L'infanzia nelle guerre del Novecento
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L'infanzia nelle guerre del Novecento

  1. 352 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'infanzia nelle guerre del Novecento

Informazioni su questo libro

Benché rimangano le vittime principali, i bambini diventano al contempo veri e propri attori dei conflitti armati. È un processo progressivo e differenziato a livello mondiale sul piano dei tempi, della geografia, delle dimensioni e delle caratteristiche stesse delle guerre, da quelle di massa della prima metà del Novecento a quelle locali, fino ai conflitti asimmetrici postnovecenteschi. Bruno Maida intende raccontare quelle vicende, ponendo una particolare attenzione ad alcuni temi specifici: la legislazione internazionale per la protezione dei bambini nelle guerre, che si è però accompagnata a un loro crescente coinvolgimento; il trauma e la resilienza, attraverso i quali i bambini si rivelano non semplici soggetti passivi bensí persone capaci di profonda rielaborazione e adattamento; i linguaggi per raccontare quelle esperienze, dalle parole ai giochi ai disegni. Nei disegni di guerra fatti dai bambini le strade sono molto rare e non collegano mai due luoghi. Tutto si riduce a un punto dove c'è il corpo senza vita di qualcuno oppure un veicolo brucia. Metafora di una vita sospesa, l'assenza di strade rinvia alla responsabilità degli adulti che devono costruirle e aiutare i bambini a ritrovarle. La guerra è una frattura profonda nella vita di chi ne faccia esperienza, condiziona i comportamenti successivi, sedimenta le memorie che si radicano nell'identità. Lo è ancora di piú per l'infanzia per la quale, nella stratificazione delle diverse età che la compongono, la guerra coincide con il tempo della formazione, della definizione di se stessa, della costruzione di un proprio sguardo sul mondo. Che siano stati mobilitati, resi protagonisti passivi o attivi della violenza, colpiti da traumi e perdite, rimasti soli oppure, al contrario, attraversino il tempo della guerra protetti e non invasi dagli effetti piú laceranti, i bambini sono stati in ogni caso sempre piú coinvolti e condizionati dai conflitti armati del Novecento e gettati sulla scena fino a trasformarsi, nella seconda metà del secolo, in veri e propri combattenti. E ciò è accaduto all'interno di un paradosso: all'affermarsi e al diffondersi di un sistema di protezioni nazionali e internazionali per i civili nei contesti di guerra, con un'attenzione specifica nei confronti dei bambini, è corrisposto un progressivo e crescente coinvolgimento diretto e indiretto dell'infanzia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806218980
eBook ISBN
9788858427200
Argomento
Storia
Capitolo quinto

In guerra

I luoghi delle esplosioni
erano i nostri parchi giochi1.

Una piccola prefazione.

