Architettura Open Source
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Architettura Open Source

Verso una progettazione aperta

  1. 152 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Architettura Open Source

Verso una progettazione aperta

Informazioni su questo libro

La figura dell'architetto-eroe ha segnato gran parte della storia dell'architettura del Novecento. Ma non è sempre stato cosí: in passato il modo di progettare e costruire case e città è spesso avvenuto con metodi collaborativi, idee sviluppate dal basso piú che imposte dall'alto. Qualcosa di simile sta accadendo oggi, sull'onda del movimento Open Source e dei nuovi modelli di partecipazione in rete. Si tratta potenzialmente di una vera rivoluzione nel campo dell'architettura e del design. La esplorano Carlo Ratti e Matthew Claudel, partendo dalle trasformazioni in atto e gettando le basi per un modo nuovo di progettare «dal cucchiaio alla città».
Testo rivisto e accresciuto in modalità Open Source con Ethel Baraona Pohl, Assaf Biderman, Michele Bonino, Ricky Burdett, Pierre-Alain Croset, Keller Easterling, Giuliano da Empoli, Joseph Grima, John Habraken, Alex Haw, Hans Ulrich Obrist, Alastair Parvin, Antoine Picon, Tamar Shafrir.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806214272

Architettura Open Source

Capitolo primo

L’architetto prometeico: un eroe modernista

Il primo diritto sulla terra è il diritto dell’Io.
AYN RAND, The Soul of an Individualist 1.
La mano di Le Corbusier è sospesa con la stessa rilassata sicurezza del dio michelangiolesco creatore di Adamo: è la mano dell’artista, che infonde la scintilla vitale a un mondo nuovo.
La visione di Le Corbusier vide la luce in una fresca giornata d’autunno del 1925, all’Exposition des Arts Décoratifs di Parigi. Due plastici enormi, ciascuno di cento metri quadrati, mostravano la Ville Contemporaine (1922) dell’architetto svizzero, una città moderna per tre milioni di abitanti, e il Plan Voisin, un quartiere direzionale nel cuore di Parigi.
L’opera non faceva parte di una mostra piú ampia e non era nemmeno esposta in una sala già esistente. Poteva solamente essere presentata in una struttura a sé stante, che egli chiamò Le Pavillon de l’Esprit Nouveau, il «Padiglione dello Spirito Nuovo». Autonomia, libertà, affrancamento dai riferimenti culturali e dai mezzi espositivi tradizionali: come ebbe a dire lo stesso Le Corbusier «la vita moderna chiede, attende un piano nuovo»2. Non era «architettura» secondo nessuna definizione tradizionale, cosí come non era progetto o edificio o astrusa teoria. Qui, dopo il suo manifesto incendiario – Architettura o rivoluzione! –, la parola di Le Corbusier si era fatta carne.
Il concetto della Ville Contemporaine era semplice: cancellare da Parigi le dense incrostazioni abitative del passato, conservando come unica memoria la cattedrale di Notre-Dame. I progressi della tecnologia avrebbero inaugurato un’epoca di edifici funzionali ed efficienti, pronti a migliorare le condizioni di vita dell’umanità. Questa città del futuro sarebbe stata realizzata sotto forma di «grattacieli cartesiani» disposti in una griglia ortogonale sulla tabula rasa di una città prima intasata, improduttiva e avviata alla decomposizione sociale.
Considerato nel suo complesso, il Pavillon de l’Esprit Nouveau era una manifestazione paradigmatica dell’«architettura come teoria sociale» di Le Corbusier. «Alle pareti erano appesi piani metodicamente realizzati per grattacieli cartesiani, colonie abitative con piani sfalsati, e un’intera gamma di tipi nuovi per l’architettura, frutto di una mente che era alle prese con i problemi del futuro»3. Tali visioni, tanto ampie da contenere modi di abitare completamente nuovi, erano frutto della mano feconda di un unico architetto.
