APOGEO MELANCONICO
IL GENIO RINASCIMENTALE
Fu proprio Marsilio Ficino, attivo nella Firenze laurenziana (1433-1499), «a dare forma all’idea dell’uomo di genio melanconico e la rivelò al resto dell’Europa, in particolare ai grandi Inglesi del XVI e XVII secolo, nel magico chiaroscuro del misticismo neoplatonico cristiano. In lui il carattere soggettivo della nuova dottrina si fa particolarmente pronunziato, in quanto egli stesso era un melanconico e figlio di Saturno» (Klibansky Panofsky Saxl 2002, p. 241). E sulla consapevolezza della propria natura saturnina da parte di Ficino abbiamo ampia testimonianza nell’epistolario, in celebri missive ben note agli studiosi (vd. Biondi in Ficino 1991, pp. XVI sg.; Klibansky Panofsky Saxl 2002, pp. 242 sg.). Nell’opera De vita e in particolare nel primo libro,1 dedicato alla cura della salute dei letterati (composto autonomamente già entro il 1480 e poi rifluito nel De vita), Ficino compie il grande recupero del paradosso aristotelico, o pseudo-aristotelico, per cui tutti gli uomini di eccezionale ingegno si sono rivelati melanconici (Problemi XXX, 1). Procedendo in una sintesi metodologica scientifica e speculativa che tiene assieme Platone, Aristotele e la tradizione medica da Ippocrate a Galeno agli arabi, Ficino dichiara che la melanconia può devastare ma può anche galvanizzare al massimo grado l’ingegno, che insomma Saturno è tradizionalmente infausto ma può essere al contrario il pianeta che salva gli uomini di pensiero, che li fa penetrare nel più profondo delle cose e svettare nel più alto dei cieli. «Così, nonostante la sua perdurante paura dell’antico demone sinistro, l’opera del Ficino culmina in una glorificazione di Saturno» (Klibansky Panofsky Saxl 2002, p. 256). Ficino apre la strada ai trionfi della melanconia geniale, sempre però in regime di ambivalenza: «un arco di trionfo per la gloria ambivalente (la rupe Tarpea è vicina al Campidoglio) del genio melanconico» (Dandrey 2005, p. 476). Nel terzo libro del De vita, infine, Ficino ribadisce la pericolosità e insieme la potenzialità superbamente positiva del suo pianeta: «Tu, dunque [o lettore], non trascurare il potere di Saturno: è tradizione degli Arabi che Saturno sia il più potente di tutti i pianeti […]. E quantunque gli uomini per lo più ne abbiano un timore reverenziale, in quanto è alieno alla vita associata, ritengono tuttavia che si possa placare anche rispetto alla vita associata se, quando esso ha potere e dignità massima nell’ascendente, lo guarda con felice influsso il suo figlio Giove, o lo accoglie propiziatore entro i suoi confini.Altrimenti il suo influsso […] si fa quasi veleno (come diventa velenoso per putrefazione o riscaldamento eccessivo un uovo) e ne vengono fuori esseri immondi, vili, tristi, invidiosi, sottoposti a dèmoni immondi, coi quali tu devi evitare ogni rapporto. […] Si sottraggono poi all’influsso nocivo di Saturno, anzi sottentrano a quello propizio, non solo quelli che si rifugiano in Giove, ma anche coloro che si dedicano con tutta la loro mente alla contemplazione di Dio, simboleggiata dallo stesso Saturno» (Ficino 1991, pp. 381-383). Astrologia, platonismo profondamente cristiano e terapeutica (anche il padre di Ficino era medico) si confortano per realizzare una ricapitolazione dei saperi e una rifondazione della natura melanconico-saturnina che apre alla complessa e non univoca antropologia rinascimentale.
Lorenzo de’ Medici fu intimamente legato al Ficino e alla sua dottrina, sino a farne quasi la filosofia ufficiale della sua signoria. Il Comento de’ miei sonetti di Lorenzo2 è un prosimetro, di ascendenza dantesca, allestito fra i primi anni ’80 del Quattrocento e poi lasciato in versione ancora non definitiva alla morte dell’autore. Diversamente dalla Vita nuova, però, il Comento principia dalla morte della donna (Simonetta Cattaneo), morte «che funge da viatico per la scoperta da parte di Lorenzo dell’amore vero, per un’altra donna altrettanto e più bella della precedente» (Zanato) ed è testo in gran parte sotto il segno della melanconia, ribadendovisi la necessità che ogni amante sia melanconico. Anche questo dato irrinunciabile, che pure aveva per sé la grande tradizione della malattia amorosa, l’aegritudo amoris melanconica (cfr. Ciavolella 1976), non poteva non venire dall’autorità ficiniana. Si legga dal Libro dell’amore di Marsilio: «gli antichi medici dissono l’amore essere una spetie d’omore malinconico e di pazzia, e Rasis medico comandò che e’ si curassi pe ’l coito, digiuno, ebrietà e exercitio.3 E non solamente l’amore fa diventare gli huomini quali decto abbiamo, ma etiandio quegli che sono per natura tali sono allo amore inclinati; e coloro sono tali, ne’ quali signoreggia l’omore collerico o malinconico» (Ficino 1987, p. 137). Socrate fu melanconico, proseguiva Ficino, e Socrate fu amante più di ogni altro; così fu Saffo, melanconica e innamorata, e così Virgilio, benché casto. E principio dell’amore è la morte, perché non ama chi veramente non muore, e su questo punto Lorenzo è stretto allievo di Ficino. Certo, si tratta di una morte che è vita, o almeno può esserlo, e di una perdita che è acquisto (cfr. Gigliucci Contraposti 2004, pp. 33, 75 sgg.). Ma quel che è certo è che complessione melanconica e naturale predisposizione ad amare sono tutt’uno, e il contributo di Lorenzo a questo presupposto scientifico e culturale risulta, nelle pagine che seguono e in buona parte della sua opera letteraria, davvero generoso.
Aggiungiamo in coda uno dei Trionfi allegorici del rinascimento toscano dedicato alle quattro complessioni,4 dove si osserva la conoscenza diffusa e “popolare” della dottrina umorale tetradica, con le precise corrispondenze fra gli umori, gli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), i pianeti e le stagioni. I dati caratteriali dei saturnini sono esibiti in un mélange relativamente equilibrato di positività e negatività, o quantomeno in un elenco dove non domina quasi assolutamente la negatività più spiacevole, come spesso accadeva in tante analoghe liste medievali. Naturalmente, fra gli altri attributi, i melanconici risultano anche qui «’ngegnosi».
Marsilio Ficino
Il malinconico di genio
(De vita I, 3-5)
I letterati sono soggetti a umori flemmatici e malinconici.
I letterati non si devono però limitare a prestare la massima attenzione a quelle parti del corpo e a quelle forze e a quegli spiriti;5 sono anzi invitati ad evitare sempre con estrema cautela pituita6 e bile nera, così come i naviganti si guardano da Scilla e Cariddi. Essi infatti, quanto sono inattivi col resto del corpo, altrettanto sono attivi col cervello e la mente: da ciò viene, di necessità, la pituita, che i greci chiamano flemma; da ciò la bile nera che gli stessi greci chiamano malinconia. La pituita o flemma spesso ottunde, anzi soffoca, l’ingegno;7 mentre l’umore malinconico, se è in eccesso e si infiamma, tormenta l’animo con angosce costanti e frequenti deliri e offusca la capacità di giudizio.8 Sicché si può dire con qualche fondamento che i letterati saranno sani in particolare se non li molesta la pituita;9 e saranno i più ilari10 e saggi tra tutti gli uomini, se non saranno spinti spesso ad angustiarsi e talvolta a perdere la testa per colpa del nero umore detto malinconia.
Per quali ragioni i letterati sono o diventano malinconici.
Tre tipi di cause in particolare spingono i letterati verso la malinconia: il primo è di ordine celeste, il secondo naturale, il terzo umano.
Il celeste opera perché Mercurio (che ci fornisce l’impulso all’investigazione)11 e Saturno (che ci induce a perseveranza nella ricerca del sapere e a tesaurizzazione del sapere trovato) sono freddi e in qualche misura secchi, secondo il linguaggio degli astronomi; oppure Mercurio non è freddo, ma è spesso secco al grado massimo per prossimità del Sole, proprio come è, secondo i medici, la natura malinconica:12 ed è proprio questa natura che Mercurio e lo stesso Saturno comunicano sin dall’inizio agli appassionati di lettere e ai loro seguaci, e poi mantengono ed incrementano un giorno dopo l’altro.
La causa naturale, poi, sembra essere la seguente: per conseguire le scienze, e in particolare scienze difficili, l’animo è necessitato a ritrarsi dall’esterno verso l’interno,13 come dalla circonferenza al centro, e mantenersi fermamente al centro, per così dire, dell’uomo, finché si protrae la speculazione. Ma raccogliersi al centro della circonferenza e fissarsi nel centro è proprio in particolare dell’elemento terra, cui invero la bile scura è molto simile: dunque la bile scura stimola insistentemente l’animo, affinché esso si raccolga in sé ed insista sopra di sé e si contempli; e, simile al centro del mondo, essa ...