I ragazzi terribili
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I ragazzi terribili

  1. 162 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I ragazzi terribili

Informazioni su questo libro

Due ragazzi, fratelli e sorella, un amico particolare. Ambigui legami, stretti fino ai limiti morbosi, la possibilità di un sodalizio eccentrico eppure normale come solo negli anni verdi si riesce a intrecciare. Una piccola epopea dell'età atrocemente felice e devastante che è la giovinezza.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817106160
eBook ISBN
9788858659342

PARTE PRIMA

La cité Monthiers si trova chiusa fra rue d’Amsterdam e rue de Clichy. Da rue de Clichy vi si accede attraverso un cancello, e, da rue d’Amsterdam, attraverso un portone sempre aperto e l’androne di un caseggiato la cui corte costituisce appunto la cité: vero e proprio cortile oblungo dove alcune palazzine si nascondono ai piedi degli alti muri uniformi dell’isolato. Queste palazzine, che hanno in cima delle vetrate con tende simili a quelle dei fotografi, devono appartenere a dei pittori. Le si immagina piene di armi, di broccati, di tele che rappresentano gatti dentro canestri o famiglie di ministri boliviani, e il maestro vi abita, sconosciuto, illustre, subissato di ordinazioni, di riconoscimenti ufficiali, protetto contro l’inquietudine dal silenzio di questo quartiere provinciale.
Due volte al giorno però, alle dieci e mezza del mattino e alle quattro del pomeriggio, il silenzio è turbato da una sommossa. Infatti il piccolo liceo Condorcet apre le sue porte di fronte al 72 bis di rue d’Amsterdam, e gli allievi hanno scelto il cortile come quartier generale. È la loro place de Grève. Una specie di piazza medievale, una corte d’amore, di giochi, di miracoli, una specie di borsa dei francobolli e delle biglie, un luogo malfamato dove il tribunale giudica i colpevoli e li giustizia, dove si tramano a lungo quegli scherzi tremendi che poi si consumano in classe e i cui preparativi stupiscono i professori. Perché la gioventù del quinto corso è terribile. L’anno prossimo frequenterà il quarto, in rue Caumartin, disprezzerà rue d’Amsterdam, reciterà la sua parte e abbandonerà la cartella per quattro libri legati con una cinghia e avvolti in un pezzo di feltro.
Ma, tra gli allievi del quinto, la forza che si ridesta è ancora sottomessa ai tenebrosi istinti dell’infanzia. Istinti animali, vegetali, difficili da cogliere nel loro manifestarsi, perché la memoria non li conserva più di quanto faccia col ricordo di certi dolori, e i ragazzi smettono di parlare non appena i grandi si avvicinano. Tacciono, riprendono gli atteggiamenti di un mondo diverso. Questi grandi commedianti sanno di colpo coprirsi di aculei come un animale, o armarsi di umile dolcezza come una pianta, e non divulgano mai i riti oscuri della loro religione. Noi sappiamo a malapena che essa esige delle astuzie, delle vittime, dei giudizi sommari, dei terrori, dei supplizi, dei sacrifici umani. I particolari restano nell’ombra e i fedeli possiedono un loro idioma che riuscirebbe incomprensibile a chi per caso li udisse senza essere visto. Biglie d’agata e francobolli costituiscono le monete di scambio di ogni loro commercio. Le offerte ingrossano le tasche dei capi e dei semidei, i gridi nascondono i conciliaboli, e io suppongo che se uno dei pittori, affondato nel suo lusso, tirasse il cordone che manovra le tende da fotografo, questa gioventù non gli fornirebbe nessuno di quei temi che egli predilige e che si intitolano: Spazzacamini che giocano a palle di neve, Mano calda o Gentili monelli.

