
- 476 pagine
- Italian
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Informazioni su questo libro
Scritta nei primi anni del regno di Augusto, l'Eneide doveva essere, nelle aspettative dell'imperatore, non solo il racconto dell'avventuroso arrivo nel Lazio di Enea e la glorificazione della famiglia Giulia, discendente in linea diretta dall'eroe troiano, ma il poema nazionale romano, corrispettivo di quello che per i Greci erano l'Iliade e l'Odissea. Anche la vicenda di Enea, come quella di Ulisse, è la storia di un ritorno: il travagliato ritorno verso una terra considerata per tradizione l'antica madre dei fondatori di Troia ormai distrutta, l'Italia, dove fondare una nuova patria. E dopo furenti burrasche, dolorose perdite di compagni, tragici amori, una profetica discesa agli Inferi e sanguinose battaglie, l'Eneide si chiude con la promessa di una fusione di popoli e culture diverse, nel nome di una nuova civiltà comune. Alessandro Barchiesi inquadra nel brillante saggio introduttivo i punti essenziali del discorso poetico virgiliano, presentato nella nuova traduzione di Riccardo Scarcia, che coniuga mirabilmente scorrevolezza e fedeltà al testo.
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Informazioni
LIBRO XII
sono venuti meno, che delle sue promesse si pretende ora il debito,
che a vista è segnato, da sé vieppiù arde senza controllo
e cresce in orgoglio. Quale nelle terre cartaginesi
piagato il petto da grave ferita dei cacciatori,
allora sì un leone mette in campo le sue forze e s’allegra scuotendo
sul collo i muscoli criniti e impavido l’infisso dardo
del suo predone infrange, e rugge con la bocca sanguinosa,1
non altrimenti a Turno infiammato s’eccita la smania furibonda.
Allora così parla al re e così aggrondato comincia:
«Non esita Turno; non hanno di che revocare le intese
gli oziosi Eneadi, né di che ricusare i patti da loro conclusi:2
io scendo in lizza. Ordina il rito, padre, e sancisci l’accordo.
O con questa mia destra manderò il Dardanio nel fondo del Tartaro,
lui disertore dell’Asia3 (si siedano a contemplare i Latini),
e io solo col ferro rintuzzerò un disonore comune,
o se li tenga sconfitti, vada a lui quale sposa Lavinia».
«O giovane dall’animo esuberante, quanto tu nel fiero
valore sovrasti, di tanto è giusto che con più cautela
io deliberi, e con apprensione misuri le circostanze tutte.
Tu possiedi il regno del padre Dauno, hai molte fortezze, conquista
del tuo braccio, e per suo conto ha Latino e oro e buon volere.4
Altre mai promesse spose hanno il Lazio e le terre laurenti,
né di famiglia poco illustri. Lasciami rivelare queste cose,
non grate a dirsi, senz’ombra d’inganni; e tu comprendile nel tuo
cuore:
a nessuno dei pretendenti antichi avevo io diritto d’unire
mia figlia, lo vaticinavano tutti, e dèi e uomini.
Vinto dall’affetto per te, vinto dall’unione di sangue5
e dalle afflitte lagrime di mia moglie, tutti ho spezzato i miei
obblighi:6
al genero ho tolto la promessa, contro la fede ho impugnato armi.
Da quella mia scelta, Turno, vedi tu quali eventi e quali guerre
ne seguano, e quanto grande patire tu per primo subisca.
Due volte vinti7 in una gran battaglia a stento custodiamo le
speranze
italiche in questa città . S’intiepidisce del nostro sangue tuttora
la corrente del Tebro, e le vaste campagne biancheggiano d’ossa.8
Dove tante volte mi lascio attrarre, che follia trasforma le mie
decisioni?
Se estinto Turno sono pronto ad accogliere questi alleati,
perché non cesso piuttosto, finché egli è salvo. l’ostile confronto?
Che diranno i Rutuli, sangue tuo, che dirà il resto d’Italia,
se t’avrò consegnato alla morte (smentisca quel che dico
la Fortuna!) perché chiedevi nostra figlia e d’imparentarti con noi?
Considera l’alterna sorte della guerra, abbi pietà del padre tuo,
venerando vecchio, che ora mesto la patria Ardea separa
da te lontano». Non a parole si piega la smania furibonda
di Turno, trabocca anzi oltre e il rimedio ne aggrava la passione.
Come ebbe forza di parlare, con questo labbro così comincia:
«La tua sollecitudine per me, o generoso, per me deponila,
ti prego, e lasciami scambiare la morte per la gloria:
anche noi, padre, dardi e ferro non fiacco grandiniamo
con la nostra mano; anche dalla nostra ferita sgorga sangue.9
Starà lontano da lui la madre dea che ne nasconde la fuga
con femminea veste di nebbia, e s’appiatti lei tra ombre vane».10
piangeva e tratteneva l’ardente genero, e già sente morirsi:
«Turno, per queste lagrime, per la dignità di Amata, se un poco
ne hai tocca l’anima (tu ora sola speranza, tu placido riposo
d’una vecchiaia sconsolata, l’onore e l’autorità di Latino
a te stretti, su te reclina tutta la casa che crolla),
ho una sola preghiera: rinuncia a scontrarti coi Teucri.
Qualunque ventura ti attenda da questo cimento,
attende anche me, Turno; insieme io lascerò queste odiose
luci, né vedrò da prigioniera11 Enea fatto mio genero».
Accolse Lavinia la voce della madre di lagrime aspersa
le gote splendenti, cui infuse fuoco un intenso
rossore, e s’irradiò sul viso fattosi tutta una fiamma.
