Arrivai a Mezquite perché cercavo Visitación Salazar, la donna che avrebbe seppellito i miei figli e mi avrebbe insegnato a sotterrare quelli degli altri. Camminai fino alla fine del mondo, o dove credevo che finisse il mio. La trovai una mattina di maggio accanto a un tumulo di loculi. Indossava un paio di leggings rossi, gli stivali da lavoro e un foulard colorato annodato alla testa. Una corona di vespe le svolazzava intorno. Aveva l’aria di una madonna nera persa in una discarica.
In quella landa arida, Visitación Salazar era l’unica cosa viva. La sua bocca con le labbra scure nascondeva denti bianchi e quadrati. Era una negra bella, proporzionata e prestante. Dalle sue braccia, irrobustite a furia di cementare tombe, pendevano sacche di pelle che il sole faceva brillare. Anziché di carne e ossa, sembrava fatta d’olio e lignite.
La sabbia sporcava la luce e il vento perforava le orecchie; un lamento che sgorgava dalle crepe aperte nella terra che calpestavamo. Piú che una brezza, quell’aria era un avvertimento, un turbine di sabbia denso ed estraniante come la follia o il dolore. La fine del mondo era questo: un mucchio di polvere fatto di ossa perse per strada.
All’entrata era appeso un cartello dipinto a grosse pennellate: IL TERZO PAESE, un cimitero illegale dove finivano i morti che Visitación Salazar sotterrava in cambio di un’offerta, e qualche volta anche senza. Quasi tutti quelli che riposavano là erano nati e morti lo stesso giorno. Le loro misere tombe avevano scritte scarabocchiate sul cemento fresco: la grafia incerta di chi non riposerà mai in pace.
Visitación non si voltò neanche a guardarci. Parlava al telefono. Nella mano sinistra teneva l’apparecchio; nell’altra dei fiori di plastica che conficcò nella malta appena stesa.
– SÃ, tesoro, ti sento!
– Angustias, sei sicura che questa donna ci darà retta? – domandò Salveiro.
Assentii.
– Ti ascolto, mamita! – proseguà lei, imperterrita. – Ti ho detto che mancano le nicchie! Ahhh! Va via il segnale…! – insistette, tragicomica.
– Quella non la smette di parlare, – brontolò lui.
– Stai zitto, Salveiro!
– Dica a quell’uomo che deve aspettare! – urlò la donna, rivolgendosi, finalmente, a noi. – I morti sono pazienti! I morti non hanno fretta!
Un’altra raffica di vento ci arse la pelle. La terra di Mezquite era una padella coperta di cardi e di pianto, un luogo in cui non c’era bisogno di mettersi in ginocchio per fare penitenza. Bastava e avanzava quella che ci aveva condotto fino a lÃ.
Il Terzo Paese era questo: una frontiera nella frontiera dove si congiungevano la sierra orientale e quella occidentale, il bene e il male, la leggenda e la realtà , i vivi e i morti.
L’epidemia e la pioggia arrivarono insieme, come i cattivi presagi. Le cicale smisero di cantare e nel cielo si formò un tumore di polvere che alla fine scaricò gocce di acqua marrone. A differenza dei mali patiti un tempo, questo fece a pezzi i nostri ricordi e i nostri desideri.
L’epidemia intaccava la memoria, prima la confondeva, poi la rodeva. Il contagio era molto veloce e piú l’età del malato era avanzata, peggiore era l’effetto. Gli anziani cadevano come mosche. I loro corpi non resistevano al logorio delle prime febbri. All’inizio dissero che era l’acqua, poi gli uccelli, ma nessuno era in grado di spiegare l’epidemia dello smemoramento che trasformò tutti in fantasmi e riempà il cielo di avvoltoi. Ci rese inetti, coprendoci di paura e di oblio. Camminavamo senza meta, persi in un mondo di ghiaccio e di febbre.
Gli uomini scendevano in strada ad aspettare. Che cosa? Non l’ho mai capito.
Noi donne ci davamo da fare per scacciare la disperazione: recuperavamo cibo, aprivamo e chiudevamo le finestre, salivamo sui tetti e spazzavamo i cortili. Partorivamo spingendo e urlando come pazze senza nessuno che ci desse neanche un po’ d’acqua. La vita si concentrava in noi, in ciò che fino a quel momento eravamo state capaci di trattenere o di espellere.
Anche mio marito contrasse il male, ma tardai ad accorgermene. I primi sintomi si confusero con il suo carattere. Salveiro parlava poco, era riservato e non provava curiosità se non per le sue cose. Quando l’avevo conosciuto, lavorava nell’officina di famiglia dove allentava bulloni con una chiave a croce o stava steso accanto a un pistone idraulico per sistemare i guasti nelle viscere dei camion scassati. Passavo ogni giorno davanti a quell’officina sporca senza badare a ciò che avveniva dentro. Ci ero entrata solo perché mi serviva dell’olio per sbloccare le serrature di casa: un qualunque liquido per lubrificare i chiavistelli, ma Salveiro si era offerto di venire a dare un’occhiata.
«Non sono le serrature, dipende dal legno. È mangiato dalle termiti, per questo le porte non chiudono, vedi?» Mi aveva mostrato una polverina di trucioli e segatura.
Era tornato in settimana per controllare il tetto e il resto della casa. L’aveva girata tutta. Per vedere se c’era qualche trave tarlata, se le gambe del tavolo pendevano o se c’era una sedia sbilenca. Andava avanti e indietro con un pezzo di carta vetrata. Carteggiava di qua e martellava di là . E tutto quello che toccava smetteva di scricchiolare o di cigolare, come se gli bastasse guardare le cose per aggiustarle.
