Le avventure di Robinson Crusoe (Einaudi)
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Le avventure di Robinson Crusoe (Einaudi)

seguite da «Le ulteriori avventure» e «Serie riflessioni»

  1. 752 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le avventure di Robinson Crusoe (Einaudi)

seguite da «Le ulteriori avventure» e «Serie riflessioni»

Informazioni su questo libro

Un successo immediato accolse fin dalla prima edizione Le straordinarie e sorprendenti avventure di Robinson Crusoe. Nei quasi trent'anni trascorsi lontano da ogni forma di civiltà, Robinson costruisce, coltiva, caccia, assegna nomi, ripercorrendo in sostanza la storia del genere umano. La forza di suggestione di quelle pagine è tale da aver oscurato tutto il resto, e forse pochi saprebbero dire, a dispetto della notorietà della vicenda, che cosa avvenne prima e dopo il fatidico naufragio.
Dall'universo letterario Robinson Crusoe è passato rapidamente a quello del mito, e tuttavia questo non esaurisce il progetto dell'opera. Robinson, infatti, protagonista di una biografia in due tempi, fa ritorno nelle Ulteriori avventure alla sua isola di Speranza, di cui fu già king and lord. Qui ricomposto, il grande affresco di Robinson si arricchisce per la prima volta anche della traduzione italiana delle Serie riflessioni, in cui lo stesso personaggio rievoca e commenta in chiave morale alcuni episodi del libro.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806194642
eBook ISBN
9788858415351
LA VITA
E LE STRAORDINARIE SORPRENDENTI AVVENTURE
DI
ROBINSON CRUSOE
DI YORK,
MARINAIO CHE VISSE VENTOTTO ANNI TUTTO SOLO
SU UN’ISOLA DISABITATA PRESSO LE COSTE DELL’AMERICA,
VICINO ALLA FOCE DEL GRANDE FIUME ORINOCO;
ESSENDO STATO GETTATO SULLA SPIAGGIA DA UN NAUFRAGIO
NEL QUALE PERIRONO TUTTI ECCETTO LUI;
COL RACCONTO DI COME FU ALLA FINE LIBERATO
ALTRETTANTO STRAORDINARIAMENTE DA PIRATI.
SCRITTA DA LUI MEDESIMO.

Prefazione

Se mai racconto delle avventure nel mondo d’un uomo privato meritò d’essere reso pubblico e, una volta pubblicato, risultò accettabile, tale, a giudizio dell’editore, sarà questa storia.
Le meraviglie della vita di quest’uomo superano (egli crede) tutto quanto è stato pubblicato sinora; a stento la vita di un singolo uomo può contenerne una maggiore varietà.
La storia è raccontata con sobrietà, serietà e applicando con sentimento religioso gli eventi ai fini ai quali i saggi sempre li applicano, cioè a insegnare agli altri con l’esempio, e a giustificare e onorare la saggezza della Provvidenza nelle nostre piú varie circostanze, comunque si presentino1.
L’editore crede che questa sia una verace storia di fatti, né v’è in essa sembianza alcuna di finzione; e comunque pensa che, poiché tali cose sono sempre incerte, il profitto di essa, sia per il diletto sia per l’ammaestramento del lettore, sarà uguale, e pertanto crede, senza ulteriori complimenti al mondo, di rendergli un grande servigio pubblicandola.
1 Eco di Milton, Paradise Lost, I.25-26: «[affinché] io possa affermare la Provvidenza Eterna, / e giustificare agli uomini le vie del Signore».

Sono nato nel 1632 nella città di York da una buona famiglia, sebbene non di quella regione, perché mio padre era straniero, di Brema, e s’era prima stabilito a Hull. Poi, essendosi fatto un buon patrimonio con la mercatura, aveva cessato dal commercio ed era andato a vivere a York, la città di mia madre, i cui parenti si chiamavano Robinson, un’ottima famiglia di quelle parti, e dai quali io presi il nome di Robinson Kreutznaer; ma, per la corruzione dei nomi frequente in Inghilterra, ora ci chiamano, anzi noi stessi ci chiamiamo e firmiamo con questo nome, Crusoe2, e cosí mi hanno sempre chiamato i miei compagni.
Avevo due fratelli maggiori di me: uno era tenente colonnello in un reggimento di fanteria operante nelle Fiandre, già comandato dal famoso colonnello Lockhart, e restò ucciso combattendo contro gli spagnoli a Dunquerque3. Che ne sia stato dell’altro mio fratello, non ho mai saputo, non piú di quanto abbiano mai saputo della mia sorte mio padre e mia madre.
Essendo il terzo figlio della famiglia, non indirizzato ad alcun mestiere, molto presto la mia testa cominciò a riempirsi di progetti di andare per il mondo. Mio padre, il quale era in età assai avanzata, mi aveva dato un’adeguata istruzione, fin dove può arrivare in genere un’istruzione casalinga o quella che si riceve nelle nostre scuole gratuite di provincia, e voleva avviarmi alla carriera legale; ma io non volevo saperne d’altro che di andare per mare, e questa mia inclinazione mi portava a contrastare con tanta forza la volontà, anzi gli ordini di mio padre, e tutte le preghiere e i tentativi di persuasione di mia madre e dei miei amici, che sembrava ci fosse qualcosa di fatale in quella mia propensione naturale, la quale tendeva direttamente a quella vita di miseria che doveva poi toccarmi.
Mio padre, uomo saggio e grave, tentò con ottimi e seri consigli di dissuadermi da quello che indovinava essere il mio intento. Una mattina mi mandò a chiamare in camera sua, dove era confinato dalla gotta, e mi ragionò su tale argomento con molto calore. Mi domandò quali motivi io avessi, se non una semplice inclinazione a fare il giramondo, per lasciare la casa paterna e il paese natio, dove avrei potuto essere ben avviato e dove avevo buone probabilità di migliorare il mio stato con l’applicazione e l’operosità, e fare una vita agiata e felice. Mi disse che era da uomini disperati, per un verso, o ambiziosi e che aspiravano a posizioni elevate, per l’altro, tentare la ventura in paesi stranieri per portarsi in alto con l’intraprendenza e farsi una fama con imprese fuori del comune; che queste cose erano o troppo al di sopra delle mie possibilità, o troppo al di sotto; che la mia era la condizione media, o, come potrebbe chiamarsi, lo strato piú alto della bassa società, che egli aveva appreso, per lunga esperienza, essere la migliore condizione al mondo, la piú propizia alla felicità umana, non soggetta alle miserie e ai sacrifici, alle fatiche e alle sofferenze di quella parte dell’umanità destinata al lavoro manuale, e nello stesso tempo libera dai fastidi dell’orgoglio, del lusso, dell’ambizione e dell’invidia, ai quali sono esposte le classi piú elevate. Mi disse che potevo giudicare della felicità di tale condizione da questo solo fatto, cioè che era invidiata da tutti gli altri; perché i re si sono spesso lamentati delle sfortunate conseguenze del nascere destinati alle grandi cose, e avrebbero voluto essere messi in una posizione intermedia tra i due estremi, tra gli umili e i grandi; e il saggio, col supplicare dal Cielo di non avere né la povertà né la ricchezza, testimoniava che questa era la giusta misura della vera felicità4.
Mi disse che, se avessi voluto osservare, avrei potuto notare come le calamità della vita fossero divise tra gli strati piú alti e piú bassi dell’umanità, ma che la condizione media era quella che subiva meno disastri ed era esposta a meno vicissitudini sia delle classi alte che delle classi inferiori. Anzi, non si era soggetti a tanti malanni e tanta inquietudine, fosse di corpo o di spirito, come coloro che con una vita di vizio, di lusso e di sregolatezze, o altri facendo una vita di duro lavoro e di privazioni, con alimentazione povera o insufficiente, si cagionavano infermità che erano conseguenze naturali del loro modo di vivere. Mi disse che la condizione media si confaceva a ogni specie di virtú e a ogni specie di godimenti; che la pace e l’abbondanza erano le ancelle della media fortuna; che la temperanza, la moderazione, la tranquillità, la salute, le amicizie, tutti gli svaghi dilettevoli e tutti i piaceri desiderabili erano i doni che il Cielo riservava alla condizione media della vita; che in questo modo gli uomini facevano la loro strada per il mondo in silenzio e senza scosse, e ne uscivano tranquillamente, non gravati dal peso delle fatiche manuali o mentali, non venduti a una vita di schiavitú per il pane quotidiano, liberi dal fardello delle ansietà che tolgono la pace all’anima e il riposo al corpo; che non erano rosi dalla passione dell’invidia o dalla segreta, ardente febbre dell’ambizione per le grandi cose, ma passavano placidamente la vita negli agi, gustandone con saggia moderazione la dolcezza, senza assaporarne l’amaro, sentendo di essere felici e imparando sempre piú ad esserlo con l’esperienza di ogni giorno.