Josefina Odriozola aveva quattordici anni e lavorava con la madre al mercato quando nel pomeriggio del 26 aprile 1937 i bombardieri tedeschi della legione Condor, con la protezione di aerei italiani, giunsero sul cielo della cittadina basca di Gernika, che tutti conoscono con il suo nome castigliano, Guernica. Josefina ricorda che mancavano venti minuti alle cinque:
Me lo ricordo bene […] Abbiamo mollato tutto al mercato e ci siamo dirette verso casa. Abitavamo appena fuori città, ma poi è iniziato il bombardamento e noi ci siamo ritrovate lí, nella piazza principale. Sono arrivati tre aerei pieni di bombe, e quando sono andati via erano vuoti. Bombe, bombe ovunque, dappertutto, una dopo l’altra. Era tutto in fiamme2.
Le autorità militari della cittadina, dove vivevano circa diecimila persone, avevano vietato il mercato, ma i contadini della zona si riunivano lo stesso per vendere i loro prodotti. Le bombe furono sganciate da una cinquantina di aerei che componevano la squadriglia: incendiarono e distrussero tutto in circa tre ore, e causarono un numero imprecisato di vittime, intorno alle 150-200. Non c’era una difesa antiaerea; erano stati invece costruiti dei rifugi e Luis Iriondo, anche lui quattordicenne, si nascose in uno di essi:
Si sentivano le bombe, e l’aria calda che ti arrivava addosso dalle esplosioni. Ho provato a pregare. Poi è finito tutto, ma io non avevo ben capito cosa fosse successo. Sapevo solo che si era trattato di un bombardamento e mi aspettavo di trovare case in macerie. Quando però sono uscito dal rifugio, ho visto che era tutto in fiamme3.
La disperazione degli abitanti fu rappresentata in Guernica, il celebre dipinto di Picasso dove sulla sinistra si staglia una donna che urla al cielo, con in grembo un bambino ucciso. Immagine di una Vergine laica che mostra il corpo non come segno di redenzione, ma come ferita non sanabile provocata dalla guerra e dal fascismo, perché per Picasso quello sferrato contro donne e bambini era «un attacco contro la sostanza stessa dell’umanità»4. Non fu il primo bombardamento a tappeto né la prima strage di civili ma diventò presto, anche grazie a Guernica, il simbolo dei crimini compiuti da Franco e dai suoi alleati. Per la popolazione civile, la precarietà della vita di tutti i giorni e la presenza costante del pericolo e della morte divennero elementi di una quotidianità profondamente trasformata. Lo fu prima di tutto nella vita dei bambini, in particolare per coloro che appartennero alla cosiddetta «generazione di Guernica»5. L’infanzia spagnola dovette imparare a vivere in guerra, all’interno di un’esistenza collettiva nella quale si modificavano i tempi e gli spazi, e nella quale diventava necessario costruire schermi psicologici davanti alla violenza che invadeva ogni interstizio. I bambini continuarono a giocare anche nei rifugi e sotto le bombe: raccolsero le schegge ancora calde degli ordigni esplosi oppure commentarono con espressioni grottesche e divertite la maggiore o minore decomposizione dei cadaveri di monaci e suore disseppelliti dai repubblicani a Barcellona per esporli alla popolazione6. Molti disegnarono lo scenario della guerra attraverso i bombardamenti aerei, che coniugavano la potenza della distruzione con l’incanto dello spettacolo di suoni e luci7.
Guernica fu insomma «una piccola prefazione»8 di ciò che sarebbe stata la Seconda guerra mondiale con le sue macerie, il coinvolgimento dei civili, le stragi di massa. Lo fu anche nel tentativo di allontanare il piú possibile i bambini dal pericolo. Una delle esperienze collettive che segnò infatti la vita delle popolazioni fra il 1939 e il 1945 fu lo sfollamento per periodi piú o meno lunghi, dovuto alla necessità di proteggersi dai bombardamenti o di nascondersi perché considerati nemici politici o razziali, oppure al ripopolamento di aree da parte dell’occupante, e infine a causa della forzata risistemazione geopolitica dell’Europa al termine della guerra. Grandi spostamenti di massa segnarono e caratterizzarono vaste zone del mondo occidentale e asiatico, in continuità con ciò che già era successo nella prima metà del Novecento9. Accadde anche in Spagna, durante la guerra civile. Decine di migliaia di bambini furono trasferiti da Madrid, dai fronti o dagli altri centri urbani verso le oltre 500 colonie sotto il controllo del governo repubblicano10. Diverse organizzazioni umanitarie si attivarono per trasferire il numero piú alto di bambini nei paesi che, direttamente o indirettamente, appoggiavano i repubblicani. Dovettero tuttavia far fronte a vari ostacoli, come per esempio nel caso americano, dove membri del Congresso paventarono il pericolo che i bambini fossero inviati per fare propaganda comunista. Furono viaggi difficili, con mezzi di fortuna. I bambini soffrirono per quelle condizioni e per la solitudine, solo in parte contenuta dalle grandi e festose accoglienze nei porti di arrivo, in Francia, in Russia, in Gran Bretagna. Orfanotrofi, colonie, famiglie, tendopoli, case religiose offrirono asilo, fra il 1937 e il 1938, a circa trentamila bambini: un tetto, del cibo e spesso un’istruzione, con tutte le difficoltà dovute alla lingua, alla diversa alimentazione, alle abitudini, ma anche alla libertà e allo spirito di ribellione di un’infanzia che nel suo paese aveva vissuto la guerra, l’abbandono, la violenza. Spesso i fratelli vennero divisi, determinando un ulteriore trauma: «Le famiglie prendevano un solo bambino, – ha raccontato una di loro. – Mio fratello fu preso da una famiglia che sembrava ricca. Io afferrai la manina di mia sorella mentre aspettavamo la nostra sorte. Mio padre era morto, mia madre in Francia. Io ero l’unica al mondo che potesse proteggerla. Ma la condussero via, scossa dai singhiozzi»11. Per quasi tutti i bambini spagnoli accolti nei paesi europei, vi fu poi un progressivo e difficile rimpatrio12.
Si fuggiva dalla Spagna franchista ma anche dalla Germania nazista, dove il crescente antisemitismo culminò nella «Notte dei cristalli» del novembre 1938, dopo la quale si poterono contare, fra Germania e Austria, circa 70 000 orfani causati direttamente o indirettamente dal pogrom. Il 16 dicembre 1938 il «Jewish Chronicle» riportava il commento di lord Rothschild, secondo il quale «se le vittime della persecuzione nazista non riescono a fuggire entro due anni, una grossa parte di loro è condannata a morire»13. Che fosse spirito profetico o meno, nascondere e proteggere i bambini divenne una priorità per i genitori, per le organizzazioni umanitarie e per quelle ebraiche; assai meno, al di là dei proclami, per i governi. Il risultato piú significativo fu l’operazione Kindertransport: la Gran Bretagna accolse, prima che la guerra costringesse a sospenderla, almeno diecimila bambini (ebrei ma non solo) provenienti soprattutto da Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi. Fu anche uno dei primi momenti in cui i genitori ebrei si trovarono a dover scegliere se tenere i figli con sé, sperando di riuscire a proteggerli, oppure abbandonarli, nell’auspicio di garantire loro la fuga e la salvezza. Norbert aveva undici anni e viveva con i suoi genitori e i suoi fratelli a Wanne-Eickel, in Germania. Sua madre decise di portarlo all’ultima stazione prima del confine olandese e metterlo su un treno (in seguito avrebbe raggiunto la Gran Bretagna):
I miei genitori si trovarono di fronte a una scelta terribile, una scelta che nessun genitore con bambini piccoli dovrebbe mai essere costretto a fare. Sapevano che non saremmo riusciti a lasciare la Germania in un futuro prossimo, e cosí scelsero di mettermi in salvo mandandomi in Olanda, all’età di undici anni – in una terra straniera, alla mercé di sconosciuti, in un Paese sconosciuto di cui non conoscevo la lingua. E senza sapere se e quando avremmo potuto rincontrarci14.