«E quello chi è, Angustias?»
«Il figlio del gommista, papà . È venuto a sistemare le travi e le inferriate delle finestre».
Dopo ogni visita gli offrivamo una birra per ringraziarlo del disturbo. Lui si sedeva sotto la chioma del tamarindo e si lasciava interrogare.
«Perché non la smette di fare il meccanico e si dedica a queste cose? È bravissimo, – insisteva mio padre, ma Salveiro beveva senza rispondere. – Angustias ha fatto un corso e si è diplomata parrucchiera. Ne faccia uno anche lei; con il diploma da falegname potrebbe aprirsi una sua bottega».
«Mi sono appena aperta un negozio, – l’avevo interrotto per farmi bella. – A due isolati da qui. Perché non vieni a tagliarti i capelli cosà ti spiego come iscriverti ai corsi?»
Si era presentato la mattina successiva. Indossava un paio di pantaloni puliti e una camicia appena stirata. La pelle, lustra e profumata, appariva molto diversa dalle solite braccia sporche di olio e grasso. Dopo avergli lavato i capelli con lo shampoo e il balsamo lo avevo guidato alla poltrona, gli avevo coperto le spalle con una mantella e gli avevo tagliato i capelli con le forbici migliori che avevo. Le ciocche cadevano a terra umide.
Salveiro non aveva fatto il corso da falegname, ma aveva continuato a venire da noi tre volte la settimana, a portare o a riparare qualcosa.
«Angustias, figlia mia, quell’uomo è un po’ lento, ma se piace a te…» mi aveva detto mio padre all’orecchio prima di sorridere per la nostra unica foto insieme, fatta davanti alla porta del comune dove ci eravamo sposati.
Mio marito era un brav’uomo. Era bravo a letto. Sapeva toccarmi con la stessa pazienza con cui segava la legna. Non parlava, ma per me era indifferente. Il problema era proprio quello: non avevo immaginato che i suoi silenzi c’entrassero con l’indolenza che già investiva le strade, una nuvola di apatia che finà per seppellire completamente la città .
Mia madre mi ha battezzata Angustias. Piú che un nome, mi ha lasciato un segno. Per lei il mondo è sempre trascorso in silenzio. Quindi ogni volta che qualcuno mi chiama, «Angustias!», ripenso al suo destino di donna senza voce. Assomiglio alla sua sordità e alla sua angoscia. So sopportare. Sono preparata alla disgrazia. Parliamo la stessa lingua.
Fino al momento in cui nacquero Higinio e Salustio non avevo mai pensato di lasciare la città , ma era andata male. I bambini erano venuti al mondo settimini e con il cuore malato. Insieme non arrivavano a due chili sulla bilancia dell’ospedale. Le loro mani piccole e rugose si agitavano appena. Avevano le unghie viola e gli occhi stretti. La vita li aveva presi in prestito sulla strada per la morte.
Per tre mesi avevo atteso davanti a un’incubatrice, temendo il peggio. Nessuno poteva garantirmi che i loro cuori avrebbero retto, ma i medici avevano deciso di operarli lo stesso. Erano sopravvissuti, mentre la città continuava a sgretolarsi sotto la pioggia intrisa di terra che copriva i marciapiedi. Non volevo che i miei figli crescessero in quella valle fantasma che tutti stavano lasciando.
– Ce ne andiamo!
Salveiro mi guardò, morso dalla serpe dello sconforto, e riprese a trafficare con i pezzi di un frullatore guasto.
– Voglio andarmene, – avevo insistito.
– E ti sembra facile? – Mise giú il cacciavite. – Per preparare un viaggio ci vuole tempo.
– Tu puoi restare, se vuoi. Io me ne vado.
Vendemmo i mobili, la biancheria e gli utensili, anche gli specchi, le sedie e i phon del negozio. Tenni solo una forbicina per tagliare i capelli, che mi misi in tasca e che conservo ancora oggi. I soldi ci bastarono per una parte del tragitto.
Lasciammo la capitale con i bambini legati alla schiena e intraprendemmo un viaggio di oltre ottocento chilometri, per metà in autobus e per il resto a piedi. Raggiungemmo la nostra destinazione dopo aver attraversato otto Stati della sierra orientale, oltre ai tre che ci separavano da Mezquite, un paese di frontiera con il nome di un arbusto che serve per fare la carbonella.
Avevamo solo qualche moneta, tre mandarini e uno zaino con un cambio, due biberon e le bustine di latte condensato che preparavamo nei ruscelli. La fila formata da noi «camminanti» avanzava sulla Interestatal che attraversava la cordigliera centrale. La gente che scappava dall’epidemia era chiamata cosÃ.
Ci accampavamo come potevamo e usavamo qualunque rigagnolo per lavare e cucinare. Prima di riprendere il cammino, mi legavo i capelli per non infastidire i bambini con le ciocche che si muovevano. Mi ripromisi di non tagliarli finché non avessimo raggiunto la nostra meta, ovunque fosse. Salveiro camminava dietro di me, scacciando le zanzare a manate e raccogliendo pezzi di legno che si infilava in tasca. Ogni giorno che passava mi sembrava di lasciarlo piú indietro. Ero convinta che se mi fossi voltata, l’avrei visto riverso sulla strada come un albero mangiato d...