Dopo questi ragionamenti mi rivolse la piú calda, la piú affettuosa esortazione a non fare il ragazzo, a non gettarmi nelle miserie, dalle quali la natura e la condizione sociale in cui ero nato sembrava mi avessero preservato; che non avevo bisogno di andare a cercarmi il pane; che lui avrebbe provveduto bene a me e avrebbe fatto tutto quello ch’era in suo potere per collocarmi convenientemente nella condizione sociale che m’era venuto raccomandando; e che solo il fato o la colpa avrebbero potuto impedirmi di raggiungere l’agiatezza e la felicità; che comunque lui aveva fatto il suo dovere di padre mettendomi in guardia contro passi che sapeva avrebbero condotto al mio danno, e non avrebbe avuto niente sulla coscienza. In una parola, mi disse che, come era disposto a fare tante ottime cose per me se avessi voluto restare a casa e stabilirmi come lui mi consigliava, cosí non voleva aver minimamente parte nelle mie disgrazie, e tanto meno incoraggiarmi in alcun modo a partire. E, a conclusione di tutto, mi disse che avevo l’esempio di mio fratello maggiore, col quale lui aveva usato gli stessi seri argomenti di persuasione per trattenerlo dall’andare alla guerra nei Paesi Bassi, e non c’era riuscito perché i desideri della giovinezza avevano avuto il sopravvento e lo avevano portato ad arruolarsi nell’esercito, dove era rimasto ucciso5; e, pur dicendo che non avrebbe cessato dal pregare per me, aggiunse che avrebbe azzardato un pronostico, e cioè che, se avessi fatto questo stupido passo, non sarei stato benedetto da Dio, e avrei avuto tempo e agio per riflettere sulle conseguenze dell’aver trascurato i suoi consigli, piú tardi, quando non vi sarebbe stato nessuno che mi aiutasse a risollevarmi.
Osservai durante quest’ultima parte del suo discorso, che fu davvero profetica, sebbene mio padre non sapesse nemmeno lui allora sino a che punto lo fosse; osservai, ripeto, che le lagrime gli scendevano abbondanti sulla faccia, specialmente quando ricordò il mio fratello ucciso; e, quando mi disse che avrei avuto tempo e agio per pentirmi e nessuno vicino ad aiutarmi, era cosí commosso che interruppe il discorso perché, mi disse, aveva il cuore cosí gonfio che non poteva piú continuare.
Fui sinceramente commosso da questo discorso – e chi avrebbe potuto non esserlo? – e decisi di non pensare piú ad andare via, bensí di stabilirmi a casa secondo il desiderio di mio padre. Ma, ahimè, in pochi giorni tutto svaní e, in breve, per evitare ulteriori insistenze di mio padre, dopo poche settimane decisi addirittura di scappare via da lui. Però non agii cosí inconsultamente come l’ardore della prima decisione mi suggeriva, ma presi da parte mia madre in un momento in cui la credevo un po’ piú ben disposta del solito, e le dissi che ero cosí fisso nell’idea di andare per il mondo che non mi sarei mai messo a niente con la risolutezza necessaria per andare fino in fondo, e che mio padre avrebbe fatto meglio a darmi il suo consenso piuttosto che costringermi a partire senza di esso; che ormai avevo diciott’anni, troppo tardi per andare apprendista da qualche artigiano o per entrare nello studio di un avvocato; che, se lo avessi fatto, non sarei rimasto col padrone per tutto il tempo stipulato, ma sarei scappato prima per andare a navigare; che lei parlasse a mio padre e cercasse di indurlo a lasciarmi fare un solo viaggio all’estero, e, se non mi fosse piaciuto, sarei tornato a casa e non sarei piú ripartito, promettendo di recuperare con doppia diligenza il tempo perduto.