Quella sera c’era la neve. Cadeva fin dalla vigilia, e naturalmente approntava un altro scenario. Il cortile indietreggiava nei tempi; pareva che la neve, scomparsa dalla confortevole terra, non discendesse più in nessun’altra parte e si ammucchiasse solamente in quella.
Gli allievi che si recavano a scuola avevano già guastato, pestato, compresso, solcato di scivoloni il terreno duro e fangoso. La neve sporca formava una carreggiata lungo i canaletti di scolo. Questa neve diventava finalmente la neve sui gradini, le tettoie e le facciate delle palazzine. Cuscinetti, cornici, pacchi grevi di cose leggere, anziché ispessire le linee, facevano fluttuare d’intorno una specie di emozione, di presentimento, e grazie a questa neve, che splendeva di se stessa con la dolcezza degli orologi fosforescenti, l’anima del lusso attraversava le pietre, diventava visibile, si mutava in quel velluto che rimpiccioliva il cortile, lo arredava, lo colmava d’incanto, lo trasformava in un fantomatico salone.
In basso, lo spettacolo era meno dolce. I lampioni a gas illuminavano in modo incerto una specie di vuoto campo di battaglia. Il suolo, scorticato vivo, mostrava selci diseguali sotto le lacerazioni della pellicola di ghiaccio; davanti alle bocchette di scarico, mucchi di neve sporca favorivano le imboscate; una perfida tramontana abbassava a tratti le fiammelle dei lampioni, e gli angoli d’ombra già vegliavano sui loro morti.
Vedendolo così, l’ambiente cambiava. Le palazzine cessavano di essere i palchi di uno strano teatro e diventavano delle abitazioni oscurate appositamente, barricate lungo il percorso del nemico.
Perché la neve toglieva al cortile il suo aspetto di libera piazza, aperta ai giocolieri, ai saltimbanchi, ai carnefici e ai mercanti, conferendogli invece un significato speciale, una destinazione precisa di campo di battaglia.
Dalle quattro e dieci il combattimento avvampava in modo tale che diventava azzardato attraversare il portico. Sotto questo portico si ammassavano le riserve, ingrossate di nuovi combattenti che arrivavano soli o a due a due.

«Hai visto Dargelos?»
«Sì... no, non lo so.»
La risposta veniva da un allievo che, aiutato da un altro, sosteneva uno dei primi feriti e lo riconduceva dal cortile sotto il portico. Il ferito, con un fazzoletto attorno al ginocchio, saltava su una gamba sola aggrappandosi alle loro spalle.
L’interrogante aveva un volto pallido, gli occhi tristi. Si sarebbero detti gli occhi di un malato; zoppicava, e la mantellina che gli scendeva a mezza gamba sembrava nascondere una gobba, una protuberanza, una qualche straordinaria deformità. Improvvisamente gettò all’indietro le falde della mantellina, si avvicinò all’angolo dove si ammucchiavano le cartelle degli allievi; allora si vide che la sua andatura e il suo fianco malato altro non erano che una simulazione dovuta al modo particolare di portare la pesante cartella di cuoio. Abbandonata la cartella, cessò di essere infermo; ma i suoi occhi non mutarono espressione.
Si diresse verso la battaglia.

A destra, sul marciapiede dove si apriva l’androne, stavano interrogando un prigioniero. Il lampione a gas illuminava la scena in modo discontinuo. Il prigioniero (uno dei piccoli) era tenuto fermo da quattro allievi, con la schiena appoggiata contro il muro. Uno dei grandi, accosciato tra le sue gambe, gli tirava le orecchie e lo obbligava a guardare delle orribili smorfie. Il silenzio di quel viso mostruoso e mutevole terrificava la vittima. Il ragazzino piangeva e cercava di chiudere gli occhi, di abbassare la testa. Ogni volta che ci provava, il facitore di smorfie afferrava una manciata di neve grigia e gli frizionava le orecchie.
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illustrazione di Jean Cocteau
L’allievo pallido girò attorno al gruppo e si fece strada attraverso i proiettili.
Cercava Dargelos. Lo amava.
Questo amore era tanto più bruciante in quanto precedeva la conoscenza dell’amore. Era un malessere vago ed intenso, contro cui non esisteva alcun rimedio, un desiderio casto, senza sesso e senza scopo.
Dargelos era il gallo della scuola. Apprezzava quelli che lo sfidavano o che lo assecondavano. Orbene, ogni volta che l’allievo pallido si trovava di fronte a dei capelli scompigliati, a delle ginocchia ferite, a una giacca dalle tasche enigmatiche, perdeva la testa.
La battaglia gli infondeva coraggio. Doveva correre, raggiungere Dargelos, battersi, difenderlo, dimostrargli di che cosa fosse capace.
La neve volava, si schiacciava contro le mantelline, stellava i muri. Qua e là, negli intervalli d’ombra fra i lampioni, si vedeva il particolare di un volto rosso dalla bocca spalancata, di una mano che indica il bersaglio.
Una mano indica l’allievo pallido che esita e che sta per chiamare un’altra volta. Ha appena riconosciuto, diritto su una scalinata, uno degli accoliti del suo idolo; ed è questo accolito che lo condanna. Apre la bocca: «Darg...»; immediatamente la palla di neve lo colpisce, penetra in bocca, paralizza i denti. L’allievo ha appena il tempo di scorgere un sorriso e, accanto a quel sorriso, in mezzo al suo stato maggiore, Dargelos che si drizza, le guance in fiamme, i capelli in disordine, con un gesto immenso.
Un colpo lo raggiunge in pieno petto. Un colpo sordo. Un pugno di marmo. Il pugno di una statua. La testa gli si svuota. Immagina Dargelos su una specie di podio, il braccio pendente, l’espressione stranita, in una luce soprannaturale.
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illustrazione di Jean Cocteau
Giaceva a terra. Un fiotto di sangue sgorgatogli di bocca gli imbrattava il mento e il collo, inzuppava la neve. Risuonarono dei fischi. In un attimo il cortile si svuotò. Solo alcuni curiosi si strinsero attorno al corpo e, senza portare alcun aiuto, guardarono avidamente la bocca macchiata di rosso. Alcuni si allontanarono timorosi, facendo schioccare le dita; sporgevano le labbra, inarcavano le sopracciglia e scuotevano la testa; altri raggiunsero le loro cartelle con uno scivolone. Il gruppo di Dargelos rimase immobile sui gradini della scalinata. Infine apparvero il censore e il custode della scuola, avvertiti dall’allievo che la vittima aveva chiamato Gérard al momento di entrare in battaglia. Il ragazzo li precedeva. I due uomini sollevarono il ferito; il censore si girò dalla parte dell’ombra: «È lei, Dargelos?»
«Sì, signore.»
«Mi segua.»
E il gruppo si mise in cammino.

I privilegi della bellezza sono immensi. Essa agisce anche su coloro che non la constatano.
I maestri amavano Dargelos. Il censore era estremamente seccato di questa storia incomprensibile.
Lo scolaro venne trasportato in portineria, dove la custode, che era una brava donna, lo lavò e tentò di fargli riprendere i sensi.

Dargelos stava ritto sulla soglia della porta. Dietro di lui si pigiavano le teste dei curiosi. Gérard piangeva stringendo la mano dell’amico.
«E ora racconti, Dargelos» disse il censore.
«Non c’è niente da raccontare, signore. Stavamo lanciando palle di neve. Io gliene ho tirata una. Doveva essere molto dura. L’ha preso in pieno petto, lui ha fatto ’oh!’ ed è caduto a terra. In un primo momento ho creduto che perdesse sangue dal naso a causa di un’altra palla di neve.»
«Una palla di neve non sfonda il torace.»
«Signore, signore,» disse allora lo scolaro che rispondeva al nome di Gérard, «nella neve c’era nascosto un sasso.»
«È vero?» domandò il censore.
Dargelos alzò le spalle.
«Non vuol rispondermi?»
«È inutile. Guardi, sta aprendo gli occhi, lo chieda a lui...»
Il ferito si rianimava. Teneva la testa appoggiata contro la manica del compagno.
«Come si sente?»
«Le chiedo scusa...»
«Non si scusi, lei è ferito, ed è anche svenuto.»
«Mi ricordo.»
«Può dirmi per quale ragione è svenuto?»
«Ho ricevuto una palla di neve in pieno petto.»
«Non ci si sente male per questo.»
«Non ho ricevuto nient’altro.»
«Il suo compagno sostiene che quella palla nascondeva una pietra.»
Il ferito vide che Dargelos alzava le spalle.
«Gérard è matto» disse. «Tu sei matto. Quella palla di neve era una palla di neve. Stavo correndo, devo aver avuto una congestione.»
Il censore respirò.
Dargelos stava per uscire. Poi cambiò parere, e sembrò dirigersi verso il ferito. Giunto di fronte al banco dove i custodi vendevano portapenne, inchiostri e dolciumi, esitò, cavò di tasca alcune monete, e in cambio prese uno di quei bastoncini di liquerizia che assomigliano a lacci da scarpe e che gli scolari amano succhiare. Poi attraversò il locale, si portò la mano alla tempia in una specie di saluto militare e scomparve.

