Perché mi fido di te
Questo percorso di ricerca affascinante, anche se poco conosciuto dal grande pubblico, ha avuto un’importanza fondamentale negli sviluppi della neurofisiologia. Come siete arrivati dallo studio della visione a quello del sistema motorio e ai neuroni specchio?
Merito, ma anche fortuna. A Pisa, e inizialmente anche a Parma, mi interessavo della fisiologia della visione. Così, quando scoprimmo che la corteccia motoria di scimmia rispondeva a stimoli visivi, pensammo che per il sistema motorio si potesse adottare la stessa strategia adoperata per il visivo. Cercammo di interpretare quindi per ogni neurone il significato del suo messaggio, comprendere cosa volesse «dire». Del resto, era l’approccio usato da Hubel e Wiesel e anche da Gross, quando studiavano le proprietà funzionali dei neuroni delle aree visive. Con una differenza. Nello studio del sistema visivo si richiede che l’animale stia fermo. Negli esperimenti degli anni Cinquanta il sistema visivo era addirittura studiato in anestesia. E si ottenevano risultati validi. Ma quando si passò allo studio del sistema motorio, occorreva che l’animale si muovesse.
A quel punto c’erano due strade: potevamo o condizionarlo a eseguire movimenti semplici, studiando così la loro cinematica o altri aspetti meramente motori, come facevano gli studiosi «ortodossi» del movimento, oppure adottare un approccio diverso, «etologico», come abbiamo fatto noi. Fu una strategia vincente. Lasciammo la scimmia libera nel suo ambiente motorio, studiando in quali condizioni si attivavano i suoi neuroni. Oltre a guardare il cibo, l’animale ci osservava prenderlo e offrirglielo o, al contrario, portarlo alla nostra bocca. Fu in base a questi comportamenti reciproci che cominciammo ad analizzare il sistema motorio in situazioni sociali.
Come avvenne la scoperta dei neuroni mirror e quanta parte ebbe il caso?
Avevamo scoperto i neuroni canonici. Mentre cercavamo di approfondirne le funzioni, saltò fuori una sorpresa. Certi neuroni invece di rispondere quando offrivamo del cibo alla scimmia si attivavano nel momento in cui osservava uno di noi che lo prendeva.
In realtà le sorprese furono due. La prima nasceva dal fatto che il neurone si attivava per un’azione eseguita da un altro individuo e non per la presenza di cibo. La seconda sorpresa fu che l’azione efficace non era un movimento o un atto motorio qualsiasi, bensì un’azione che coincideva con quella che attivava il neurone quando questa era compiuta dalla scimmia. Il neurone che si attivava, per esempio, quando la scimmia afferrava un oggetto, sparava anche quando l’oggetto veniva afferrato dallo sperimentatore. Si noti che la scimmia non era condizionata. All’impostazione di tipo skinneriano avevamo preferito un approccio etologico, che stava dando frutti imprevisti.
A queste osservazioni iniziali seguì una serie di esperimenti di controllo, che facemmo per escludere la presenza di artefatti. Ossia che la scimmia compisse, per esempio, piccoli movimenti che ci sfuggivano. Così controllammo e ricontrollammo, ma ottenevamo sempre gli stessi risultati. C’erano dei neuroni che si attivavano sia quando la scimmia compiva un’azione sia quando osservava lo sperimentatore compiere la medesima azione. Abbiamo chiamato questi neuroni mirror, in italiano «neuroni specchio».
Come ha cambiato questa vostra scoperta la concezione del sistema motorio?
Prima dei nostri studi si pensava che le aree motorie della corteccia cerebrale svolgessero esclusivamente funzioni esecutive. Erano dei «produttori» di movimenti. La visione generale della corteccia era che questa fosse organizzata secondo uno schema tripartito. Prima fase: analisi degli stimoli nelle aree sensoriali; seconda fase: associazione tra le varie modalità sensoriali «processate» nelle aree sensoriali; terza fase: esecuzione dei movimenti.
In questo schema tripartito – che possiamo riassumere nei tre momenti di percezione, cognizione, movimento – cos’è che non andava?
Non teneva conto di quanto sia importante il sistema motorio nei processi cognitivi. Le sue aree connesse con le regioni associative non codificano semplici movimenti, ma atti motori finalizzati. La differenza è abbastanza evidente. Il movimento è semplicemente il cambio di posizione di un effettore, della mano per esempio. L’atto motorio è la messa in pratica di un complesso sistema di intrecci nervosi che consente di afferrare, respingere, tenere un oggetto. Lo schema classico, con la sua visione quasi meccanica della corteccia motoria, non poteva soddisfare questa complessità. La corteccia motoria è una struttura articolata che codifica gli scopi del movimento.
Vuoi dire che non c’è un prima e un dopo?
No, c’è sicuramente un dopo, perché, quando la decisione è presa, il sistema motorio, incluse le aree corticali, invia comandi ai muscoli. Il dato nuovo è che il «prima» include le aree premotorie. A questo proposito vorrei citare Marc Jeannerod, che nel 2004 ha scritto: «La semplice percezione visiva, senza il coinvolgimento del sistema motorio, determinerà solo una descrizione degli aspetti visivi del movimento dell’agente, ma non darà informazioni precise sulle componenti intrinseche dell’azione, che sono fondamentali per capire in cosa l’azione consista, quale sia il suo scopo e come riprodurla». In altre parole, grazie al sistema motorio capisci l’azione dell’altro come se la avessi fatta tu. È una comprensione completa.
Ed è quella che chiami «comprensione motoria»?
Precisamente. Un’azione non si comprende solo con la visione né con l’intelligenza. L’intelligenza è già inscritta nell’azione. Il sistema motorio la comprende.
In che senso avete avuto fortuna nella scoperta dei neuroni specchio?
La fortuna è consistita nel fatto che i neuroni specchio esistessero. Se non ci fossero stati, è ovvio, non li avremmo scoperti. Bisogna anche rilevare che vi sono aspetti della nostra scoperta che non c’entrano con la fortuna. Anzitutto, ci eravamo messi nella condizione di scoprirli. In secondo luogo abbiamo avuto il coraggio di descrivere qualcosa di inaspettato. Se davanti all’imprevisto avessimo detto: «Che cosa strana, forse è meglio lasciar perdere... Potrebbe essere pericoloso per la nostra reputazione» sarebbe tutto finito. È una lezione di autostima che avevo appreso a Pisa. John Eccles, il famoso premio Nobel, una volta mi disse: «Se hai la certezza che i tuoi dati sono veri, devi pubblicarli e sostenere la tua interpretazione. Spiega le tue idee. Poi gli altri magari ti criticheranno. Ma solo così la scienza va avanti». Fu con questo incoraggiamento che decidemmo di pubblicare i nostri dati sui neuroni specchio.
Chi erano i tuoi collaboratori in quell’impresa?
In quegli anni avevo uno splendido team, composto da Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi e Vittorio Gallese. All’inizio c’era con noi anche Giuseppe Di Pellegrino, che poi partì per gli Stati Uniti con una borsa di studio. Il team era splendido non solo perché i suoi membri erano bravi, ma anche perché si completavano a vicenda. Fadiga era formidabile tecnicamente; Fogassi si dimostrò un ottimo osservatore, era la precisione personificata; Gallese aggiungeva un entusiasmo unico alla ricerca. Era un trascinatore. Tutti in seguito hanno fatto un’eccellente carriera.
C’era nel panorama internazionale chi autonomamente si interessava al medesimo argomento?
Esperimenti di neurofisiologia simili ai nostri erano condotti solo a Tokyo da Hideo Sakata e dai suoi collaboratori, in particolare Akira Murata. Inoltre conoscevo bene gli studi di Alvin Lieberman, che negli anni Sessanta aveva ipotizzato che la comprensione del materiale linguistico passasse attraverso il sistema motorio. La tesi di Lieberman, uno studioso peraltro poco amato dai linguisti, era piuttosto semplice: capiamo i fonemi perché siamo in grado di riprodurli. Come si spiegherebbe altrimenti che una sillaba – che so, «ba» o «da» – pronunciata da un uomo, una donna, un bambino, o dalla voce sintetizzata di un computer sia riconosciuta come identica? Lieberman era un fisico, interessato all’analisi materiale dei suoni. Dal punto di vista fisico il «ba» emesso da un uomo è molto diverso dal «ba» di una donna, per non parlare di quello generato da un computer. Se «ba» ha una gamma così differenziata di toni che lo possono generare, come mai noi lo sentiamo, o meglio lo categorizziamo, come identico? La spiegazione di Lieberman era che lo stimolo acustico prodotto dalla sillaba, anche da un fonema, viene «percepito» come identico perché attiva nell’ascoltatore lo stesso programma motorio che usiamo per emettere quella sillaba.
Quindi la comprensione di una sillaba è motoria?