Questo mandò mia madre in gran collera. Mi rispose che sapeva essere inutile parlare a mio padre di un simile argomento; ch’egli sapeva troppo bene qual era il mio interesse per concedermi il suo consenso a una cosa ch’era tanto a mio danno, e si meravigliava che io potessi pensare a una cosa del genere dopo il discorso che mio padre mi aveva fatto e tutte le gentili, affettuose espressioni che lei sapeva egli aveva avuto per me. In breve, se volevo, potevo rovinarmi, tanto non c’era rimedio; ma potevo essere certo che non avrei mai avuto il loro consenso; che lei per parte sua non avrebbe voluto aver tanta parte nella mia distruzione, e che io non avrei mai dovuto dire che mia madre era disposta a lasciarmi andare mentre mio padre non lo era.
Sebbene si rifiutasse di presentare la mia proposta a mio padre, pure, come ho poi saputo, mia madre gli riferí tutta la conversazione, e mio padre, dopo aver espresso tutta la sua apprensione per i miei propositi, le disse con un sospiro: – Quel ragazzo potrebbe essere felice se volesse fermarsi a casa, ma se va via, sarà il piú miserevole sciagurato che mai sia venuto al mondo. Io non mi sento di acconsentire a una cosa simile.
Però non trascorse meno di un anno prima che io scappassi, sebbene in tutto quel tempo restassi ostinatamente sordo a ogni proposta di fissarmi in un’occupazione e facessi continue rimostranze a mio padre e a mia madre perché si opponevano cosí fermamente a quello che, sapevano, la mia inclinazione mi portava a fare. Ma trovandomi un giorno a Hull6, dove mi ero recato per caso e senz’alcuna intenzione di fuggire allora; dico, trovandomi là, e uno dei miei compagni essendo in procinto di andare a Londra per mare nel bastimento di suo padre, e sollecitandomi costui ad andare con loro con la solita lusinga dei marinai, che cioè il passaggio non mi sarebbe costato niente, non consultai né padre né madre, e nemmeno gli mandai a dire una parola; ma, lasciando che lo sapessero come capitava, senza invocare la benedizione di Dio o quella di mio padre, senza minimamente riflettere sulle circostanze o le conseguenze, e, come Dio sa, in una cattiva ora, il 1° di settembre del 1651 m’imbarcai su una nave diretta a Londra. Mai le disgrazie d’un giovane che andasse alla ventura cominciarono, credo, piú presto o continuarono piú a lungo delle mie. La nave non era quasi uscita ancora dallo Humber7 che il vento cominciò a soffiare e le onde a salire in modo spaventoso; e siccome io non ero mai stato in mare prima, stetti male da non dire di corpo, e col terrore nell’animo. Adesso cominciai seriamente a riflettere su quello che avevo fatto, e con quanta giustizia venivo raggiunto dalla mano del Cielo per aver cosí perversamente lasciato la casa di mio padre e dimenticato il mio dovere; e mi tornarono freschi alla mente i buoni consigli dei miei genitori, le lacrime di mio padre e le preghiere di mia madre; e la coscienza, che non s’era ancora indurita al punto a cui giunse dopo, mi rimorse per avere sprezzato i consigli ricevuti e aver mancato ai miei doveri verso Dio e verso mio padre.
Frattanto la tempesta continuava a crescere, e il mare, sul quale non ero mai stato prima, si levò altissimo, sebbene non quanto l’ho visto molte volte in seguito, né come lo vidi pochi giorni dopo. Ma bastò per impressionarmi allora che ero un marinaio in erba e non avevo mai visto nulla di simile. Mi aspettavo che ogni ondata ci inghiottisse e che ogni volta che la nave sprofondava, come pareva a me, nella conca o nel vuoto del mare, non si risollevasse piú; e in quest’angoscia del cuore feci molti voti e propositi che, se fosse piaciuto al Cielo di risparmiarmi la vita in quest’unico viaggio, se mai avessi rimesso piede sulla terra ferma, sarei andato diritto a casa da mio padre e non sarei piú salito sopra una nave finché fossi vissuto; e avrei ascoltato i suoi consigli e non mi sarei piú cacciato in ambasce come queste. Ora vedevo chiaramente la bontà delle osservazioni di mio padre sulla condizione media della vita, come egli fosse vissuto negli agi e nelle comodità tutti i suoi giorni, senza essere mai esposto alle burrasche del mare o agli affanni della terra; e decisi che sarei tornato a casa da mio padre come un vero figliol prodigo pentito.
Questi pensieri saggi e sobri continuarono finché durò la burrasca e per un po’ di tempo ancora dopo; ma il giorno seguente il vento calò e il mare si fece piú calmo, e io cominciai ad abituarmi alquanto. Tuttavia, restai molto pensieroso per tutto quel giorno, anche perché continuavo a soffrire di un po’ di mal di mare; ma verso notte ci fu una schiarita, il vento cadde quasi del tutto, e seguí una serata incantevole: il sole tramontò perfettamente limpido e cosí sorse il mattino dopo; e con poco o niente vento, e il mare liscio, col sole che vi splendeva sopra, lo spettacolo era, mi parve, il piú delizioso che avessi mai visto.
La notte avevo dormito bene e ora non avevo piú il mal di mare, ma ero molto allegro e guardavo con meraviglia il mare, che il giorno prima era stato cosí agitato e terribile e in cosí breve tempo era potuto diventare cosí calmo e piacevole. E ora, perché i miei buoni propositi non durassero, il mio compagno, che mi aveva indotto ad allontanarmi da casa, viene e: – Bene, Bob, – mi dice, battendomi una manata sulla spalla, – come ti senti dopo quello che hai passato? Scommetto che hai avuto paura, ieri sera, vero?, quando c’era appena una cappellata di vento. – E tu chiamala una cappellata di vento! – dico io. – Era una burrasca terribile! – Burrasca! – fa lui. – Ma va’ là, sciocco! La chiami burrasca, quella? Non era proprio niente! Ci basta una buona nave e mare largo, e noi a una folata simile non ci facciamo caso. Ma tu sei un marinaio d’acqua dolce, Bob! Vieni, facciamoci una tazza di punch e non ci penseremo piú. Vedi che tempo incantevole abbiamo ora? – Per tagliar corto con questa triste parte della mia storia, finimmo alla vecchia maniera dei marinai: il punch fu fatto e io mi ubriacai, e nella empietà di quell’unica notte annegai tutti i miei pentimenti, tutte le mie riflessioni sulla condotta passata e tutti i miei propositi per l’avvenire. In una parola, come il mare ritrovò la sua superficie liscia e la sua durevole calma per il cadere della tempesta, cosí, passata l’agitazione dell’animo, dimenticate le paure e le apprensioni di essere inghiottito dal mare, tornò la corrente dei miei primitivi desideri e io dimenticai completamente i voti e le promesse fatti nell’ora del pericolo. Veramente ritrovai qualche attimo di riflessione, e i pensieri seri di tanto in tanto si sforzarono, per cosí dire, di tornare; ma me li scrollai di dosso e mi liberai di loro quasi fossero un malanno, e, dandomi al bere e alla compagnia, presto domai quegli accessi, come li chiamavo, quando tornavano, e in cinque o sei giorni guadagnai una vittoria cosí completa sulla mia coscienza quale poteva desiderarla qualsiasi giovanotto deciso a non lasciarsi piú importunare da essa. Ma dovevo essere messo ancora a un’altra prova; e la Provvidenza, come generalmente fa in simili casi, decise di togliermi assolutamente ogni scusa; perché, se io non volevo accettare questa prova come avvertimento per la mia salvezza, la successiva doveva essere tale che il peggiore e piú incallito sciagurato tra di noi l’avrebbe riconosciuta come pericolosa e misericordiosa insieme.
Al sesto giorno della nostra navigazione entrammo nella rada di Yarmouth; col vento contrario e il tempo calmo avevamo fatto poca strada dopo la tempesta. Qui fummo costretti a dar fondo, e qui restammo, essendo il vento sempre contrario, cioè di sud-ovest, per sette od otto giorni, durante i quali moltissime navi provenienti da Newcastle arrivarono nella stessa rada, che era l’anco...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le avventure di Robinson Crusoe
  3. I due Robinson di Giuseppe Sertoli
  4. Nota alla traduzione
  5. La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe
  6. Le ulteriori avventure di Robinson Crusoe
  7. Serie riflessioni
  8. Appendice
  9. Bibliografia
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright