UOMINI CHE LAVORANO, DONNE CHE SOFFRONO (E FIGLIE INCESTUOSE CHE CRESCONO)
Roberto Alonge
Dopo Shakespeare, Ibsen è l’autore più rappresentato nel mondo. Più del nostro Pirandello. Eppure, ci sono dei dettagli vistosamente datati nel suo teatro. La vicenda del più celebre dei suoi testi, Una casa di bambola, è fondata su un paio di particolari difficilmente comprensibili per la nostra sensibilità moderna: che Nora non può firmare cambiali senza la controfirma del padre (o del coniuge), e che Nora non ha accesso alla buca delle lettere, la cui chiave è monopolio del marito. Sono due dettagli che fotografano la subalternità della donna a fine Ottocento. Ma proprio gli elementi che spiegano questo anacronismo di Ibsen per noi, spiegano, al tempo stesso, la sua clamorosa attualità nel Terzo Mondo, dove è diventato un vero caso, con un fiorire furioso di studi e di ricerche. A Oslo, nel centenario della morte, agosto 2006, si è tenuto un mega-convegno internazionale largamente egemonizzato da un numero impressionante di relazioni di studiosi del Terzo Mondo. Si guardino gli atti (The Living Ibsen, Oslo, Centre for Ibsen Studies, University of Oslo 2007): su un totale di un’ottantina di papers, 22 sono del Terzo Mondo (9 su 22 della Cina), a fronte di quattro interventi italiani, uno tedesco, uno inglese, zero francese. Come dire che Ibsen è ormai scarsamente coltivato nei paesi che pure lo hanno fatto originariamente conoscere nel mondo, alla fine dell’Ottocento (appunto Francia Germania Italia Inghilterra), ma è appassionatamente amato e indagato nella periferia (sia pure ancora per poco...) dello sviluppo capitalistico. I convegni ibseniani organizzati in Cina si susseguono, anno dopo anno, in modo quasi sconcertante. A uno, tenuto a Shanghai, nel novembre 2006, ho sentito le autorità politiche proclamare che Ibsen era fondamentale per l’edificazione del comunismo in Cina. Il senso è chiaro. L’orologio della storia arriva con cento anni di ritardo rispetto all’Occidente, e rende acremente up to date tutte le problematiche della libertà dell’individuo, della liberazione della donna, dei rapporti persona – società, ecc. che hanno fatto il successo del teatro ibseniano alla fine del diciannovesimo secolo.
Ma per noi, gente dell’Occidente del terzo millennio, quale può essere ancora il senso di Ibsen? Per fornire un’idea, presentiamo qui di seguito gli interventi di quattro fra i massimi studiosi ibseniani di terra di Norvegia. Al fine di evitare il rischio di sovrapposizioni e di discorsi generali (e fatalmente anche un po’ generici), abbiamo chiesto loro di stare rigidamente agganciati ai nostri dodici testi, opportunamente distribuiti in gruppi di tre, secondo la successione cronologica. Non è una scelta arbitraria. Ibsen è autore di pochi temi, che riprende e varia continuamente, con forti connessioni interne, soprattutto fra i drammi che costruisce a poca distanza di tempo. Esaminarli terzetto dopo terzetto ha dunque un senso e una sua comodità ermeneutica indubbia.
Per parte mia mi limiterò a ripetere in maniera sintetica quanto vado rimuginando da un quarto di secolo, dalla mia antica monografia del 1984 Epopea borghese nel teatro di Ibsen. Che c’è un protagonista maschile, ed è il capitano d’industria, l’interprete dell’ideologia capitalistica negli anni feroci della fase imperialistica dello sviluppo. Di qui i suoi caratteri duri, le sue tonalità ciniche e spietate. A metterli cronologicamente in riga —i magnifici 12 testi di Ibsen — si coglie linearmente il filo del discorso. Sin dal primo dramma, I sostegni della società, il personaggio è perfettamente impostato e articolato, nel nome di Bernick, armatore e industriale. Lo ritroviamo a metà del cammino, in Werle (L’anitra selvatica), e lo vediamo trionfare nel ciclo finale (Il costruttore Solness, John Gabriel Borkman, Quando noi morti ci destiamo), sebbene il trionfo abbia le stigmate tragiche dell’esito luttuoso. Diciamolo in modo disinvolto: Ibsen racconta sempre la stessa storia. Si tratta costantemente di un uomo tutto impegnato a realizzarsi nel proprio lavoro, nella prospettiva di una solitudine esasperata, passando sul cadavere degli affetti domestici, di mogli mai amate, spesso sposate per carpirne la dote, visto che lui è quasi sempre un self-made man, di umili origini. Il sesso è un bisogno fisiologico, contrassegno di una vitalità potente, ma da sfogare tendenzialmente fuori dal matrimonio, con donne disponibili (cameriere, governanti, attrici di passaggio, ecc.).