Quando i bambini entrarono in guerra.

Janine Phillips iniziò a scrivere il suo diario il giorno in cui compí dieci anni. Era il maggio 1939 e la bambina abitava in un villaggio polacco, dove la famiglia si era temporaneamente trasferita da Varsavia. Trascorreva una vita tranquilla. Nulla sapeva del Patto d’Acciaio firmato dalla Germania e dall’Italia il 22 di quel mese né dei piani bellici che Hitler stava preparando con i suoi generali. Iniziò a interrogarsi qualche mese dopo, quando sentí suo padre dire che la guerra era ormai inevitabile. Alla domanda della bambina sul perché Hitler volesse attaccare la Polonia, lui rispose che era un prepotente. «Spero solo che sappia che la gente pacifica non lo considera molto simpatico», commentava Janine il 23 agosto. Dopo i primi bombardamenti della capitale, fu escluso di poter ritornare a Varsavia e il 3 settembre i genitori trasportarono i loro averi in campagna, su un carro trascinato da un cavallo. Raccontarono a Janine che nella capitale le persone erano entusiaste e pronte alla guerra: «Anche io vorrei essere a Varsavia, perché se mi ci metto so combattere molto bene»15. Ma insieme giunsero notizie di morte e già il giorno dopo i suoi nonni rimasero sconvolti dal fatto che centinaia di cavalleggeri erano rimasti uccisi in battaglia. L’incontro di Janine con la morte fu però diverso. Curiosa di vedere come erano fatti i tedeschi, un giorno si avventurò nei campi vicini a casa, si trovò in mezzo a una sparatoria e ciò che la impressionò di piú fu una mucca ferita da cui il sangue usciva a fiotti. Piú drammatica, una decina di giorni dopo, fu l’uccisione del suo cane, Gabriel, da parte di un tedesco. Il soldato era entrato per chiedere informazioni sulla raccolta delle patate e il cane gli aveva morso una gamb...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Ringraziamenti
  5. L’infanzia nelle guerre del Novecento
  6. I. Un esercito di bambini
  7. II. Protetti
  8. III. Mobilitati
  9. IV. Piccoli soldati
  10. V. In guerra
  11. VI. In armi
  12. VII. Bambini
  13. Elenco dei nomi
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright