Le parole e le cose
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Le parole e le cose

Un'archeologia delle scienze umane

  1. 448 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Le parole e le cose

Un'archeologia delle scienze umane

Informazioni su questo libro

Pubblicato per la prima volta in Francia nel 1966, Le parole e le cose costituisce uno spartiacque decisivo per la cultura e la filosofia del Novecento, una delle opere che più ha segnato il nostro modo di interpretare l'uomo e la società. In un percorso che parte dal Rinascimento per arrivare alla disarticolazione del sapere operata dalle scienze umane nel XX secolo, Michel Foucault si interroga sui codici fondamentali che definiscono la nostra concezione della realtà: quali criteri governano i nostri schemi interpretativi, i nostri valori e le nostre azioni? Che cosa è possibile o impossibile pensare in una certa fase storica? Come si trasformano le forme del sapere nel passaggio da un'epoca alla successiva? Attraverso l'indagine di molteplici discipline - arte, storia naturale, grammatica, economia, biologia, filosofia, linguistica, antropologia, psicoanalisi - Foucault penetra i meccanismi che nel tempo determinano la struttura e i confini del modo di pensare delle diverse società. E fa emergere le implicazioni pratiche e filosofiche connesse all'inevitabile transitorietà dei nostri sistemi di inquadramento del mondo: "Tentando di riportare alla luce questo profondo dislivello della cultura occidentale, non facciamo altro che restituire al nostro suolo silenzioso e illusoriamente immobile, le sue rotture, la sua instabilità, le sue imperfezioni".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2016
Print ISBN
9788817085571

Prima parte

Las Meninas
Velazquez: Las Meninas

I

Le damigelle d’onore

1.

Il pittore si tiene leggermente discosto dal quadro. Dà un’occhiata al modello; si tratta forse di aggiungere un ultimo tocco, ma può anche darsi che non sia stata ancora stesa la prima pennellata. Il braccio che tiene il pennello è ripiegato sulla sinistra, in direzione della tavolozza; è, per un istante, immobile fra la tela e i colori. L’abile mano è legata allo sguardo; e lo sguardo, a sua volta, poggia sul gesto sospeso. Tra la sottile punta del pennello e l’acciaio dello sguardo lo spettacolo libererà il suo volume.
Non senza un sistema sottile di finte. Indietreggiando un po’, il pittore si è posto di fianco all’opera cui lavora. Per lo spettatore che attualmente lo guarda egli si trova cioè a destra del suo quadro, che, invece, occupa tutta l’estrema sinistra. Al medesimo spettatore il quadro volge il retro; non ne è percepibile che il rovescio, con l’immensa impalcatura che lo sostiene. Il pittore, in compenso, è perfettamente visibile in tutta la sua statura; non è a ogni modo nascosto dall’alta tela che, forse, di lì a poco lo assorbirà, quando facendo un passo verso di essa si rimetterà all’opera; probabilmente si è appena offerto in questo stesso istante agli occhi dello spettatore, sorgendo da quella specie di grande gabbia virtuale che proietta all’indietro la superficie che sta dipingendo. Possiamo vederlo adesso, in un istante di sosta, nel centro neutro di questa oscillazione. La sua scura sagoma, il suo volto chiaro, segnano uno spartiacque tra il visibile e l’invisibile: uscendo dalla tela che ci sfugge, egli emerge ai nostri occhi; ma quando fra poco farà un passo verso destra, sottraendosi ai nostri sguardi, si troverà collocato proprio di fronte alla tela che sta dipingendo; entrerà nella regione in cui il quadro, trascurato per un attimo, ridiventerà per lui visibile senza ombra né reticenza. Quasi che il pittore non potesse a un tempo essere veduto sul quadro in cui è rappresentato e vedere quello su cui si adopera a rappresentare qualcosa. Egli regna sul limitare di queste due visibilità incompatibili.
Il pittore guarda, col volto leggermente girato e con la testa china sulla spalla. Fissa un punto invisibile, ma che noi, spettatori, possiamo agevolmente individuare poiché questo punto siamo noi stessi: il nostro corpo, il nostro volto, i nostri occhi. Lo spettacolo che egli osserva è quindi due volte invisibile: non essendo rappresentato nello spazio del quadro e situandosi esattamente nel punto cieco, nel nascondiglio essenziale ove il nostro sguardo sfugge a noi stessi nel momento in cui guardiamo. E tuttavia come potremmo fare a meno di vederla, questa invisibilità, se essa ha proprio nel quadro il suo equivalente sensibile, la propria figura compiuta? Sarebbe infatti possibile indovinare ciò che il pittore guarda, se si potesse gettare lo sguardo sulla tela cui è intento; ma di questa non si scorge che l’ordito, i sostegni orizzontali e, verticalmente, la linea obliqua del cavalletto. L’alto rettangolo monotono che occupa tutta la parte sinistra del quadro reale, e che raffigura il rovescio della tela rappresentata, restituisce sotto l’aspetto di una superficie l’invisibilità tridimensionale di ciò che l’artista contempla: lo spazio in cui siamo, che siamo. Dagli occhi del pittore a ciò che egli guarda è tracciata una linea imperiosa che noi osservatori non potremmo evitare: attraversa il quadro reale e raggiunge, di qua dalla sua superficie, il luogo da cui vediamo il pittore che ci osserva; questa linea tratteggiata ci raggiunge immancabilmente e ci lega alla rappresentazione del quadro.
In apparenza, questo luogo è semplice; è di pura reciprocità: guardiamo un quadro da cui un pittore a sua volta ci contempla. Null’altro che un faccia a faccia, occhi che si sorprendono, sguardi dritti che incrociandosi si sovrappongono. E tuttavia questa linea sottile di visibilità avvolge a ritroso tutta una trama complessa d’incertezze, di scambi, di finte. Il pittore dirige gli occhi verso di noi solo nella misura in cui ci troviamo al posto del suo soggetto. Noialtri spettatori, siamo di troppo.
