – la Convenzione quadro sul cambiamento climatico – che aveva come obiettivo la stabilizzazione delle emissioni di gas serra, come mai, venticinque anni dopo, siamo a questo punto? Senza dimenticare il Protocollo di Kyoto, stipulato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005, che doveva portare a una significativa riduzione delle emissioni mondiali che, invece, hanno continuato ad aumentare. Perché questi fallimenti?
L’attenzione dell’opinione pubblica, e dei mezzi di informazione che concorrono in modo decisivo alla sua formazione, è stata episodica, carente, del tutto inadeguata rispetto alla portata e alla gravità di questa crisi. La politica in generale, salvo poche eccezioni, per la maggior parte di questi venticinque anni ha trascurato le politiche e le misure per mitigare la crisi climatica, non ponendole quasi mai fra le priorità, essendo in genere occupata da questioni di breve termine, percepite sempre come più urgenti. Il mondo delle imprese, anche qui con lodevoli eccezioni, ha per molto tempo visto i problemi relativi alla crisi climatica con fastidio, come portatrici di aumento dei costi e di perdita di competitività. Il carattere globale della crisi climatica è stato spesso invocato come alibi per non impegnarsi a fondo: devono impegnarsi tutti i paesi del mondo, ma siccome è praticamente impossibile partire tutti insieme perché c’è sempre chi frena, allora si aspetta, si fa il minimo e si lascia che le emissioni globali continuino ad aumentare.
È vero che la situazione sta cambiando, ma se il cambiamento non viene accelerato si rischia di arrivare tardi: in pochi decenni la crisi climatica potrebbe precipitare, con esiti catastrofici. L’attenzione dell’opinione pubblica e dell’informazione deve essere costante; la politica deve includere la crisi climatica fra le effettive priorità; le imprese devono puntare sulla green economy per fare della sfida climatica un’occasione storica di innovazione e di nuovo sviluppo. Fare di più e meglio per il clima non può più essere una scelta subordinata: deve diventare una sfida prioritaria. (22 giugno 2017)

Qualche giorno di freddo non modifica
il quadro generale del riscaldamento globale

Sono bastati alcuni giorni più freddi della media stagionale perché su alcuni giornali, espressione di opinioni politiche che hanno in Italia un peso rilevante – come «il Giornale», «Libero» e «La Verità» – comparissero articoli negazionisti della crisi climatica e del riscaldamento globale. Posizioni di questo genere possono fare presa sfruttando percezioni riduttive ed errate del rischio climatico. La sigaretta, per esempio, è stata percepita in passato, per molti anni, come rilassante e piacevole. C’è voluto parecchio tempo perché ciò che era scientificamente noto – l’alto rischio di cancro ai polmoni e di altre gravi patologie per i fumatori – diventasse senso comune, vincendo la disinformazione e le campagne pubblicitarie condotte con grandi mezzi dalle multinazionali del settore. La percezione della crisi climatica può essere ancora più ingannevole non solo per la disinformazione alimentata da interessi economici legati, ma non solo, al potente mondo dei combustibili fossili – del carbone, del petrolio e del gas – ma perché il riscaldamento globale non elimina la variabilità del clima locale, genera un aumento medio delle temperature, ma non esclude affatto che vi siano anche giorni freddi. Se ci affidassimo solo a una percezione basata sulle condizioni meteorologiche contingenti e non invece su una più ampia conoscenza delle condizioni climatiche complessive, saremmo facilmente indotti a scambiare lucciole per lanterne. Che fare quindi per non cadere nella trappola della percezione sbagliata? Per chi è in buona fede, la risposta è semplice: occorre informarsi.
L’aumento medio delle temperature globali è misurato: nell’ultimo secolo è stato di oltre un grado. La concentrazione di gas a effetto serra in atmosfera è misurata, il suo andamento storico è conosciuto attraverso l’analisi delle particelle di aria contenute nelle carote di ghiaccio prelevate dai ghiacciai più antichi: siamo a quasi 410 parti per milione in volume, il più alto degli ultimi, almeno, ottocentomila anni; nel 1750 era a 277 parti per milione. Il forte aumento della concentrazione nell’atmosfera di gas serra è generato, per la maggior parte, dalle emissioni prodotte dall’aumento del consumo di combustibili fossili, cresciuto di circa venti volte dall’inizio del secolo scorso. I grafici dell’andamento nell’ultimo secolo delle concentrazioni dei gas serra in atmosfera e dell’andamento medio delle temperature globali mostrano una stretta correlazione: all’aumento delle concentrazioni di gas serra corrisponde un aumento medio delle temperature.
La spiegazione scientifica dell’effetto serra è chiara: le radiazioni solari arrivano sulla superficie terrestre con diverse lunghezze d’onda e vengono riflesse dalla superficie terrestre nella lunghezza d’onda della radiazione infrarossa; questa lunghezza d’onda è intercettata da alcuni gas presenti in atmosfera (detti proprio per questo “gas a effetto serra”, come l’anidride carbonica e altri). Maggiore è la concentrazione di questi gas in atmosfera, maggiore è la radiazione infrarossa che viene trattenuta dall’atmosfera e maggiore è il riscaldamento globale del pianeta. Il riscaldamento globale ha già provocato fenomeni verificati e studiati: un aumento della frequenza e dell’intensità dei fenomeni atmosferici estremi (uragani, bombe d’acqua, siccità prolungate, ondate di calore, ecc.), riduzione dei ghiacciai e aumento del livello dei mari. Il panel di circa tremila scienziati indicati dai governi di ottanta paesi (Ippc, Intergovernmental Panel on Climate Change) ha pubblicato cinque rapporti sul riscaldamento globale; la gran parte delle istituzioni scientifiche in tutto il mondo, tutte quelle autorevoli, sostengono la gravità dell’attuale crisi climatica. Qualche giorno di freddo, purtroppo, non modifica il quadro generale del riscaldamento globale in atto. (9 maggio 2019)

I danni e i costi ingenti della crisi climatica

“I danni causati dal maltempo” è la formula più usata nelle presentazioni televisive e sulla carta stampata dei recenti disastri, provocati anche questo autunno, in diverse parti d’Italia, da eventi meteorologici non più straordinari, ma certamente estremi: precipitazioni molto intense che vengono chiamate bombe d’acqua e venti fortissimi che stentiamo a chiamare uragani, anche se ci somigliano molto. Sono fenomeni generati dal cambiamento climatico, non dal maltempo stagionale, che stanno aumentando in tutto il mondo per frequenza e intensità.
Secondo il nuovo rapporto Economic Losses, Poverty and Disasters 1998-2017 dell’United Nations Office for Disaster Risk Reduction (Unisdr) e del Centre for Research on the Epidemiology of Disasters (Cred), nei vent’anni dal 1998 al 2017 le perdite economiche mondiali causate da eventi atmosferici estremi generati dal cambiamento climatico sono state pari a 2.245 miliardi di dollari, con un aumento del 151% rispetto ai vent’anni precedenti (1978-1997), quando le perdite complessive erano state 895 miliardi. Il numero di disastri ambientali legati a eventi meteo-climatici è salito, rispetto al ventennio 1978-1997, in media da 165 a 329 eventi ogni anno.
La maggior parte delle catastrofi è stata causata da eventi meteorologici estremi legati al cambiamento del clima. Il maggior numero di disastri è causato da alluvioni (43,4%), da tempeste o uragani (28,2%), temperature estreme (5,6%), frane (5,2%), siccità (4,8%) e incendi (3,5%).
Complessivamente due miliardi di persone hanno subito i danni delle alluvioni tra il 1998 e il 2017. Nello stesso periodo tempeste e uragani hanno provocato la morte di 232.680 persone. Se gli impatti economici di tali disastri sono maggiori nei paesi più sviluppati, la perdita di vite umane è più alta nei paesi più poveri: la probabilità di morte per eventi naturali o meteorologici estremi di chi abita in paesi poveri è sette volte più alta rispetto a quella di persone che abitano in paesi sviluppati.
L’Italia è fra i paesi più colpiti dagli eventi atmosferici estremi: al settimo posto al mondo per i danni subiti, dopo Stati Uniti, Cina, Giappone, India, Puerto Rico e Germania e prima di Thailandia, Francia e Messico. (15 novembre 2018)

Alluvioni e frane continue:
che altro serve per cambiare passo?

La successione delle alluvioni e delle frane in Italia negli ultimi anni è impressionante. Non scopriamo oggi che il nostro territorio è fragile e vulnerabile e che uno sviluppo insediativo e infrastrutturale disattento alla sostenibilità idrogeologica lo ha reso poco resiliente e molto esposto ai rischi. E anche che si poteva fare di più e meglio per ridurre l’esposizione ai rischi e per limitare i danni. Il cambiamento climatico sta provocando un aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi all’origine del forte aumento di alluvioni e frane. I dati sono veramente allarmanti: in Italia (fonte: European severe weather database) dall’inizio del 2019 si sono verificati 1.543 eventi atmosferici estremi, circa cinque al giorno; dieci anni fa, nel 2009, erano stati 213; nel 1999, vent’anni fa, erano stati solo 17. In dieci anni le bombe d’acqua che fanno esondare i fiumi sono quasi triplicate: dalle 395 del 2008 alle 1.024 del 2018.
Che fare quindi? Intanto dovremmo preoccuparci di cercare di evitare ulteriori gravi peggioramenti, purtroppo prevedibili se il riscaldamento globale procede con il ritmo attuale. L’Italia, così pesantemente colpita dal cambiamento climatico, dovrebbe essere impegnata in prima fila a livello internazionale per sostenere politiche di taglio più incisivo delle emissioni di gas serra. E dovrebbe dimostrare di fare sul serio in casa propria. Così non è: le emissioni di gas serra in Italia non diminuiscono da cinque anni e, secondo l’ultima proiezione di Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), nel 2019 potrebbero addirittura aumentare.
Si dovrebbe anche varare rapidamente, e rendere operativo, un piano pluriennale di misure di adattamento al cambiamento climatico – che ancora non c’è – per aumentare la resilienza ai fenomeni atmosferici estremi, integrando e rendendo più incisive le misure di prevenzione del dissesto idrogeologico e quelle di manutenzione e messa in sicurezza del territorio, delle abitazioni nelle zone a maggiore rischio – delocalizzandole quando necessario – e delle infrastrutture. Si tratta di una sfida molto impegnativa che richiederebbe uno sforzo straordinario del governo e del parlamento.
Anche fare poco, tuttavia, non è privo di rischi per i decisori politici: l’aggravamento della crisi climatica è rapido e i cittadini chiederanno conto dell’efficacia delle misure adottate. Sottovalutare la nuova e maggiore dimensione dei rischi climatici, la vasta portata degli interventi necessari, l’enorme quantità di risorse finanziarie necessarie e l’urgenza di modalità efficienti e rapide di spesa e di realizzazione delle misure, ci lascerebbe, in modo sempre più evidente, esposti a pericoli e danni ingenti e crescenti. Non è detto che si riesca ad affrontare con successo una sfida di questa portata, ma non provarci seriamente sarebbe imperdonabile. (28 novembre 2019)