L’eco della voce di Le Corbusier risuonò nell’architettura, nell’arredamento, nella teoria, attraversando il funzionamento stesso della società. Egli sognava di far diventare realtà una nuova produzione di massa, creando forme pure di qualsiasi dimensione per una vita standardizzata e idealizzata, e aveva capito che «la sfera dell’architettura abbraccia ogni dettaglio dell’arredamento domestico, dalla strada alla casa, e un mondo piú ampio al di là di entrambe»4. Quando arrivò il momento di creare un contesto per il vivere umano, Le Corbusier non poté trattenersi, non poté fermarsi il settimo giorno a riposare. Tentò di creare «un’altra città per un’altra vita», come propose Constant Nieuwenhuys svariati decenni dopo5, e diffuse quell’idea con entusiasmo, per mezzo di edifici e scritti. La genialità della sua Ville Contemporaine era nel modo in cui ciascun elemento si adattava perfettamente all’altro, formando un insieme efficace, coeso, senza soluzione di continuità: un insieme che poteva essere ampliato e replicato all’infinito.
Lo svizzero aveva creato un meccanismo a orologeria, un’elegante macchina sociale con ingranaggi e rotelle di architettura. Come scrisse Tom Wolfe, «Le Corbusier. Il signor Purismo. […] Costruí una Città Radiosa dentro il proprio cranio»6.
Ciò che Le Corbusier realizzò con slancio ed eleganza (l’onnipotenza architettonica, reale o retorica che fosse) fu la quintessenza delle finalità del Movimento moderno. Il movimento sognava di accrescere il ruolo dell’architetto e si batté per questo: nei decenni che condussero alla Seconda guerra mondiale e in quelli immediatamente a seguire esso ebbe tra le mani il potere di influenzare in misura spropositata tutti gli aspetti della condizione umana. La nascita del welfare state, favorita dall’economia politica novecentesca, fu il motore di uno sviluppo centralista, dall’alto7. E, sulla base di questa spinta, l’architetto non si occupò piú solo della costruzione di edifici iconici, ma fece suo un ambito che abbracciava l’intera esistenza umana, inclusi i suoi aspetti piú basilari e banali. Si occupò di reinventare la società stessa.
Ai primi del Novecento, nell’epoca in cui era attivo Le Corbusier, molti credevano che la cultura europea fosse stata distrutta dalle guerre, oppure fosse talmente ingombra di detriti nostalgici da essere inabitabile. Fu questo il terreno su cui atterrò l’architetto prometeico, facendosi portavoce di un modo di progettare dall’alto, onnicomprensivo: tutto funzionava. Anzi, non solo funzionava, ma ticchettava senza sforzo con la grazia disinvolta della razionalità pura: fu questa l’autorità che Le Corbusier assunse il giorno in cui svelò il suo Pavillon, e in quella mano sospesa c’era l’annuncio di una visione pura, determinata… la società non poteva far altro che adeguarsi.
L’ascesa di Le Corbusier al trono del Movimento moderno, tuttavia, suggellò un impulso che aveva attraversato un’intera epoca. L’idea di orchestrare la società per mezzo di un ambiente progettato in ogni sua parte risale come minimo all’architetto francese del XVIII secolo Claude-Nicolas Ledoux, il quale, non casualmente, scrisse un libro intitolato L’architecture considérée sous le rapport de l’art, des mœurs et de la législation8. Su mandato del re, Ledoux fece vedere i muscoli, autorialmente parlando, e allargò i confini della professione architettonica.
Il suo capolavoro furono le saline reali di Chaux, che divennero l’archetipo della pianificazione delle città ideali durante l’èra industriale. Per com’era organizzato e decorato, il complesso esprimeva il dominio della razionalità umana sulle forze brute della natura: era l’incarnazione del pensiero dei filosofi francesi dell’epoca e affondava le radici nelle loro idee sulla struttura naturale dell’universo e della società. L’architettura era al tempo stesso fisica e metafisica. La pianta delle saline, ad esempio, è semicircolare: da un lato rappresenta la purezza geometrica, dall’altro consente al sorvegliante (la cui casa è nel centro) un dominio visivo ottimale. Ledoux vedeva la salina come formata da due sistemi interdipendenti e da due geometrie: la direzione amministrativa, di cui facevano parte il sorvegliante e gli agenti del dazio, collocati lungo il diametro del semicerchio, e le abitazioni degli operai, disposte lungo il perimetro. Linea e arco.