Accolti sotto questo sguardo, siamo da esso respinti, sostituiti da ciò che da sempre si è trovato là prima di noi: dal modello stesso. Ma a sua volta lo sguardo del pittore diretto, fuori del quadro, verso il vuoto che lo fronteggia, accetta altrettanti modelli quanti sono gli spettatori che gli si offrono; in questo luogo esatto, ma indifferente, il guardante e il guardato si sostituiscono incessantemente l’uno all’altro. Nessuno sguardo è stabile o piuttosto, nel solco neutro dello sguardo, che trafigge perpendicolarmente la tela, soggetto e oggetto, spettatore e modello invertono le loro parti all’infinito. E il rovescio della grande tela all’estrema sinistra del quadro esercita a questo punto la sua seconda funzione: ostinatamente invisibile, impedisce che possa mai essere reperito e definitivamente fissato il rapporto tra gli sguardi. La fissità opaca che regna da un lato rende per sempre instabile il gioco delle metamorfosi che al centro si stabilisce tra spettatore e modello. Per il fatto che vediamo soltanto questo rovescio, non sappiamo chi siamo, né ciò che facciamo. Veduti o in atto di vedere? Il pittore fissa attualmente un luogo che di attimo in attimo non cessa di cambiare contenuto, forma, aspetto, identità. Ma l’attenta immobilità dei suoi occhi rinvia a un’altra direzione da essi già sovente seguita e che ben presto, è certo, riprenderanno: quella della tela immobile su cui si sta tracciando, è forse tracciato da tempo e per sempre, un ritratto che più non si cancellerà. Cosicché lo sguardo sovrano del pittore ordina un triangolo virtuale, che definisce nel suo percorso il quadro di un quadro: al vertice – solo punto visibile – gli occhi dell’artista; alla base da un lato la sede invisibile del modello, dall’altro la figura probabilmente abbozzata sulla tela vista dal rovescio.
Nell’istante in cui pongono lo spettatore nel campo del loro sguardo, gli occhi del pittore lo afferrano, lo costringono a entrare nel suo quadro, gli assegnano un luogo privilegiato e insieme obbligatorio, prelevano da lui la sua luminosa e visibile essenza e la proiettano sulla superficie inaccessibile della tela voltata. Vede la sua invisibilità resa visibile al pittore e trasposta in una immagine definitivamente invisibile per lui. Sorpresa moltiplicata e resa più inevitabile da una astuzia marginale. All’estrema destra il quadro riceve la sua luce da una finestra rappresentata secondo una prospettiva molto scorciata; non se ne vede che il vano dal quale il flusso di luce che essa largamente diffonde impregna a un tempo, di identica generosità, due spazi vicini, compenetrati ma irriducibili: la superficie della tela con il volume da essa rappresentato (cioè lo studio del pittore, o la sala in cui ha collocato il suo cavalletto) e di qua da questa superficie il volume reale occupato dallo spettatore (o ancora la sede irreale del modello). Percorrendo la stanza da destra a sinistra, l’ampia luce dorata trascina lo spettatore verso il quadro e insieme il modello verso la tela; è sempre essa che, illuminando il pittore, lo rende visibile allo spettatore e fa brillare come altrettante linee d’oro agli occhi del modello il quadro della tela enigmatica ove la sua immagine, trasportatavi, si troverà rinchiusa. La finestra estrema, parziale, appena indicata, libera una luce intera e mista che serve da luogo comune alla rappresentazione. Essa equilibra, all’altro capo del quadro, la tela invisibile; questa, volgendo il retro agli spettatori, si chiude sul quadro che la rappresenta e forma, attraverso la sovrapposizione del suo rovescio, visibile sulla superficie del quadro portante, il luogo, per noi inaccessibile, ove scintilla l’Immagine per eccellenza; analogamente la finestra, pura apertura, instaura uno spazio tanto manifesto quanto l’altro è celato; tanto comune al pittore, ai personaggi, ai modelli, agli spettatori, quanto l’altro è solitario (nessuno infatti, nemmeno il pittore, lo guarda). Da destra si diffonde attraverso una finestra invisibile il puro volume d’una luce che rende visibile ogni rappresentazione; a sinistra si estende la superficie che evita, dall’altra parte del suo troppo visibile ordito, la rappresentazione da essa portata.
La luce, inondando la scena (intendo la stanza non meno della tela, la stanza rappresentata sulla tela e la stanza in cui la tela è posta), avvolge personaggi e spettatori e li trascina, sotto lo sguardo del pittore, verso il luogo ove il suo pennello li rappresenterà. Ma questo luogo ci è sottratto. Ci guardiamo guardati dal pittore e resi visibili ai suoi occhi dalla stessa luce che ce lo fa vedere. E nell’istante in cui ci coglieremo trascritti dalla sua mano come in uno specchio, non potremo percepire, di quest’ultimo, che il rovescio oscuro. L’altro lato d’una psiche.
Ora, esattamente dirimpetto agli spettatori – a noi stessi –, sul muro che costituisce il fondo della stanza, l’autore ha rappresentato una serie di quadri; ed ecco che fra tutte queste tele sospese una brilla di singolare fulgore. La sua cornice è più larga, più scura di quella degli altri; ma una sottile linea bianca la ripete verso l’interno diffondendo su tutta la sua superficie una luce ardua da collocare, poiché non emana da alcun luogo se non da uno spazio che a essa sia interno. In questa luce strana si mostrano due figure e sopra di esse, leggermente arretrato, un greve sipario di porpora. Gli altri quadri lasciano vedere solo qualche macchia più pallida al margine d’una notte senza profondità. Questo al contrario si apre su uno spazio in fuga, in cui forme riconoscibili si scaglionano in un chiarore che appartiene soltanto a esso. In mezzo a tutti questi elementi che sono destinati a offrire rappresentazioni, ma che le rifiutano, le nascondono, le evitano grazie alla loro posizione o alla loro distanza, questo è l’unico che funziona in piena onestà offrendo alla vista ciò che deve mostrare. La sua lontananza, l’ombra che lo circonda. Ma non è un quadro: è uno specchio. Esso offre infine la magia del duplicato che rifiutavano i dipinti lontani non meno che la luce in primo piano con la tela ironica. Di tutte le rappresentazioni che il quadro rappresenta è la sola visibile; ma nessuno lo guarda. In piedi a lato della sua tela e intento unicamente al suo modello il pittore non può vedere questo specchio che brilla mite dietro di lui. Gli altri personaggi del quadro sono per lo più volti anch’essi verso ciò che deve aver luogo davanti – verso la chiara invisibilità che orla la tela, verso il balcone di luce ove i loro occhi possono vedere quelli che li vedono e non verso la cavità cupa che chiude la camera in cui sono rappresentati. Vi sono è vero alcune teste che si presentano di profilo: ma nessuna è girata abbastanza da guardare, in fondo alla sala, questo specchio desolato, piccolo rettangolo lucente, che altro non è se non visibilità, ma priva di sguardi che possano farsene padroni, renderla attuale e godere del frutto all’improvviso maturo del suo spettacolo.
Occorre riconoscere che tale indifferenza non trova riscontro che in quella dello specchio. Esso infatti non riflette nulla di ciò che si trova nello stesso suo spazio; né il pittore che gli volta le spalle, né i personaggi al centro della stanza. Nella sua chiara profondità non accoglie il visibile. Nella pittura olandese era consuetudine che gli specchi svolgessero una funzione di duplicazione: ripetevano ciò che era dato una prima volta nel quadro, ma all’interno d’uno spazio irreale, modificato, ristretto, incurvato. Vi si vedeva la medesima cosa che nella prima istanza del quadro, ma decomposta e ricomposta secondo un’altra legge. Qui lo specchio non dice nulla di ciò che già è stato detto. Eppure la sua posizione è quasi centrale: il suo margine superiore coincide con la linea che divide in due l’altezza del quadro, occupa sul muro di fondo (o per lo meno sulla parte visibile di questo) una posizione mediana; dovrebbe pertanto essere attraversato dalle stesse linee prospettiche del quadro stesso; ci si potrebbe aspettare che uno stesso studio, uno stesso pittore, una stessa tela si disponessero in esso secondo uno spazio identico; potrebbe costituire il duplicato perfetto.
Invece non fa vedere nulla di ciò che il quadro stesso rappresenta. Il suo sguardo immobile mira a cogliere oltre il quadro, nella regione necessariamente invisibile che ne forma la facciata esterna, i personaggi che vi sono disposti. Anziché indugiare presso gli oggetti visibili lo specchio traversa l’intero campo della rappresentazione trascurando ciò che potrebbe captarne, e restituisce la visibilità a ciò che si mantiene fuori da ogni sguardo. L’invisibilità che esso supera non è quella di ciò che è occultato: non aggira un ostacolo, non svia una prospettiva, si rivolge a quanto è reso invisibile sia dalla struttura del quadro sia dalla sua esistenza come dipinto. Ciò che in esso si riflette è ciò che tutti i personaggi della tela stanno fissando, lo sguardo dritto davanti a sé; è dunque ciò che potrebbe essere veduto se la tela si prolungasse anteriormente scendendo ancora fino ad avvolgere i personaggi che servono da modelli al pittore. Ma, poiché la tela si arresta a questo punto, mostrando il pittore e il suo studio, è anche quanto sta fuori del quadro, nella misura in cui è quadro, cioè frammento rettangolare di linee e colori demandato a rappresentare qualcosa agli occhi di un qualsiasi eventuale spettatore. In fondo alla stanza, da tutti ignorato, lo specchio inatteso fa splendere le figure cui guarda il pittore (il pittore nella sua realtà rappresentata, oggettiva, di pittore al lavoro); ma altresì le figure che al pittore guardano (nella realtà materiale che linee e colori hanno deposto sulla tela). Queste due figure sono inaccessibili entrambe ma in modo diverso: la prima in virtù di un effetto di composizione che è proprio del quadro; la seconda in virtù della legge che presiede all’esistenza stessa di un qualsiasi quadro in genere. Il gioco della rappres...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Prima parte
  5. Seconda parte
  6. Appendice di Georges Canguilhem
  7. Sommario