Lo “Special report” dell’Ipcc: è necessario
un taglio più consistente delle emissioni al 2030
e la neutralità carbonica al 2050

Il limite dei 2 °C di aumento della temperatura globale rispetto al periodo preindustriale non sarebbe sufficiente a preservarci da una serie di effetti negativi rilevanti, generati dal cambiamento climatico. Per questo l’Accordo sul clima di Parigi ha indicato di fare ogni sforzo possibile per non superare l’aumento medio della temperatura di 1,5 °C e ha fissato l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 °C.
Oggi, grazie allo “Special Report” dell’Ipcc – il panel dell’Onu formato da scienziati di tutto il mondo indicati dai governi – conosciamo l’enorme impegno necessario per non sforare il tetto già molto pericoloso dell’aumento medio della temperatura globale di 1,5 °C. Visto che c’è già stato un aumento medio globale delle temperature di circa un grado, con conseguenze preoccupanti che stiamo verificando (l’aumento dell’intensità e della frequenza degli eventi atmosferici estremi con danni ingenti), le analisi e le valutazioni del report degli scienziati dell’Ipcc documentano che, per non superare la soglia di 1,5 °C, serve un taglio delle emissioni mondiali di CO2 dal 40 al 60% entro il 2030, per poi arrivare a emissioni nette nulle entro il 2050.
Questo percorso, più impegnativo di quanto previsto fino a pochi anni fa, risulta necessario per far fronte a un peggioramento della crisi climatica che sta procedendo molto rapidamente. È ben più impegnativo di quello delineato con lo scenario del contenimento dell’aumento della temperatura globale a 2 °C, che richiederebbe un taglio di circa il 25% delle emissioni mondiali al 2030, rispetto al 1990, e il raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2075. Secondo l’Ipcc l’obiettivo del contenimento al di sotto di 1,5 °C sarebbe ancora raggiungibile ma solo con una serie di misure drastiche che, a oggi, non sono nell’agenda dei governi e che dovrebbero comportare enormi investimenti, stimati in circa il 2,5% del Pil annuo per i prossimi vent’anni.
Le misure per mitigare la crisi climatica, benché drastiche e impegnative, sono tecnicamente fattibili ed economicamente gestibili, tenendo conto sia dei maggiori costi evitati o ridotti, sia dei vantaggi portati dallo sviluppo delle tecnologie a basse o nulle emissioni di carbonio, dai nuovi consistenti investimenti e dalla nuova occupazione generata. Nonostante ciò, constatando che nel 2017 e nella prima parte del 2018 le emissioni di gas serra nel mondo sono tornate a crescere, con questo rapporto l’Ipcc certifica che la finestra temporale per poter contenere l’aumento globale delle temperature entro 1,5 °C, è ormai di pochi anni. E si sta chiudendo più rapidamente del previsto. Il rapporto ha avuto, questa volta, un buon rilievo sui media. Non possiamo quindi dire di non essere stati avvisati. Trascurare ciò che la scienza, in modo univoco e autorevole, ci sta dicendo, sottovalutare la gravità della crisi climatica e, nonostante l’evidenza degli impatti già visibili, alimentare l’idea di avere ancora molto tempo a disposizione, comporta gravi responsabilità. Ciascuno di noi deve fare la sua parte ed essere ancora più deciso nel chiedere conto ai governi che non pongono la crisi climatica, e le misure necessarie per affrontarla, fra le effettive priorità della loro agenda. (11 ottobre 2018)

Crisi climatica: ci comportiamo come la rana in pentola

Ho letto che una...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LE SFIDE DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA
  4. Presentazione
  5. 1. La neutralità climatica con emissioni nette zero al 2050
  6. 2. La rivoluzione energetica: dai fossili alle rinnovabili
  7. 3. La transizione ecologica dell’economia per una green economy, circolare e decarbonizzata
  8. 4. La gestione circolare dei rifiuti
  9. 5. La transizione alle green city
  10. Bibliografia
  11. Copyright