Ciascun edificio esprimeva chiaramente la sua funzione attraverso il proprio aspetto: un concetto architettonico attribuito a Ledoux e noto come architecture parlante9. L’aspetto della casa del direttore è quello della casa di un’autorità, le case degli operai hanno l’aspetto di case per operai. La dimora del sorvegliante nei pressi del fiume ha l’aspetto di un’enorme valvola idrica: una guarnizione architettonica letteralmente attraversata dalle acque. L’Oïkema, la «casa del piacere» è il fallo della salina (mai realizzato, purtroppo: quale perdita per il divertimento delle future generazioni di studenti di architettura!)
Per Ledoux l’architettura era al tempo stesso uno strumento industriale, sociale ed estetico, un attacco a tutta forza con l’artiglieria della razionalità verso l’edilizia non pianificata10. Se dal punto di vista funzionale il progetto produceva sale, concettualmente organizzava gli uomini in un marchingegno meccanicistico simile, in modo frattale, all’intero universo (in fin dei conti stiamo parlando della società industriale francese di Cartesio).
L’atto di creare intere città, tuttavia, e in particolare l’archetipo di una società utopica fondata sul progetto, travalicò la temperie filosofica e politica della Francia settecentesca. Diversi anni dopo Ledoux, Charles Fourier ideò il falansterio (1822)11: una comunità autonoma di circa millecinquecento persone che lavoravano insieme per il bene comune: un microcosmo sociale che poteva essere ripetuto all’infinito. Quel progetto aveva a che fare tanto con l’architettura quanto con le scienze sociali, e Fourier ne descrisse i dettagli nella sua rivista «Le Phalanstère»12: la struttura non era che la semplice manifestazione fisica dell’organizzazione sociale. Si andava profilando l’idea che l’architettura fosse in grado di influenzare la condizione umana in tutti i suoi aspetti, dalle funzioni quotidiane del singolo individuo, ai meccanismi sociali nel loro complesso.
Di là della Manica, negli stessi anni, il filosofo inglese Jeremy Bentham scriveva con enfasi: «La morale riformata, la salute preservata, l’industria rinvigorita, l’istruzione diffusa, le cariche pubbliche alleggerite, l’economia stabile come su di una roccia, il nodo gordiano delle leggi di assistenza pubblica non tagliato ma sciolto – tutto questo con una semplice idea architettonica!»13. Una visione audace, che Bentham intendeva realizzare creando un nuovo ordine funzionale tra le pareti di un carcere: il Panopticon14. Il titolo completo dei Panopticon Writings annuncia che il nuovo modello contiene «l’idea di un nuovo principio costruttivo, applicabile a qualunque genere di struttura in cui sia necessario tenere sotto ispezione persone di ogni sorta […] con una gestione del piano adattata al principio»15. Proprio come le saline di Chaux avevano coniugato geometria e struttura sociale, il «nuovo principio costruttivo» di Bentham disponeva le celle della prigione (ma potrebbero essere anche le camere di un ospedale, o i banchi di una scuola) lungo il perimetro di un cerchio perfetto, nel cui centro (della pianta e del prospetto) sorgeva una casa d’ispezione. Il sorvegliante era in grado di vedere i reclusi in ogni momento, a loro insaputa (e, di conseguenza, non aveva bisogno di tenerli d’occhio costantemente), e i prigionieri svolgevano nel frattempo vari lavori, cosí da permettere al carcere di ricavare anche un profitto. Come il falansterio idealizzato di Fourier, il Panopticon era un’ecosfera completa in se stessa, magari un’ecosfera totalitaria, ma comunque un’architettura di derivazione sociale.
La visione della città come struttura sociale fondata sul progetto fu ereditata dai successivi movimenti radicali del Novecento, i quali operarono nella dimensione sociale, politica ed economica, fino nei dettagli infinitesimali della cultura e dell’estetica. Fu l’apoteosi del Gesamtkunstwerk, un termine tedesco adottato quasi un secolo prima dal compositore Richard Wagner16 per descrivere un’opera d’arte onnicomprensiva, totale. Il modernista solitario e visionario si trovò a progettare, per esempio, non solo un edificio per uffici, ma anche le scrivanie degli impiegati, i loro mezzi di trasporto, le ca...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Architettura Open Source
  3. Nota degli autori
  4. Architettura Open Source
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Copyright