Storia della follia nell'età classica
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Storia della follia nell'età classica

  1. 832 pagine
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Storia della follia nell'età classica

Informazioni su questo libro

Saggio pionieristico pubblicato per la prima volta nel 1961, Storia della follia nell'età classica è un tassello fondamentale del percorso con cui il filosofo indaga le relazioni tra sapere, potere e soggettività. Ponendosi in un'ottica di rottura rispetto alle concezioni tradizionali, l'autore affronta la follia non come una condizione medica, ma in quanto fenomeno profondamente radicato nelle strutture culturali e nei sistemi di esclusione sociale, dimostrando come ogni epoca interpreti e gestisca la follia a modo proprio. L'esito di questa indagine è un'opera capitale, che ha segnato la storia del pensiero europeo e ha contribuito in modo importante all'idea moderna di psichiatria: con una narrazione serrata e avvincente, Foucault dà spazio alle voci, rare ma decisive - da Sade a Nietzsche, da Van Gogh ad Artaud - che hanno squarciato il velo sulla follia e mostra perché essa, in quanto elemento imprevedibile e rivelatore, possegga un ruolo fondamentale nel mettere a nudo disfunzioni e fragilità della società.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817046626

Introduzione1

Mario Galzigna

Le persone che amo, le utilizzo. Il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a un pensiero [...] è precisamente di utilizzarlo, di deformarlo, di farlo stridere, gridare. Allora, dicano pure i commentatori se si è o non si è fedeli, ciò non ha alcun interesse.
Michel Foucault, 1975

Nella follia l’opera sprofonda, scrive Foucault al termine dell’Histoire de la folie. «Dove c’è opera non c’è follia; e tuttavia la follia è contemporanea dell’opera, poiché inaugura il tempo della sua verità.» La follia interrompe l’opera, «apre un vuoto, un tempo di silenzio, una domanda senza risposta».
E tuttavia, nella «lacerazione senza rimedio» che essa provoca, «il mondo è obbligato a interrogarsi». Il mondo – quello stesso mondo che pretendeva «di misurarla e di giustificarla con la psicologia» – ora «si trova citato in giudizio» e «deve giustificarsi davanti a essa» (p. 737). La follia è «assoluta rottura dell’opera», ma al tempo stesso «rappresenta il momento costitutivo di un’abolizione che fonda nel tempo la verità dell’opera» (p. 736).
Al vertice estremo della singolarità, viene scoperta e svelata, nella follia, la compresenza di due dimensioni eterogenee: irriducibili ma segretamente complici, speculari e a volte complementari. Laddove il soggetto mostra la sua costitutiva vulnerabilità – la sua esposizione ai molteplici fattori patogeni che producono in lui passività, dissoluzione, rovina, frammentazione –, ebbene, proprio lì può emergere un movimento di riscatto: un’energia progettuale che lo rende capace di ridiventare protagonista attivo della propria esistenza. Proprio lì può emergere un’intima ed enigmatica solidarietà tra distruzione e costruzione, tra perdita e arricchimento, tra malattia e creatività.
Un buon esempio di connessione tra dimensioni eterogenee Foucault lo fornisce attraverso l’analisi della malinconia sviluppata nel capitolo terzo della Parte seconda. Le qualità si trasmettono, senza alcun supporto, «dal corpo all’anima, dall’umore alle idee, dagli organi alla condotta». Vi è così una meccanica delle qualità, una dinamica delle qualità e «una specie di dialettica delle qualità che, libera da ogni obbligo sostanziale, da ogni assegnazione primitiva, cammina attraverso rovesciamenti e contraddizioni». E poiché il conflitto può nascere all’interno di una singola qualità, «una qualità può alterarsi nel suo sviluppo e diventare il contrario di ciò che era» (p. 399). Attraverso una puntigliosa analitica del testo medico, Foucault svela spostamenti, contraddizioni, rovesciamenti. Ogni condizione patologica è perciò molto fluida; subisce modificazioni continue e spesso può rovesciarsi nel suo contrario: fino al limite estremo, per cui, come afferma il medico inglese Thomas Sydenham (1624-1689), frequentemente citato nell’Histoire, i malinconici sono «persone le quali per il resto sono molto sagge e molto sensate, e dotate di una penetrazione e di una sagacia straordinarie. Così Aristotele ha osservato giustamente che i malinconici hanno più spirito degli altri» (pp. 396-397). La malinconia, quindi, è certamente una condizione patologica, un’entità morbosa, ma può, in opportune condizioni e situazioni, produrre stati di eccellenza intellettuale. È come sospesa, sempre in bilico tra prostrazione (tristezza, paura), delirio parziale e genialità. Il malinconico, come affermava Marsilio Ficino nel De triplici vita, coglie la profondità di tutte le cose.2
Oltre che nel rapporto tra follia e assenza d’opera, la contraddittorietà del soggetto emerge dunque anche nell’analitica del testo medico, che tanto spazio occupa nell’Histoire: un soggetto molto spesso definibile come sinergia di qualità contrastanti e soprattutto come compresenza di dimensioni attive e passive. Entro tale prospettiva, voglio proporre un breve détour: cioè un accostamento inconsueto tra Sartre e Foucault, poiché per entrambi il soggetto è al tempo stesso attivo e passivo.

