- 道可道非常道
- 名可名非常名
- 無名天地之始
- 有名萬物之母
- 故常無欲以觀其妙
- 常有欲以觀其徼
- 此兩者同出而異名
- 同謂之
- 玄之又玄
- 眾妙之門
- Dao che come Dao può essere preso, Eterno Dao non è,
- [poiché] nome che può essere nominato, Nome Eterno non è.
- ‘Senza-nome’ è, di Cielo e Terra, avvio,
- ‘ha-nome’ quel che dei Diecimila Esseri è Madre.
- Sicché, nella costante cessazione di desio, se Ne contempla il prodigio,
- e nel costante desio se Ne contempla il tratto manifesto.
- Queste due realtà, comune hanno la fonte, ma distinti nomi,
- e insieme le si designano:
- ‘Dell’Arcano ancor piú Arcano’,
- ‘Accesso di ogni Prodigio’.
La stanza 1 coincide con uno dei passi piú dibattuti e controversi del pensiero cinese antico. La prima occorrenza del termine dào 道 è sostantivo e può riferirsi:
a) al Principio cosmico ineffabile che regge l’universo (Dao);
b) a ogni forma di teoria o discorso prescrittivo che diventa modello di comportamento da seguire (dao);
c) il modus operandi del mondo stesso, la via, il «decorso» che i fenomeni – nel loro insieme o separatamente – tracciano per rivelare ciò che sono, ovvero, la realtà nella sua convergenza di essere e dover-essere.
La seconda occorrenza di dào 道, preceduta dall’ausiliare passivizzante ke 可, ha invece funzione verbale e può essere intesa come «essere Dao-izzato (o dao-izzato)», «Dao-izzabile (o dao-izzabile)», ma anche «essere considerato in quanto Dao/dao», cosí come «essere espresso a parole, detto, pronunciato», poiché dào 道 significa anche «parlare, dire». Va incluso anche il senso di «essere tracciato come un solco» o un «percorso», una «via» che si esprime in una linea di condotta che, a sua volta, definisce un modello cui ispirarsi attraverso una traccia che orienta e «guida» (come suggerito dal termine quasi-omofono dăo 導, sovente intercambiabile nelle fonti antiche con 道). La distinzione tra «dire» e «guidare» è, in verità, solo apparente, poiché dào 道 allude a un «discorso» che si fa «metodo» e «guida» per la propria condotta. Il Dao – qualunque dao, in realtà – viene «preso» in quanto «intrapreso», «percorso», ma anche «considerato» o «inteso» e pertanto «espresso», per quanto indicibile sia.
Il senso della terza occorrenza di dào 道 è determinato dall’attributo chang 常. Gli esegeti tendono a rendere l’espressione chang Dao 常道 con «il Dao costante, eterno». L’impiego dell’articolo determinativo singolare anziché dell’indeterminativo «un» oppure della forma plurale «i (Dao eterni, costanti)» è decisivo. Nel primo caso si ammette che dào 道 non possa che esprimere il Dao, l’unico principio che determina questo decorso dell’universo. Tuttavia, nel passare da chang Dao «un Dao costante, eterno» a «i dao costanti, eterni» viene lasciata aperta la possibilità che sussistano vie, metodi alternativi, ugualmente legittimi. Sul piano etico ed epistemologico, volendo seguire la tesi di HANSEN 1992, ciò significa riconoscere che esistono molteplici discorsi prescrittivi, infiniti dao, «metodi» parimenti ammissibili che guidano il comportamento e che nessuno di essi è un dao costante o il dao eterno, cioè un insegnamento capace di fornire linee guida universalmente valide. La traduzione qui proposta, senza l’uso dell’articolo, tenta di conciliare le varie implicazioni, cosmologiche, etiche ed epistemologiche di cui il testo si fa portatore.
L’ampiezza delle soluzioni ermeneutiche è estesissima, ma il baricentro interpretativo si localizza nella constatazione secondo cui fintantoché pretenderemo di articolare un discorso che descriva il Principio Supremo, ecco che produrremo solo rappresentazioni parziali, soggettive, limitate, poiché non coglieremo cosí la natura del Dao in quanto realtà incondizionata. Confidando nell’efficacia del linguaggio, dei «nomi» (ming 名), che richiamano ed evocano solo realtà finite, falliremo anche nel formulare una dottrina morale prescrittiva (dao in quanto «metodo, modello di comportamento») conforme alle leggi del cosmo. Se è vero che il Dao, infatti, non essendo una cosa, un oggetto, è «senza-nome» (wuming 無名: rinvio a Laozi 1.3, 25.6, 32.1, 41.18), è altrettanto vero che ogni dottrina, essendo fondata sul linguaggio, non potrà che essere parziale e fallace.
Il passaggio dai vv. 3-4 ai vv. 5-6 chiarisce la relazione tra ming e yu 欲 «desiderio, volizione», che è strettissima: «desiderare, volere», infatti, è frutto della riduzione del mondo a un complesso di enti separati, distinti, che sussistono e sono oggetto del desiderio proprio perché «nominabili». L’universo costellato di nomi si frantuma in elementi – i fenomeni, «gli esseri, le cose» (wu 物) – ai quali viene imposto un ordine sulla base di desideri e predilezioni soggettive. Questo perché «nominare» non si risolve mai in un puro atto verbale: il linguaggio risponde a precisi criteri culturali ed è causa ed effetto di scelte comunque arbitrarie, poiché condizionate dalla trasmissione di credenze che si risolvono in atti, in interventi invasivi sul mondo.
In quella condizione definita dalle principali teorie cosmologiche e cosmogoniche cinesi wu 無 «assenza, non esistenza», «realtà non manifesta», nominare è vano, poiché niente è distinguibile e neppure desiderabile. La relazione tra wu 無, wu ming 無名 «senza-nome» e Dao risulta chiara dal passo 30.12.37 del Zhuangzi e dalla stanza 25 del Laozi, dove si evidenzia come l’universo sia, in principio (shi 始, v. 3), il regno dell’indistinzione, della con-fusione, dell’occultamento, piú che del Non-essere assoluto. Wu 無 evoca in primo luogo l’assenza di determinazioni che precede la presenza (you 有) degli esseri in quanto elementi caratterizzati da precise qualità e differenziati tra loro e rispetto al Dao. La separazione dall’unità ideale con la Madre genitrice (mu 母, v. 4) è sancita dal ricorso ai nomi (ming 名), attraverso cui è possibile «distinguere, scindere», ovvero percepire la realtà molteplice e condizionata, che per lo stolto è l’unica realtà autentica, al punto da oscurare la natura stessa del Dao, che non è piú riconosciuto quale radice comune (ben 本) degli esseri.
Il v. 5 suggerisce che non nutrire desideri porta a contemplare il Dao nel Suo stato miao 妙 «elusivo, sottile, indefinibile e misterioso». In realtà, il riferimento dell’espressione qi miao 其妙 («il Suo aspetto sottile, prodigioso, profondo e misterioso») è molteplice. Si parla davvero del Dao? Oppure di wu 無? O forse di wu ming 無名? O di wu yu 無欲, come lascia forse intendere il commentario di Heshanggong? Una possibilità è che quelle condizioni definite wu 無, wu ming 無名, wu yu 無欲 coincidano tutte con l’aspetto sottile, elusivo del Dao. Fondamentale risulta, inoltre, l’evidenziazione del contrasto tra miao (v. 5) e jiao 徼 «confine, limite tracciabile», ovvero segno che marca il passaggio da una condizione con-fusa a una dimensione manifesta, palese (v. 6).
Ancor piú decisiva risulta la determinazione del senso dell’espressione liangzhe 兩者 le «due [cose]» nel v. 7. Secondo Wang Bi (226-49), il riferimento è all’«inizio, all’origine» (shi 始, v. 3) e alla «Madre» (mu 母, v. 4). Per un approfondimento sulla distinzione tra «inizio» e «Madre» in Wang Bi, rinvio a WAGNER 2000 (pp. 288-90) e LIN 1977 (pp. 3-4). Da uno sguardo complessivo al Laozi emerge come tale distinzione non sia sempre chiara (vedi Laozi 25.5-7 e 52.1), sebbene le indicazioni nel commentario di Wang Bi alla stanza 1 suggeriscano che shi 始 debba legarsi a sheng 生 «gen...