Illusioni perdute
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Illusioni perdute

  1. 764 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Illusioni perdute

Informazioni su questo libro

Lucien è figlio di madre nobile e padre plebeo. Sogna di essere un poeta e spera di conquistare grande considerazione sociale grazie alla letteratura. Ci riesce nella sua città di provincia, Angoulême, ma esce sconfitto nella capitale. Illusioni perdute è un po il romanzo della vita di Balzac: il giovane provinciale che giunge nella grande città non è solo ambizioso, è un aspirante scrittore che affronta la società letteraria

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817170567
eBook ISBN
9788858620090
ILLUSIONI PERDUTE
PARTE PRIMA
I DUE POETI

UNA STAMPERIA DI PROVINCIA

All’epoca in cui questa storia ha inizio, la stampa di Stanhope e i rulli per distribuire l’inchiostro non esistevano ancora nelle piccole stamperie di provincia.1 Malgrado la sua specialità che la mette in rapporto con la tipografia parigina, Angoulême si serviva ancora di torchi di legno, ai quali la lingua è debitrice dell’espressione «far gemere i torchi», ormai priva di applicazione. L’arretrata stamperia vi impiegava ancora le sfere di cuoio strofinate d’inchiostro, con le quali uno dei pressatori tamponava i caratteri. La piattaforma mobile su cui si pone la forma piena di lettere su cui si applica il foglio di carta era ancora di pietra, e giustificava il suo nome di marmo. I divoranti torchi meccanici hanno oggi fatto così ben dimenticare quel meccanismo, al quale dobbiamo, nonostante le sue imperfezioni, i bei libri degli Elzevier, dei Plantin, degli Aldo e dei Didot, che è necessario menzionare i vecchi utensili ai quali Jérôme-Nicolas Séchard portava un affetto superstizioso; infatti essi hanno il loro ruolo in questa piccola grande storia.
Questo Séchard era un vecchio aiuto pressatore, che nel loro gergo tipografico gli operai incaricati di mettere insieme le lettere chiamano un Orso. Il movimento in avanti e indietro, che somiglia a quello di un orso in gabbia, con il quale gli stampatori si spostano dal calamaio al torchio e dal torchio al calamaio, è valso loro senz’altro questo soprannome. Da parte loro, gli Orsi hanno soprannominato i compositori Scimmie, a causa del continuo esercizio che quei signori fanno per afferrare le lettere nelle centocinquanta piccole caselle in cui sono contenute. All’epoca disastrosa del 1793, Séchard, che aveva circa cinquant’anni, si ritrovò sposato. La sua età e il suo matrimonio lo fecero scampare alla grande coscrizione che portò sotto le armi quasi tutti gli operai. Il vecchio stampatore restò solo nella stamperia il cui padrone, detto anche l’Ingenuo, era appena morto, lasciando una vedova senza figli. La fabbrica sembrò minacciata da un’immediata distruzione: l’Orso solitario era incapace di trasformarsi in Scimmia; infatti, in qualità di stampatore, non seppe mai né leggere né scrivere. Senza curarsi delle sue incapacità, un rappresentante del popolo, che aveva fretta di diffondere i bei decreti della Convenzione, insignì lo stampatore del brevetto di stampatore capo, e requisì la sua tipografia. Dopo aver accettato quel rischioso brevetto, il cittadino Séchard indennizzò la vedova del suo padrone versandole le economie di sua moglie, con le quali pagò il materiale della stamperia a metà del valore. Questo non era niente. Bisognava stampare senza errori né ritardi i decreti repubblicani. In questa difficile congiuntura, Jérôme-Nicolas Séchard ebbe la fortuna di incontrare un nobile marsigliese che non voleva né emigrare, per non perdere le sue terre, né farsi vedere per non perdere la testa, e che poteva procurarsi il pane solo con un lavoro qualsiasi. Il conte di Maucombe2 indossò dunque l’umile abito di un proto di provincia: compose, lesse e corresse personalmente i decreti che prescrivevano la pena di morte per i cittadini che nascondevano i nobili; l’Orso, divenuto Ingenuo, li tirò, li fece affiggere; e furono tutti e due sani e salvi. Nel 1795, passata la burrasca del Terrore, Nicolas Séchard fu costretto a cercare un altro merlo che potesse fare da compositore, correttore e proto. Un abate, poi vescovo al tempo della