Nelle Questioni di metodo Sartre cita e commenta l’affermazione di Engels, contenuta in una lettera indirizzata a Marx: «Gli uomini fanno la loro storia da sé ma in un ambiente dato che li condiziona».3 Il soggetto è quindi, al tempo stesso, attivo e passivo. Sartre tematizza ampiamente la duplicità costitutiva del soggetto, delineata nel passaggio epistolare engelsiano, soprattutto nella Critica della ragione dialettica e nella grande ricerca dedicata a Flaubert, L’idiota della famiglia. Viene più volte ribadito, in questi testi, il primato dell’esistenza sulla coscienza, al fine di cogliere la presenza dell’«uomo reale in mezzo al mondo reale».4 Ed è possibile il disvelamento di questa presenza – di questa situazione – solo attraverso una prassi trasformativa capace di modificarla. Il «principio antropologico» che permette di definire «la persona concreta in base alla sua materialità» – fuori da ogni ritorno «alla semplice immanenza del soggettivismo idealista» – rappresenta «un punto di partenza che ci rigetta subito tra le cose e gli uomini, nel mondo». Entro tale prospettiva, aggiunge Sartre, «la sola teoria della conoscenza che possa essere oggi valida è quella che si fonda su questa verità della microfisica: lo sperimentatore fa parte del sistema sperimentale».5 Si tratta di uno snodo importante, a partire dal quale l’autore prende le distanze dalla teoria marxista della conoscenza – il vero «punto debole» del marxismo –, accusata di espellere la soggettività dalla sfera dell’atto conoscitivo. La dialettica, cara a Sartre, tra «coscienza costitutrice» (o costitutiva, come avrebbe detto Foucault) e «coscienza costituita», mette capo a una «frattura del rapporto reale dell’uomo con la storia» nel momento stesso in cui la prima diventa «teoria pura», «sguardo non situato», e la seconda si limita a funzionare come «semplice passività».
Fuori da ogni tentazione idealistica, si tratta di costruire un’ epistemologia realista, «che situi la conoscenza nel mondo»: che spezzi la dicotomia tra osservatore e osservato, riconoscendo il coinvolgimento del soggetto nella realtà osservata come parte costitutiva ed essenziale del processo conoscitivo.
Al di là del puntuale e pertinente richiamo di Sartre alla microfisica, è necessario ricordare che l’idea dell’osservatore come variabile capace di modificare il fenomeno osservato ha conosciuto una grande fortuna in ambito antropologico . Si tratta di un’idea ben presente in alcune importanti figure di padri fondatori, che negli anni giovanili ebbero una formazione scientifica: per esempio Georges Devereux, creatore dell’etnopsichiatria,6 che studiò chimica e fisica a Parigi, e Bronislaw Malinowski, che prima del 1910 ebbe una formazione filosofica e fisico-matematica.
Nell’ambito delle scienze umane, vale la pena ribadirlo, è l’antropologia il campo di ricerca in cui la discussione sul rapporto tra soggetto osservatore e processo osservato è stata davvero continua e approfondita, anzitutto all’interno di quel metodo della ricerca etnografica che venne definito, a partire da Malinowski, metodo dell’osservazione partecipante. Ha forse ragione Clifford Geertz: fu «più un desiderio che un metodo».7 In ogni caso, Geertz rilancia e discute proficuamente questo concetto, con una particolare attenzione alle esperienze di «etnografia immersionista»,8 nelle quali l’antropologo pone al centro della sua tensione partecipativa lo sforzo di essere accettato dal gruppo sociale studiato, stabilendo con alcuni membri di questo stesso gruppo un certo afflato emozionale, una certa empatia: condizione di possibilità di ogni conoscenza autentica e radicale. Come ha ben detto Geertz in un’intervista, con disarmante semplicità: «Non si può capire la gente senza interagire con essa dal punto di vista umano».9 Entra in gioco, qui, quello che Geertz chiama l’osservatore situato; quello che Sartre, circa trent’anni prima, aveva definito uno sguardo situato: laddove cioè «l’atto del guardare – come scrive Francesco Faeta, alludendo alla curvatura probabilistica connessa al principio di indeterminazione di Heisenberg – modifica, com’è ben noto, la realtà osservata e diviene sensato, così, spostare il focus etnografico dai fenomeni, in sé e nel loro divenire, alle pratiche d’interazione tra osservatori e osservati».10
Solo a partire da uno sguardo situato – cioè da un’attività conoscitiva situata, immersa e coinvolta in quello stesso mondo che occorre conoscere – possiamo cogliere la nostra duplice natura di soggetti liberi e al tempo stesso condizionati: da un lato liberi di conoscere qualcosa che sta fuori di noi, dall’altro lato condizionati dalla nostra intima adesione a questo qualcosa (un qualcosa che perciò si colloca sia dentro sia fuori dalla nostra mente). Entro tale prospettiva, possiamo allora definirci all’interno di un’articolazione serrata e ineludibile tra necessità e libertà, tra la sfera dei condizionamenti e l’ambito dei processi di soggettivazione. Possiamo pensarci, in ultima analisi, come soggetti costituiti (prodotti, determinati, inglobati nella realtà da conoscere) e come soggetti costituenti (produttivi, determinanti, capaci di cooperare alla costruzione della realtà che ci ingloba). O ancora, più semplicemente, possiamo comprendere, per usare il lessico di Marx, la nostra appartenenza sia al «regno della necessità» sia al «regno della libertà». Non a caso, proprio alla fine del primo capitolo delle Questioni di metodo, Sartre cita un passaggio marxiano tratto dal Libro III del Capitale: «Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna: si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria».11
Il che significa, per Sartre, che «non appena comincerà per tutti un margine di libertà reale oltre la produzione della vita, il marxismo avrà fatto il suo tempo; una filosofia della libertà ne prenderà il posto».12
Comincia, comincerà. Non appena «comincerà», scriveva Sartre: in questo commento, l’avvento di una filosofia della libertà viene collocato nel futuro ed è perciò legato, in qualche modo, all’adozione di una prospettiva escatologica; ma il testo marxiano utilizza, a ragion veduta, il tempo presente: il regno della libertà, in effetti, «comincia» già ora; oltre a rappresentare il contenuto di una prefigurazione, esso vive anche dentro il presente, nel momento stesso in cui la logica produttiva non domina incontrastata ma subisce, incalzata dal conflitto, interruzioni, battute d’arresto, parziali cessazioni; nel momento stesso, quindi, in cui una variabile antagonista comincia a erodere e a mettere in scacco il determinismo che regola la sfera della produzione materiale.
In ogni caso, determinismo e libertà sono due dimensioni strettamente connesse. Uno spazio non ideologico di libertà e una prospettiva autentica e percorribile di liberazione si sviluppano a partire dalla complessità dei rapporti tra queste due dimensioni; non possono quindi emergere come conseguenza automatica di una loro meccanica successione temporale. La libertà si annida nel determinismo, fa i conti con le sue ferree leggi e con le sue funeste costrizioni. Il determinismo, a sua volta, nel suo storico dispiegamento, ci aiuta a definire i terreni e i momenti entro i quali deve necessariamente svilupparsi ogni movimento antagonista e libertario.
Al di là dei suoi rapporti con l’escatologia marxista – la quale, in armonia con le sue matrici ebraico-cristiane, assegna al proletariato una funzione di salvezza collettiva - va riconosciuto a Sartre il merito (un merito sia filosofico sia politico) di aver assegnato una centralità strategica e ineludibile al problema del rapporto fra determinismo e libertà, e quindi fra soggetto costituito e soggetto costituente: un problema presente nella teoria marxiana, nella psicoanalisi freudiana, nell’antropologia e in non pochi luoghi essenziali del pensiero filosofico e scientifico novecentesco. Ci sembra, in verità, qualcosa di più di un problema interno alle singole discipline o a una particolare episteme: è per noi il problema fondamentale del pensiero e della condizione umana, perennemente in bilico tra i bagliori della libertà e le tenebre della necessità. Ed è in ogni caso un problema centrale e decisivo, va detto subito, in tutto l’itinerario filosofico di Michel Foucault.

Un’originale ripresa della problematica sartriana prima menzionata l’ho ritrovata, mutatis mutandis, proprio nell’itinerario di Foucault, e in particolar modo nel passaggio dalla genealogia degli anni Settanta alla successiva messa in scena dei processi di soggettivazione, presente soprattutto negli ultimi due libri (La cura di sé, L’uso dei piaceri) e negli ultimi tre corsi tenuti al Collège de France (L’ermeneutica del soggetto, Il governo di sé e degli altri, Il coraggio della verità). A ben guardare, Sartre e Foucault sono accomunati da una medesima difficoltà, che rappresenta anche la loro scommessa fondamentale: quella di concepire, di comprendere e di vivere gli aspetti attivi e gli aspetti passivi che definiscono il soggetto costituito e il soggetto costituente. Sartre direbbe: «la constitution»13 e «la personnalisation»;14 cioè il soggetto determinato – condizionato da una pluralità di dimensioni: l’economia, i rapporti di produzione, l’ideologia, la cultura, la biografia personal...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Storia della follia