Il censore voleva accompagnare l’infermo. Aveva già fatto cercare un’automobile, che infatti li aspettava, allorché Gérard sostenne che era inutile, che la presenza del censore avrebbe preoccupato molto la famiglia, e che si incaricava lui stesso di ricondurre a casa il ferito.
«Del resto guardi,» aggiunse, «Paul sta riprendendo le forze.»
Il censore non ci teneva troppo a quella passeggiata. Nevicava. L’allievo abitava in rue Montmartre.
Sorvegliò l’entrata in automobile, e come vide che il giovane Gérard avviluppava il compagno con la sua sciarpa di lana e la sua mantellina, pensò che le proprie responsabilità fossero al sicuro.
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L’automobile procedeva lentamente sul terreno ghiacciato. Gérard guardava la povera testa sballottata da sinistra a destra in un angolo del veicolo. La vedeva di sotto in su rischiarare l’angolo col suo pallore. Indovinava a fatica gli occhi chiusi e non distingueva che l’ombra delle narici e delle labbra attorno a cui rimanevano delle piccole croste di sangue. Mormorò: «Paul...». Paul udiva, ma un’incredibile stanchezza gli impediva di rispondere. Fece scivolare la mano tra le pieghe delle mantelline e la posò sulla mano di Gérard.

Di fronte a un pericolo di tal natura, l’infanzia si divide in due estremi. Non sospettando la profondità dove si àncora la vita con le sue potenti risorse, essa immagina subito il peggio; ma questo peggio non le sembra affatto reale a causa dell’impossibilità in cui si trova di prendere in considerazione la morte.
Gérard si ripeteva: «Paul muore, Paul sta morendo»; ma non ci credeva. La morte di Paul gli sembrava la continuazione naturale di un sogno, un viaggio sulla neve che sarebbe durato per sempre. Perché se amava Paul come Paul amava Dargelos, il prestigio di Paul, agli occhi di Gérard, si fondava sulla sua debolezza. E poiché Paul teneva lo sguardo fisso sul fuoco di un Dargelos, Gérard, forte e giusto, lo avrebbe sorvegliato, spiato, protetto, impedendogli di bruciarvisi. Era stato davvero stupido sotto il portico! Paul cercava Dargelos, Gérard aveva voluto stupirlo con la sua indifferenza, e lo stesso sentimento che spingeva Paul verso la battaglia lo aveva dissuaso dal seguirlo. Di lontano l’aveva visto cadere, macchiato di sangue, in una di quelle pose che tengono a distanza i curiosi. Temendo, nel caso si fosse avvicinato, che Dargelos e il suo gruppo gli avrebbero impedito di dare l’avviso, si era precipitato in cerca d’aiuto.
Ora ritrovava il ritmo dell’abitudine, vigilava Paul; era la sua consegna. Lo portava via.
Questo sogno lo innalzava in una zona d’estasi. Il silenzio della vettura, i riverberi luminosi, la sua missione, erano tutti elementi che concorrevano alla creazione di un incanto. Gli sembrava che la debolezza dell’amico si pietrificasse, che assumesse una grandezza definitiva, e che la propria forza trovasse infine un’applicazione degna.
D’improvviso pensò che aveva accusato Dargelos, che era stato il rancore a suggerirgli quelle parole, a fargli commettere un’ingiustizia. Rivide la stanza del custode, il ragazzo sprezzante che alzava le spalle, l’occhio azzurro di Paul, un occhio colmo di rimprovero, e il suo sforzo sovrumano per dire: «Tu sei matto!» e scagionare in tal modo il colpevole. Allontanò il ricor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. JEAN COCTEAU o LE CIFRE DEL DESTINO
  4. OPERE PRINCIPALI DI JEAN COCTEAU
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA