La vita nella campagna olandese, benché serena, ha comunque i suoi lati negativi, soprattutto per chi abbia bisogno di un continuo scambio di vedute con gli altri. Quando il tempo è brutto, racconta Spinoza a Oldenburg nel novembre del 1665, si rimane confinati a Voorburg, senza potersi recare all’Aia per incontrare gente, e senza neppure poter inviare alcuna lettera. La posta, oltretutto, arriva sistematicamente in ritardo. «Questa lettera è stata scritta fin dalla settimana scorsa, ma non ebbi la possibilità di spedirla poiché il tempo non permetteva di mettersi in viaggio per L’Aia. Sono questi gli inconvenienti di abitare in campagna. Raramente mi capita di ricevere tempestivamente una lettera, perché, se non si presenta l’occasione di recapitarla in tempo, passano anche una o due settimane prima che la si possa ricevere»1. Ad ogni modo, nella casa sulla Kerkstraat, Spinoza poteva lavorare ininterrottamente, senza tutte le distrazioni che contraddistinguono la vita in una grande città.
La tranquillità di Voorburg venne turbata in effetti solo una volta, anche se forse per Spinoza lo fu per sempre, proprio mentre stava terminando il primo abbozzo dell’Etica. E l’incidente potrebbe avere influito sulla sua decisione di mettere da parte il trattato. Nel 1665 egli fu coinvolto, a quanto pare, nella locale disputa religiosa che, da un punto di vista politico e teologico, non era che il riflesso dello scisma che si diffondeva allora in tutta la società olandese. Jacob Van Oosterwijck aveva da poco abbandonato, per morte o per pensionamento, la carica di predicatore della chiesa del villaggio, presumibilmente la stessa che dava anche il nome alla via in cui si trovava l’abitazione di Daniel Tydeman. E quest’ultimo faceva parte del comitato incaricato di scegliere il nuovo predicatore. Lui, il vescovo della diocesi, Hendrick Van Gaelen, e un vescovo anteriore, tale Rotteveel, proposero ai magistrati di Delft il nome di un certo Van de Wiele, zelandese. Ma il collegiante Tydeman e i suoi colleghi di orientamento liberale, se non addirittura rimostrante, furono osteggiati dagli esponenti piú ortodossi della Chiesa, che inviarono a loro volta una proposta ai magistrati. I conservatori accusarono il comitato incaricato di provocazione premeditata, manifestando invece simpatia per un pastore di nome Westerneyn. I burgemeester della cittadina diedero infine ragione al partito dei conservatori, ma non si sa con certezza se alla fin fine Westerneyn venne nominato2. Sembra, stando alla petizione dei conservatori, che Spinoza comunque si fosse schierato dalla parte del gruppo di Tydeman, e non si può nemmeno escludere che li avesse aiutati a redigere la prima petizione3. Per molti dei suoi vicini a Voorburg, Spinoza, quest’uomo «nato da genitori ebrei», godeva però già di una certa fama ed era un elemento assai piú pericoloso per la società di quanto lo fossero i suoi complici in questa vicenda: «[Egli] è oggi (cosí si vocifera) un ateo, ossia uno che si fa beffe della religione, ed è quindi sicuramente una fonte di danno per la nostra repubblica, come molti dotti e predicatori… potranno confermare»4.
Spinoza si offendeva sempre gravemente quando lo si tacciava di ateismo. Rispondendo ad esempio alle critiche di Lambert Van Velthuysen sul Trattato teologico-politico e all’accusa da questi lanciatagli di «insegnare l’ateismo puro e semplice con argomenti furtivi e dissimulati»5, Spinoza lo denunciò di avere «frainteso in maniera perversa le mie intenzioni» e gli rinfacciò, indignato, che doveva vergognarsi di rivolgergli accuse del genere. «Se avesse saputo [che tipo di vita conduco] non si sarebbe cosí facilmente convinto che io insegni l’ateismo; giacché gli atei sogliono aspirare oltre misura agli onori e alle ricchezze, che io ho sempre disprezzato, come sanno tutti quelli che mi conoscono»6. Questa fu comunque l’etichetta che si portò dietro per lungo tempo, anche dopo la morte, sanzionata poi nel Settecento da un’autorità del calibro di Pierre Bayle, di spirito in genere tollerante. Malgrado la sua ammirazione per Spinoza, Bayle lo descrive infatti, all’inizio della voce «Spinoza» del suo Dictionnaire, come «ebreo di nascita, disertore dell’ebraismo in seguito, e a conti fatti ateo», ribadendo alla fine che il filosofo «morí da ateo sincero e convinto», pessimo esempio per tutti i seguaci.
Già piuttosto ambiguo in sé, il termine «ateo» diventa comunque singolarmente fumoso nel mutevole clima religioso dell’Olanda del Seicento. Per i cittadini osservanti di Voorburg esso significava quantomeno un atteggiamento irrispettoso nei confronti della religione. E Spinoza, di sicuro, non nutriva una grandissima stima per le istituzioni religiose, specialmente dell’epoca. Ma il filosofo, ciononostante, credeva fermamente in quella che definiva la «vera religione», dai tratti probabilmente simili a quella dei suoi amici anticonfessionali. E si risentí dunque abbastanza con Van Velthuysen quando questi lo accusò di avere «rinunciato a ogni religione». «Forse che si spoglia di ogni religione colui che afferma doversi riconoscere in Dio il sommo bene e doversi come tale amare con libero animo? E che in questo solo consiste la somma della nostra felicità e della nostra libertà?»7. Ciò che non gli piaceva semmai, e lo dice a chiare lettere, era la religione basata sulle passioni e sulla superstizione di gente come Van Velthuysen:
Credo di scorgere quanto sia basso il livello di costui. Egli, cioè, non trova nella stessa virtú e nell’intelletto nulla che lo soddisfi, e vivrebbe volentieri secondo l’impulso delle passioni, se non glielo impedisse il solo fatto che ha paura del castigo. Egli si astiene dunque dalle male azioni e osserva i divini comandamenti con la medesima riluttanza di uno schiavo e con animo titubante; e in cambio di questo servizio attende di essere colmato da Dio di ricompense assai piú ambite dello stesso amore divino, e tanto piú quanto piú è riluttante e mal disposto a fare il bene che fa: ecco perché crede spregiudicati e senza alcuna religione tutti coloro che non sono costretti da questo timore.
Il sistema filosofico di Spinoza escludeva che si potesse credere nell’esistenza di Dio? Per anni, egli lo negò in maniera ribattente e appassionata. Certo, Spinoza scoraggiava la fede in un Dio dotato delle caratteristiche normalmente attribuitegli dai teologi. Ma non aveva egli dimostrato, comunque, che tali proprietà sono incompatibili con la definizione del Dio autentico? I contemporanei, in ogni caso, non sembravano granché interessati alle possibili sfumature del suo pensiero. Erano semmai piú stuzzicati dalla fama scandalosa che circondava ormai il suo nome. Il che, tra l’altro, costrinse sempre gli amici e seguaci di Spinoza a darsi molto da fare. Un esempio tra tutti: durante il suo soggiorno nei Paesi Bassi, Gottlieb Stolle domandò a Burchard de Volder, che aveva conosciuto piuttosto bene Spinoza – e di sicuro all’epoca (1703) era colui che lo aveva conosciuto meglio – informazioni sulla sua presunta irreligiosità: «È un ateo, no?» Al che De Volder, forse esasperato da una domanda che doveva aver sentito chissà quante volte, rispose che non poteva far altro che dissentire8.
Il risentimento di Spinoza per le accuse di ateismo dovette comunque essere una delle ragioni che lo indussero a mettere momentaneamente da parte l’Etica, per lavorare invece a un trattato che affrontava direttamente le questioni politiche e teologiche. Nel settembre del 1665, Oldenburg lo prese addirittura in giro per questa decisione: «Vedo che voi, piú che filosofando, state, se cosí è lecito dire, teologizzando, con le vostre meditazioni intorno agli angeli, alle profezie e ai miracoli»9. E Spinoza, nel rispondergli, ebbe modo di illustrargli i motivi di questo cambiamento di rotta:
Sto ora componendo un trattato intorno al mio modo di intendere la Scrittura; e a farlo mi muovono: 1. I pregiudizi dei teologi, perché so che essi piú di ogni altra cosa impediscono agli uomini di applicare il loro intelletto alla filosofia, e mi propongo perciò di svelarli e di rimuoverli dalla coscienza dei saggi. 2. L’opinione che di me ha il volgo, il quale non cessa di dipingermi come ateo, onde pure mi vedo costretto a rintuzzarla per quanto mi è possibile. 3. La libertà di filosofare e di dire quello che sentiamo: libertà che io intendo difendere in tutti i modi dall’eccessiva autorità e petulanza dei predicatori10.
Il tono di Spinoza è qui ancora piuttosto contenuto. A quel tempo, infatti, egli era probabilmente scontento dell’esito che aveva avuto la vicenda di Voorburg, cosí come del pessimo trattamento riservato a lui e al suo padrone di casa da parecchia gente importante del villaggio. Forse era anche stizzito per il modo in cui i ministri della Chiesa riformata, che non godevano certo della sua stima, cercavano sempre di immischiarsi degli affari civili, qui e altrove. Ma quando l’opera uscí tuttavia – pubblicata malgrado il suo disgusto per qualsiasi «polemica» con i teologi – questo semplice scontento, a causa di certi eventi, si era ormai trasformato in un’autentica collera.
In realtà, pare che nell’autunno del 1665 Spinoza non abbia messo mano a un’attività del tutto nuova, ma abbia semmai ripreso il filo di riflessioni già avviate in passato. Tra i tanti problemi teologici e politici discussi nel Trattato teologico-politico – lo statuto e l’interpretazione delle Scritture; l’elezione del popolo ebraico; le origini dello Stato; la natura, la legittimità e i limiti dell’autorità politica e religiosa; l’imperativo della tolleranza – ve ne sono infatti alcuni che probabilmente lo avevano tenuto occupato sin dai tempi del bando dalla comunità ebraica. Le diverse testimonianze sul suo credo religioso attorno al 1655-56 provano poi tutte – se si può fare affidamento su testimonianze del genere, di solito ostili – che la sua visione delle Scritture era a quel tempo già la stessa del libro del 1670. E le notizie giunteci sull’Apologia, testo che egli avrebbe scritto subito dopo il cherem, cosí come il riferimento a un tractatus theologico-politicus della fine del 1659 o degli inizi del 1660 contenuto nella lettera di Adriaen Paets a Poelenberg11, inducono a credere che Spinoza avesse pensato sin da allora, e forse persino lavorato, a un’opera simile, almeno in parte, al futuro Trattato teologico-politico.
Non si capisce tuttavia se nella lettera, purtroppo smarrita, che si era attirata i primi commenti di Oldenburg, Spinoza fosse già sceso nei dettagli della sua concezione della Bibbia e della religione, oppure avesse accennato solo alle implicazioni teologiche della sua metafisica. La seconda ipotesi pare la piú plausibile, tenuto conto del fatto che Oldenburg, che era un cristiano devotissimo, rispose alla seconda missiva di Spinoza con il solito entusiasmo: «Approvo senza riserve i motivi dai quali dite di essere stato indotto a redigere un trattato sulla Scrittura e mi auguro vivamente di poter intanto vedere ciò che avete già scritto su questo argomento»12. Oldenburg stava aspettando un pacco che Serrarius doveva spedirgli da Amsterdam, e sperava che Spinoza potesse includervi parte del testo già scritto.
Cosa che non avrebbe dovuto scomodare piú di tanto Spinoza, visto che in quel periodo egli si trovava in città – dove, oltre a incontrare i vecchi amici, pare che si sia visto anche con Hudde e De Volder, per discutere presumibilmente di filosofia naturale e di matematica13, e dove ebbe poi l’opportunità di venire a sapere certe cose, accadute da non molto, che potevano solo confermare i suoi sospetti sul carattere superstizioso della religione «popolare».
L’anno 1666, com’era prevedibile del resto, fu investito di grandi significati. I millenaristi cristiani, sulla base di indizi numerologic...