Sì, nel senso della sua categorizzazione. Questa categorizzazione serve poi a ricostruire e capire la parola sentita. Lieberman non si interessava però alla semantica delle parole, ma al modo in cui classifichiamo certi suoni, per esempio le sillabe, come identici sebbene siano fisicamente diversi. Quello che mi colpiva del lavoro di Lieberman era il concetto che un suono linguistico non si giustifica di per sé, autonomamente, ma va posto in relazione al gesto che lo produce. È dalla specifica articolazione gestuale – cavità orale, palato, lingua, laringe ecc. – che dipende la differenza fonetica di un suono. La sua teoria non suscitò particolare entusiasmo tra i linguisti dell’epoca. Anzi fu molto criticata, anche ingiustamente.
Forse connettere linguaggio e movimento era considerato una stranezza.
Certo, ma una stranezza che aveva forti argomenti a suo favore. E oggi direi che era anche molto ragionevole dal punto di vista dell’evoluzione. Soprattutto per chi, e tra questi includo me stesso, è convinto che all’origine del linguaggio ci sia il gesto. E che solo in un secondo momento dell’evoluzione faccia la sua comparsa la parola come mezzo di comunicazione.
Questo programma motorio che relazione ha con «ba», con la teoria di Lieberman?
Mettiamola così. I nostri dati iniziali sulle aree motorie, quelli precedenti alla scoperta dei neuroni specchio, avevano dimostrato che abbiamo inscritto nella nostra corteccia motoria un «vocabolario» di atti motori. Scoprimmo in seguito che il vocabolario motorio serve per capire gli atti motori degli altri. Questi dati, ottenuti in maniera assolutamente indipendente dalla teoria di Lieberman sul linguaggio, hanno tuttavia in comune con questa l’idea che per riconoscere uno stimolo proveniente da altri individui occorra avere un match, una corrispondenza, tra tale stimolo e un elemento presente nel vocabolario motorio di chi riceve il messaggio. Gesti linguistici nel caso di Lieberman, atti motori finalizzati («prendere una mela» per esempio) nel caso nostro.
Quindi vi imbatteste in questi neuroni strani. Come vi comportaste?
Convinti di avere fatto una scoperta interessante, mandammo la descrizione dei neuroni specchio a «Nature», la rivista internazionale multidisciplinare più prestigiosa assieme a «Science». Nutrivamo qualche speranza, ma sapevamo anche che pubblicare su una rivista così importante non era facile. L’articolo infatti tornò indietro: «Rejected». La ragione era la seguente: «La ricerca» ci scrissero «è di ottima qualità, ma di interesse limitato al di fuori della neurofisiologia». Una motivazione che vista oggi appare buffa. Poche ricerche di neuroscienze hanno avuto un impatto, al di fuori del loro specifico campo scientifico, maggiore della nostra. Allora non trovai la motivazione divertente, ma non avvertii neanche la rejection come un’offesa. La possibilità di un rifiuto faceva parte del gioco.
Rifiutati da «Nature», cosa avete fatto?
Per me era molto importante che il lavoro uscisse presto, almeno come nota preliminare. Così presi il coraggio a due mani e telefonai al professor Otto Creutzfeldt, che era l’editor in chief di «Experimental Brain Research». Nonostante non avesse il prestigio di «Nature», questa era pur sempre un’ottima rivista di neuroscienze, fondata da John Eccles. Creutzfeldt, un professore molto autorevole, che avevo incontrato in vari congressi, mi disse di spedirgli il manoscritto e che, se lo avesse trovato buono, lo avrebbe subito dato alle stampe. Così accadde e nel 1992 apparve la prima descrizione dei «mirror neurons». Anche la rivista fece un buon affare. La nostra nota è stata citata circa 2500 volte ed è uno dei lavori più letti tra quelli pubblicati in «Experimental Brain Research».
Con che stato d’animo accoglieste la pubblicazione?
Ovviamente eravamo contenti ma, considerata la «stranezza» dei nostri neuroni, temevamo anche di poter essere smentiti. Oscillavamo tra due sentimenti: la paura che la nostra teoria potesse avere dei punti deboli, che qualcosa ci avesse tratto in errore, e la gioia di sentire che ci stavamo avvicinando a una scoperta importante. In fondo la ricerca scientifica è anche questo. Poi dedicammo parecchi anni ad approfondire e a verificare la tenuta dei nostri risultati. In effetti, la nota di «Experimental Brain Research» si basava su un numero limitato di neuroni, ci rendemmo quindi conto che occorrevano più dati. Nel 1996 pubblicammo due lavori, in parallelo, che rappresentano la prima descrizione dettagliata delle proprietà funzionali dei neuroni specchio. Tra la prima nota e questi lavori passarono all’incirca quattro anni.