Ma accanto a questa figura dominante ed egemone, che ha i tratti indubbi dell’Eroe (sebbene di un Eroe un po’ disumano), sta l’immagine meno intensa ma comunque sistematicamente presente dell’Anti-Eroe, sorta di caricatura dell’Eroe, figura di fallito, di emarginato, di incapace, di velleitario. Sempre seguendo l’ordine cronologico: dal dottor Stockmann di Un nemico del popolo, allo Hjalmar de L’anitra selvatica, al protagonista di Casa Rosmer, per finire ad Allmers de Il piccolo Eyolf. In un paio di questi quattro casi il personaggio si qualifica curiosamente per un convinto rifiuto del sesso: sia Rosmer che Allmers teorizzano una vita da vivere tutta intensamente in chiave platonica. È come se Ibsen fissasse una sorta di equazione impietosa: l’inettitudine sessuale è l’altra faccia della medaglia della inettitudine professionale. Senza però cadere mai nell’estremo opposto. La piena (e quasi esaustiva) dedizione alla dimensione erotica comporta parimenti un giudizio negativo, da parte di Ibsen, esattamente quanto la fanatica scelta di astinenza. Basta passarli rapidamente in rassegna i portatori di eros: Torvald di Una casa di bambola, con le sue fantasie un po’ perverse; Alving padre e figlio di Spettri, condotti alla demenza e poi alla morte dalla sifilide; Rita de Il piccolo Eyolf, marchiata praticamente come figlicida; la coppia viziosa e dissoluta di Erhart e della signora Wilton del John Gabriel Borkman.
Di contro a Anti-Eroi troppo o troppo poco coinvolti nelle pulsioni sessuali, gli Eroi praticano un giusto mezzo, che si concilia con un investimento esistenziale in direzione del sociale. Con gli uni e con gli altri si mescola però una lunga fila di personalità femminili spesso memorabili, ma sempre dolorose e doloranti, via via oppresse e represse dagli Eroi, oppure infastidite e avvilite dagli inetti e smidollati Anti-Eroi: le donne di Bernick (la moglie e la moglie mancata, Lona), Nora di Una casa di bambola, la signora Alving, la povera moglie di Stockmann, l’umile Gina de L’anitra selvatica, Rebekka di Casa Rosmer, Ellida de La signora del mare, la protagonista eponima di Hedda Gabler, la moglie del costruttore Solness, Rita, la moglie (e la mancata moglie) di Borkman, la moglie ripudiata di Quando noi morti ci destiamo. In buona sostanza tutti i 12 testi registrano la voce di una sofferenza, di una ambascia, di un patire quotidiano. Di che stupirsi, d’altra parte? L’uomo ibseniano si esprime felicemente nel lavoro, nel progetto che lo assorbe (realizzato o mancato, come Eroe o come Anti-Eroe). La donna ibseniana – come è logico nel contesto borghese di fine Ottocento – non ha un orizzonte professionale, e si dedica unicamente al proprio uomo, vive per lui e in lui. La sua missione (l’unica che possa coltivare in autonomia) è la maternità. L’Eroe (ma anche l’Anti-Eroe) lascia volentieri alla moglie la gestione dei figli, che risultano pertanto sempre come i figli della madre (e mai del padre).
Raramente però la missione materna si rivela appagante, per i contraccolpi delle infinite tensioni che si instaurano con il partner. In ogni caso solo a pochissime donne ibseniane è concessa la fortuna di una maternità soddisfatta. È un dato statistico assai impressionante. È come se Ibsen intuisse – a dispetto dei condizionamenti ideologici della civiltà vittoriana in cui pure è immerso – che la missione della maternità, per la donna, è un abito un po’ stretto. Nora ha tre figli ma non esita a piantarli, quando non si ritrova con il mondo; la signora Alving ha dovuto rinunciare alla gioia di allevare il figlio e se lo vede ritornare, da grande, inebetito dal male; Gina assiste al suicidio della figlia; la moglie di Rosmer si è annegata perché non sopportava la propria sterilità; Ellida ha partorito un figlio che assomigliava all’amante (e lo ha comunque ucciso, per così dire); Hedda è animata da un radicale rifiuto della gravidanza, sino al punto di optare per il suicidio; Aline de Il costruttore Solness ha patito la morte dei suoi gemelli, uccisi in buona sostanza dalle pulsioni inconsce del marito, ed è rimasta sterile; Rita – si è già detto – uccide praticamente il proprio figlio. La moglie di Borkman deve sopportare che il figlio sia strappato al proprio affetto, prima dalla sorella e poi dalla signora Wilton. Solo le madri de I sostegni della società e di Un nemico del popolo rivelano un profilo materno sereno o comunque normale. Che siano però due caratteri poeticamente scialbi non sembra un fatto casuale.
Delle molte donne ibseniane una mezza dozzina si stacca per forza artistica intensa e lancinante: Nora Rebekka Ellida Hedda Rita, cui va aggiunta la Hilde del Costruttore Solness. Ma tutte al di contro o al di fuori dell’orizzonte della maternità. L’infelicità di queste donne non discende dalle loro frustrazioni di madri insoddisfatte o di madri mancate. Dipende da un rapporto con l’uomo che non funziona. Ho a lungo polemizzato con il ritrattino della vulgata critica di un Ibsen femminista, perché mi premeva sottolineare la dimensione di un Ibsen cantore del capitano d’industria, ma devo riconoscere che la genialità conclusiva di Ibsen sta propriamente in questa capacità di comprendere contemporaneamente le ragioni dell’uomo e le ragioni della donna. Bisogna stare però attenti ai bilanciamenti sottili del drammaturgo, che sembra sperimentare le situazioni con lo sguardo lucido e implacabile di un piccolo dio crudele. Rebekka e Rita sono donne calde, sensuali, che si trovano alle prese con due maschi frigidi come Rosmer e Allmers. Ibsen ha volutamente creato le più appassionate e i più algidi, e li ha messi insieme, per godersi sadicamente quel che può uscirne fuori. Nora e Ellida sono donne meno calde e sensuali, ma, proprio per questo, patiscono le pretese sessuali dei loro rispettivi mariti come richi...