Come se abbia qualcuno con sanguigna tintura contaminato
indico avorio, o quando misti s’arrossano gigli bianchi
con molte rose: tali colori mostrava la giovinetta sul volto.12
L’amore lo turba, e fissa sulla ragazza gli sguardi,
anela di più alle armi e con poche parole parla ad Amata:13
«No, ti prego, né con lagrime né con sì dolente presagio
non accompagnare chi va alla dura prova di Marte,
o madre: ché Turno non ha libertà di trattenere la morte.14
Araldo, Idmone, questo mio messaggio (e non gli piacerà !) riporta
al frigio signore: non appena l’Aurora di domani nel cielo
si arrosserà trasportata sulle ruote vermiglie,
non sospinga i Teucri contro i Rutuli, riposino le armi
dei Teucri e i Rutuli; tronchiamo la guerra col nostro sangue,
su quella lizza si tenga il cimento per la sposa Lavinia».15
Chiede i cavalli, e gode a vederli fremere dinanzi a sé,16
quelli che ella stessa, Oritia,17 dette per suo decoro a Pilumno,18
che superassero nel bagliore le nevi, nelle corse le folate del vento.19
Stanno d’attorno solleciti gli aurighi, e col cavo delle mani ne
battono
ed eccitano i fianchi, e pettinano i colli chiomati.
Egli quindi appoggia attorno agli omeri la corazza
irta di scaglie d’oro e di bianco oricalco;20 e insieme si adatta
a punto e la spada e lo scudo e le punte del rosso pennacchio,
la spada, che al padre Dauno il dio signore del fuoco aveva fatto
di sua mano, e incandescente aveva tuffata nell’onda stigia.21
E subito poi l’asta possente, che stava ritta nel mezzo della sala,
appoggiata a una grande colonna, con forza afferra,
spoglia di Attore aurunco,22 la scuote e la fa oscillare
alto gridando: «Ora, o tu che mai deludesti, asta,
i miei appelli, ora è tempo: te il grandissimo Attore
portò, te ora la destra di Turno. Concedimi di abbattere il corpo
e di lacerare e strappare con la forza del mio braccio la corazza
di quel mezzo uomo di Frigia23 e sporcargli nella polvere i capelli
ben arricciati con il ferro caldo e tutti intrisi di mirra».
Da queste furie è travolto, e da tutta la sua faccia spasimano
ardenti scintille, negli occhi torvi balena un fuoco:
come quando un toro, segno primo di sfida, emette
mugghi paurosi e saggia con le corna lo sfrenarsi dell’ira
dando di cozzo nel tronco d’un albero e provoca i venti
a testate, o spargendo rena prelude allo scontro.24
a Marte dà sfogo Enea, e si esalta di sdegno,
allegrandosi che la guerra si componga con l’offerta d’un patto.
Allora conforta i compagni e l’apprensione del triste Iulo
richiamandosi al destino, e comanda che alcuni guerrieri riportino
la sua decisa risposta a re Latino e dettino le condizioni di pace.
spuntare del giorno, quando prendono ad alzarsi dal gorgo profondo
i cavalli del Sole, e spirano la luce dalle nari dilatate:
misurato il campo per la sfida, proprio sotto le mura
della grande città , i guerrieri rutuli e i Teucri allestivano
nel mezzo i falò, e agli dèi mediatori altari di zolle
erbose; altri portavano onda di fonte e fuoco,
velati di lunga veste e avvinti le tempie di verbena.25
Avanza la legione degli Ausonidi e le astate schiere
dilagano fitte dalle porte; di qui tutto il troiano
esercito e il tirreno precipita con il vario armamento,
non altrimenti bardati di ferro che se li chiamasse l’aspra
battaglia di Marte. Né da meno, in mezzo alle migliaia, essi stessi
i capi caracollano superbi della loro porpora e del loro oro,
e la stirpe d’Assaraco, Mnesteo, e il forte Asilas
e Messapo domatore di cavalli, prole di Nettuno.
E come, dato il segnale, ripiegò ciascuno nello spazio destinato,
figgono giù nel suolo le lance e vi reclinano gli scudi.
Allora con slancio le madri affollate e la massa degli inermi
e i vecchi senza più forza occuparono le torri
e i tetti delle case, altri si pongono in piedi sul colmo delle porte.26
(allora il monte non aveva né nome, né distinzione, né gloria),
guardando verso il basso contemplava il campo ed entrambe
le armate dei Laurenti e dei Troiani e la città di Latino.28
D’un tratto così si rivolse alla sorella di Turno,
dea alla dea che ha tutela degli specchi d’acqua e delle correnti
sonore (tale dignità il sovrano degli eterei spazi,
Giove, a lei sacrò per la sottratta verginità ):
«Ninfa, onore dei fiumi, carissima all’animo nostro,
sai come te sola a tutte, quante donne latine29
salirono l’ingrato letto del nobile Giove,
abbia io preferito e volentieri ospitato in una parte del cielo:
sii cosciente del tuo soffrire, Giuturna,30 per non farmene torto.
Finché sembrò che acco...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- LE SOFFERENZE DELL'IMPERO
- BIBLIOGRAFIA
- NOTA DEL TRADUTTORE
- LIBRO I
- LIBRO II
- LIBRO III
- LIBRO IV
- LIBRO V
- LIBRO VI
- LIBRO VII
- LIBRO VIII
- LIBRO IX
- LIBRO X
- LIBRO XI
- LIBRO XII