Ma quando scopriste che un meccanismo specchio esiste anche nell’uomo?
Ci sono varie maniere per dimostrare che il meccanismo specchio si trova nell’uomo. Una è la stimolazione magnetica transcranica (Tms), altre tecniche si basano su quello che viene chiamato brain imaging. La prima pubblicazione in cui abbiamo provato l’esistenza del meccanismo specchio nell’uomo fu scritta grazie a un lavoro Tms. La tecnica Tms si basa su un principio relativamente semplice. Si applicano degli stimoli magnetici alla corteccia motoria di una persona. Se l’intensità dello stimolo, localizzato per esempio in corrispondenza della rappresentazione della mano destra, è sufficientemente forte, si vede un movimento di questa mano. Altrimenti si possono registrare dei potenziali muscolari chiamati «motor evoked potentials» (MEPs). L’idea di usare la Tms per dimostrare l’esistenza del meccanismo mirror nell’uomo la ebbe Luciano Fadiga. Il trucco fu di usare stimolazioni deboli, per cui i MEPs evocati erano quasi impercettibili. Ma quando il soggetto stimolato guardava un altro individuo afferrare un oggetto, comparivano dei MEPs di considerevole ampiezza e proprio nei muscoli corrispondenti a quelli usati dallo sperimentatore. Più «mirror» di così!
Perché questo avveniva?
L’aumento dei MEPs era dovuto al fatto che le aree premotorie, dove sono posti i neuroni specchio, sono riccamente connesse con l’area motoria primaria, quella stimolata. Quindi, se i neuroni specchio erano presenti nell’uomo, quando il soggetto dell’esperimento vedeva un’azione (per esempio afferrare un oggetto), questi avrebbero dovuto attivarsi ed eccitare a loro volta l’area motoria. Ed è esattamente quello che osservammo.
Il meccanismo mirror nell’uomo lo avete studiato però soprattutto con la risonanza magnetica funzionale.
È proprio così, anche se i primissimi esperimenti li abbiamo condotti usando la Pet (Positron Emission Tomography), una tecnica basata sulla rilevazione di radioattività nelle aree dove il metabolismo cerebrale è maggiore. Abbiamo condotto questi esperimenti al San Raffaele a Milano, assieme a Daniela Perani e Ferruccio Fazio. Sono stati momenti davvero emozionanti. Era straordinario vedere come nel cervello del soggetto sdraiato nello scanner si attivassero le aree motorie mentre osservava uno di noi, in genere Massimo Matelli, afferrare un oggetto. Poi siamo passati alla risonanza magnetica funzionale (fMRI) che dà risultati più precisi e dunque più adeguati al nostro tipo di ricerca.
Anche questi esperimenti li avete fatti in Italia?
No, i primi li realizzai a Los Angeles con Marco Iacoboni, nell’ambito di un progetto di «Human Frontiers». Iacoboni ha dato un contributo fondamentale, a cavallo del secolo, allo sviluppo della teoria del meccanismo mirror nell’uomo. È stato, assieme al famoso neurologo Ramachandran, il «nostro uomo» in California. Poi conducemmo gli esperimenti un po’ dappertutto: in Germania, in Francia, e finalmente a Parma, dove la Fondazione Cassa di Risparmio ci regalò un 3 Tesla, cioè uno splendido scanner.
Come reagì la comunità scientifica?
Direi bene, anzi molto bene. Pubblicavamo sulle riviste più prestigiose, ero invitato ai convegni più importanti. Arrivarono anche premi. Alle nostre scoperte cominciarono a interessarsi filosofi, sociologi, psicologi, registi, artisti di teatro. E alla fine se ne occuparono anche i giornalisti. Questo ci portò vantaggi e svantaggi. Tra i vantaggi bisogna annoverare certamente la fama nel mondo extrascientifico, tra la gente «comune». Tra gli svantaggi la sensazione che si diffuse, specie tra gli psicologi, che i mirror spiegassero troppo. Comparvero obiezioni, in gran parte ingenue o addirittura illogiche. Per esempio che i neuroni specchio potessero sì esistere nelle scimmie, ma non nell’uomo. Erano rilievi risibili. Forse alcuni psicologi temevano che stessimo rubando loro il mestiere.
Ed era vero? Voglio dire, ci sono state delle esagerazioni?
Non c’è dubbio che le implicazioni della nostra scoperta erano notevoli: modificavano la nostra visione su come è organizzata la corteccia cerebrale, e soprattutto su come è strutturata la cognizione. Potevano indurre a qualche eccesso inte...