Restaurazione e che rifiutava allora di prestare il giuramento, sostituì il conte di Maucombe fino al giorno in cui il Primo Console ristabilì la religione cattolica. Il conte e il vescovo si incontrarono più tardi sullo stesso banco della Camera dei Pari. Se nel 1802 Jérôme-Nicolas Séchard non sapeva leggere e scrivere meglio che nel 1793, si era però procurato un bel po’ di stoffe2bis per potersi pagare un proto. L’aiutante così incurante del suo avvenire era divenuto molto temibile per i suoi Orsi e le sue Scimmie. L’avarizia comincia dove la povertà finisce. Il giorno in cui lo stampatore intravide la possibilità di farsi una fortuna, l’interesse sviluppò in lui una intelligenza materiale del proprio stato, ma avida, sospettosa e penetrante. La sua pratica sfidava la teoria. Era arrivato a valutare con un colpo d’occhio il prezzo di una pagina e di un foglio secondo le varie specie di caratteri. Provava ai suoi ignari clienti che costava di più spostare le lettere grandi che le piccole; se si trattava delle piccole, diceva che erano più difficili da maneggiare. Essendo la composizione la parte della tipografia di cui non capiva niente, aveva un tale timore di sbagliarsi, che faceva sempre affari leonini. Se i suoi compositori lavoravano a ore, il suo occhio non li abbandonava mai. Se sapeva che un fabbricante si trovava in difficoltà, acquistava le sue carte a basso costo e le immagazzinava. Così a quel tempo possedeva già la casa in cui la stamperia era alloggiata da tempo immemorabile. Ebbe ogni genere di fortuna: diventò vedovo e non ebbe che un figlio; lo mise al liceo in città, più per prepararsi un successore che per dargli un’educazione; lo trattava severamente, per prolungare la durata del suo potere paterno; così, nei giorni di vacanza lo faceva lavorare al casellario, e gli diceva di imparare a guadagnarsi la vita per poter un giorno ricompensare il povero padre, che si dissanguava per allevarlo. Partito l’abate, Séchard scelse come proto fra i quattro compositori che il futuro vescovo gli segnalò, quello che aveva altrettanta probità che intelligenza. Di conseguenza il brav’uomo fu in grado di arrivare fino al momento in cui suo figlio avrebbe potuto dirigere lo stabilimento, che si sarebbe allora ingrandito in mani giovani e abili. David Séchard compì al liceo di Angoulême studi brillantissimi. Benché un Orso, arricchitosi senza competenze e senza educazione, disprezzasse considerevolmente la scienza, papà Séchard mandò suo figlio a Parigi per studiarvi l’alta tipografia; ma gli raccomandò violentemente di ammassare una bella somma in un paese che chiamava il paradiso degli operai, dicendogli di non contare sulla borsa paterna, perché vedeva indubbiamente, in quel soggiorno nel paese della sapienza, un mezzo per arrivare ai propri fini. Imparando il suo mestiere, David completò la sua educazione a Parigi. Il proto dei Didot3 diventò uno scienziato. Verso la fine del 1819, David Séchard lasciò Parigi senza esser costato una lira bucata a suo padre, che lo richiamava per passargli il timone degli affari. La stamperia di Nicolas Séchard possedeva allora l’unico giornale di avvisi giudiziari che esistesse nel dipartimento, lavorava per la prefettura e per il vescovado, tre clientele che avrebbero procurato una grande fortuna ad un giovanotto attivo.
Proprio a quell’epoca, i fratelli Cointet, fabbricanti di carte, comprarono il secondo brevetto di stampatore residente in Angoulême, che fino ad allora il vecchio Séchard aveva saputo ridurre alla più completa inattività con il favore delle crisi militari che, sotto l’Impero, soffocarono ogni iniziativa industriale; per questa ragione non l’aveva mai comprato, e la sua parsimonia fu una causa di rovina per la vecchia stamperia. Quando apprese la notizia, il vecchio Séchard pensò tutto contento che la lotta che stava per stabilirsi fra il suo stabilimento e i Cointet sarebbe stata sostenuta da suo figlio e non da lui. «Io non ce l’avrei fatta» si disse «mentre un giovanotto cresciuto dai Didot saprà venirne fuori.» Il settuagenario anelava al momento in cui avrebbe potuto vivere a modo suo. Se aveva scarse conoscenze dell’alta tipografia, in compenso passava per essere estremamente ferrato in un’arte che gli operai hanno scherzosamente chiamato sbronzografia, arte stimatissima presso il divino autore di Pantagruel, ma la cui cultura, osteggiata dalle società dette di temperanza, è di giorno in giorno più trascurata. Jérôme-Nicolas Séchard, fedele al destino che il suo nome gli aveva creato,4 era dotato di una sete inestinguibile. Sua moglie aveva per molto tempo contenuto entro giusti limiti quella passione per l’uva pestata, gusto tanto naturale per gli Orsi che Chateaubriand5 lo ha riscontrato negli orsi veri dell’America; ma i filosofi hanno osservato che le abitudini dell’età giovanile ritornano con forza nella vecchiaia dell’uomo. Séchard confermava questa legge morale: più invecchiava, più gli piaceva bere. La sua passione lasciava, sulla sua fisionomia orsina, dei segni che la rendevano originale: il naso aveva assunto lo sviluppo e la forma di una A maiuscola, in corpo triplo, le due guance venate somigliavano a quelle foglie di vigna piene di gibbosità violacee, porporine e spesso variegate; lo avreste detto un tartufo mostruoso avvolto dai pampini dell’autunno. Nascosti sotto due grosse sopracciglia simili a due cespugli carichi di neve, i suoi piccoli occhi grigi, in cui zampillava l’astuzia di un’avarizia che in lui uccideva tutto, anche la paternità, conservavano il loro spirito fin nell’ubriachezza. La sua testa calva e sfrondata, ma cinta di capelli grigiastri che ancora s’increspavano, riportava alla mente i Cordiglieri dei Racconti di La Fontaine.6 Era corto e panciuto come molte di quelle vecchie lanterne che consumano più olio che stoppino; infatti, in ogni cosa, gli eccessi spingono il corpo sulla via che gli è propria. L’ubriachezza, come lo studio, fa ingrassare ancor più l’uomo grasso, e fa dimagrire quello magro. Jérôme-Nicolas Séchard portava da trent’anni il famoso tricorno municipale che in alcune province si vede ancora sulla testa del banditore comunale. Il suo panciotto e i pantaloni erano di velluto verdastro. Infine, portava una vecchia redingote scura, calze di cotone chiné e scarpe con fibbie d’argento. Questo costume, in cui l’operaio si distingueva ancora nel borghese, si adattava così bene ai suoi vizi e alle sue abitudini, esprimeva così bene la sua vita, che quel brav’uomo sembrava esser stato creato tutto vestito: non l’avreste immaginato senza abiti, non più di una cipolla senza la sua buccia. Se il vecchio stampatore non avesse già da tempo mostrato la misura della sua cieca avidità, la sua abdicazione basterebbe a dipingere il suo carattere. Malgrado le conoscenze che suo figlio aveva riportato dalla grande scuola dei Didot, si ripropose di fare con lui il buon affare che ruminava da tempo. Se era buono per il padre, era cattivo per il figlio. Ma, per il brav’uomo, in affari non c’erano né padre né figlio. Se in un primo tempo aveva visto in David il suo unico figlio, più tardi vide in lui un acquirente naturale, i cui interessi erano opposti ai suoi: lui voleva vender caro, David doveva acquistare a buon mercato; suo figlio diventava dunque un nemico da battere. Questa trasformazione del sentimento in interesse personale, di solito lenta, tortuosa e ipocrita presso le persone beneducate, fu rapida e diretta nel vecchio Orso, che dimostrò come la sbronzografia astuta avesse il sopravvento sulla tipografia istruita. Quando il figlio arrivò, il brav’uomo gli dimostrò la tenerezza commerciale che i tipi abili hanno per i loro zimbelli: si occupò di lui come un amante si sarebbe occupato della propria amica; gli diede il braccio, gli indicò dove mettere il piede per non infangarsi; gli aveva fatto scaldare il letto, accendere il fuoco, preparare una cena. Il giorno seguente, dopo aver cercato di ubriacare il figlio durante un generoso pranzo, Jérôme-Nicolas Séchard, fortemente avvinazzato, gli disse un: «Parliamo d’affari?» che passò così singolarmente tra due singhiozzi, che David lo pregò di rimandare gli affari al giorno dopo. Il vecchio Orso sapeva trar partito troppo bene dalla sua ubriachezza per abbandonare una battaglia preparata da così tanto tempo. D’altronde, dopo aver portato la sua palla al piede per cinquant’anni, non voleva, così disse, tenersela un’ora di più. Il giorno dopo suo figlio sarebbe stato l’Ingenuo.
A questo punto è forse necessario dire una parola sullo stabilimento. La stamperia, situata nel punto in cui rue de Beaulieu sbocca sulla place du Mûrier,7 si era stabilita in quella casa verso la fine del regno di Luigi XIV. Da molto tempo, dunque, gli spazi erano stati disposti in funzione dello sfruttamento di quell’industria. Il pianterreno formava un vano immenso illuminato sulla strada da una vecchia vetrata, e da una grande finestra su un cortile interno. Si poteva inoltre raggiungere l’ufficio del padrone da un viale. Ma in provincia i procedimenti della tipografia sono sempre oggetto di una così viva curiosità, che i clienti preferivano piuttosto entrare per una porta a vetri aperta sulla facciata che dava sulla strada, anche se bisognava scendere qualche gradino, poiché il pavimento del laboratorio si trovava al di sotto del livello del pianterreno. I curiosi, sbalorditi, non facevano mai caso agli inconvenienti dell’attraversamento dei passaggi del laboratorio. Se guardavano le culle formate dai fogli distesi sulle corde fissate al soffitto, urtavano lungo le file di casellari, o si facevano spettinare dalle sbarre di ferro che mantenevano i torchi. Se seguivano gli agili movimenti di un compositore che racimolava le sue lettere nei centocinquantadue cassettini del suo casellario, leggendo la sua copia, rileggendo il suo rigo nel suo compositoio facendovi scivolare un’interlinea, finivano contro una risma di carta bagnata carica di selci, o s’incastravano con il fianco nell’angolo di un bancone; il tutto con gran divertimento di Scimmie e Orsi: mai nessuno era arrivato indenne fino alle due grandi gabbie poste alla fine di quella caverna, che formavano due miseri padiglioni sul cortile, e dove troneggiavano da un lato il proto, dall’altro il maestro stampatore. Nel cortile i muri erano gradevolmente abbelliti da pergole che, data la reputazione del padrone, avevano un appetitoso colore locale. Nel fondo e addossata al nero muro divisorio, s’innalzava una tettoia in rovina dove la carta veniva bagnata e lavorata. Là era l’acquaio su cui si lavavano, prima e dopo la tiratura, le forme, o, per usare l’espressione comune, le tavole dei caratteri; ne veniva fuori un decotto d’inchiostro, mescolato alle acque di scarico dell’abitazione, che faceva pensare ai contadini venuti il giorno di mercato che il diavolo si lavasse in quella casa. La tettoia era fiancheggiata da un lato dalla cucina, dall’altro da una legnaia. Il primo piano della casa, al di sopra del quale non c’erano che due camere a mansarda, comprendeva tre stanze. La prima, lunga quanto il viale, meno la tromba della vecchia scala di legno, illuminata sulla strada da una piccola finestra oblunga, e sul cortile da un occhio di bue, serviva sia da anticamera che da sala da pranzo. Imbiancata a calce in modo puro e semplice, si faceva notare per la cinica semplicità dell’avarizia commerciale; il lurido pavimento non era mai stato lavato; il mobilio consisteva in tre brutte sedie, un tavolo rotondo e una credenza situata tra due porte che davano su una camera da letto e un salotto; le finestre e la porta erano nere di grasso; fogli bianchi o stampati la ingombravano per la maggior parte del tempo; spesso il dessert, le bottiglie, i piatti del pranzo di Jérôme-Nicolas Séchard erano visibili sui pacchi. La camera da letto, la cui finestra aveva una vetrata di piombo che prendeva luce dal cortile, era ricoperta da quelle vecchie tappezzerie che si vedono in provincia lungo le case nel giorno del Corpus Domini. Vi si trovava un gran letto a colonne guarnito di tende, gale e un copripiedi di serge rosso, due poltrone tarlate, due sedie in legno di noce e stoffa, un vecchio stipo, e una pendola sul caminetto. Questa camera, in cui si respirava una bonomia patriarcale e piena di tinte scure, era stata arredata dal signor Rouzeau, predecessore e padrone di Jérôme-Nicolas Séchard. Il salotto, riammodernato dalla defunta signora Séchard, mostrava spaventose boiseries dipinte in un blu da parruccaio; i pannelli erano decorati da una carta con scene orientali, colorate con bistro su uno sfondo bianco; la mobilia consisteva in sei sedie guarnite di bazzana blu, le cui spalliere rappresentavano delle lire. Le due finestre, grossolanamente incurvate ad arco, e attraverso le quali l’occhio abbracciava la place du Mûrier, erano prive di tende; il caminetto non aveva né candelieri, né pendola, né specchio. La signora Séchard era morta nel bel mezzo dei suoi progetti di abbellimento, e l’Orso, che non vedeva l’utilità di miglioramenti da cui non si ricavava nulla, li aveva abbandonati. Fu là che, pede titubante, Jérôme-Nicolas Séchard condusse suo figlio e gli mostrò sul tavolo rotondo una distinta del materiale della tipografia stilato dal proto sotto la sua direzione.
«Leggi questo, ragazzo mio» disse Jérôme-Nicolas Séchard facendo scorrere i suoi occhi ubriachi dalla carta a suo figlio e da suo figlio alla carta «vedrai che gioiello di stamperia ti do.»
«Tre torchi di legno mantenuti da sbarre di ferro, con piano di ghisa…»
«Un miglio...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. Storia del testo
  6. Indicazioni bibliografiche
  7. Illusioni perdute