Nell’archivio della casa di famiglia di Daniele Del Giudice, sui Colli Berici, in una cartellina di cartoncino verde con sopra scritto, a mano, Taccuino di Ginevra, sono custoditi 59 fogli dattiloscritti. Quelli che oggi, per la prima volta, vengono qui dati alle stampe. Nel maggio 1984 Del Giudice decide di visitare l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare (CERN) di Ginevra per la messa a punto di un nuovo progetto: il suo secondo romanzo. A Ginevra rimane per sei giorni, dal lunedí 7 al sabato 12, appuntando cronologicamente le sue riflessioni con l’inseparabile macchina da scrivere. È lo scrittore stesso che nell’ultima giornata del diario esplicita il suo metodo di lavoro: «Il taccuino finisce cosí. A Ginevra l’ho scritto quasi sempre con lo sfalso di un giorno, e la giornata di venerdí, quella che appare come l’ultima, l’ho scritta addirittura a Roma, una settimana dopo. Manca poi l’ultimo vero giorno di permanenza, sabato, che adesso non saprei ricostruire se non sommariamente e a ritroso». Ciascun giorno di permanenza costituisce un capitolo del Taccuino: i primi quattro redatti a Ginevra, il quinto a Roma la settimana successiva e l’ultimo scritto a Venezia quasi tre mesi dopo, il 9 agosto 1984.
Parte sempre da un intento conoscitivo ogni viaggio che Del Giudice compie, lasciandosi attraversare dal paesaggio, dai luoghi, dalle persone e dai sentimenti, per mettere a fuoco trama e personaggi. Era accaduto anche per la preparazione del primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon (1983), portando lo scrittore a Trieste e a Londra. E anche con il Taccuino Australe, pubblicato a puntate dal «Corriere della Sera» nel 1990: un resoconto del viaggio in Antartide che costituisce il materiale principale dal quale si è originato, a distanza di anni, il romanzo Orizzonte mobile (2009). La missione al CERN, nell’anello sotterraneo di accelerazione lungo diversi chilometri che attraversa la frontiera svizzera e francese, è l’occasione per iniziare ad appuntare idee, «vedere», fare esperienza diretta nel piú grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Qui Del Giudice incontra scienziati di varie nazionalità, impegnati in diversi progetti, tra cui anche il fisico Carlo Rubbia che proprio nel 1984 riceverà il Premio Nobel. Lo scrittore si avvicina con discrezione alla materia e alle «macchine», sottolineandone l’aspetto ludico e immaginandole come un grosso giocattolo. Le macchine «non sono particolarmente belle; naturalmente sono molto sofisticate. […] La macchina è dunque tutta nella sua funzione – la misurazione, la rilevazione, la rivelazione – e nelle sue dimensioni, almeno dall’esterno».
È un caso, naturalmente, che l’anno del breve viaggio di ricerca al CERN coincida con il titolo del profetico libro di George Orwell. Ma nel 1984 succedono diverse cose, cose che guardano molto avanti. A inizio anno, il 22 gennaio, la Apple presenta in America il primo computer della serie Macintosh, e qualche mese prima, nell’ottobre 1983, Microsoft rilascia la prima versione di Word per DOS. Una rivoluzione, quella del personal computer, di cui tutti oggi siamo ben consapevoli, mentre allora non erano in molti a confrontarsi con la ricerca in campo informatico. Per Del Giudice, invece, il confronto tra la scrittura tecnologica e scientifica costituiva già una stringa fondamentale nel percorso narrativo, un tessuto connettivo tra il racconto e il mondo.
Sempre nel 1984 e proprio al CERN, due scienziati – il britannico Tim Berners-Lee e il belga Robert Cailliau – iniziano una collaborazione che li porterà, qualche anno dopo, alla creazione del primo sito Web del mondo. Nel 1990 Berners-Lee e Cailliau inventeranno un primo programma browser/editor ipertestuale, e il 6 agosto 1991 Berners-Lee pubblicherà il pionieristico http://info.cern.ch/hypertext/WWW/TheProject.html. Al di là delle coincidenze fortuite è questa la situazione di grande fermento scientifico nella quale sta emergendo il nuovo progetto di Del Giudice. E occorrerà riflettere ancora sul tentativo dello scrittore di testimoniare, tra i pochissimi, il cambiamento antropologico e la rappresentazione dei sentimenti nella nostra epoca in relazione al mutamento dei rapporti sociali e degli oggetti che ci circondano. Quegli stessi oggetti che perdono, in rete, materialità e diventano non-cose. A rimanere sono soltanto i nomi: «finestra», «cartella», «cestino», e l’immagine riprodotta sullo schermo del nostro pc.
Nel gennaio 1984 Del Giudice, da sempre attento lettore dell’opera di Italo Calvino, scrive per «Rinascita» una esemplare recensione di Palomar (Einaudi, 1983) dal titolo L’occhio che scrive: «È proprio questa esperienza della visività, spinta al suo punto limite, che determina la forma del libro: un libro cioè di descrizioni. […] In Palomar, la descrizione, proprio perché storia ininterrotta di una costituzione del mondo e dell’io mediati dallo sguardo, e dunque ricerca di un sentire, di un comportamento, di una saggezza, rimescola in sé il romanzesco che normalmente è altrove; e come descrizione, credo, diventa una forma nuova, autonoma e potenziata di racconto». Del Giudice sta focalizzando il campo di ricerca sulla «visività» attraverso letture scientifiche, senza dimenticare i suoi scrittori d’elezione come Musil, Conrad e Kafka, ma nemmeno gli autori della sua generazione come Peter Handke, per il quale, scrive Del Giudice nella stessa recensione a Palomar, «il vedere era un modo per raccontare altre storie, altre esperienze» per raggiungere «un’educazione del sentire attraverso una rieducazione dello sguardo».
Nei mesi successivi porta avanti la stesura di Dillon Bay, un racconto pubblicato in origine per lo Stato maggiore dell’Esercito nel 1985 e poi inserito nella raccolta Mania (1997). Dillon Bay è il nome di una fortezza militare costruita per resistere a tutti gli assedi, e che nel corso di un’esercitazione sarà scenario di una morte autentica. Il colonnello Roselani chiede al capitano Marni di «sentire» che cosa poteva essere una notte di guerra ai tempi della guerra convenzionale, ultima epoca delle fortezze: è questa la reale esercitazione a cui il giovane capitano e la sua squadra sono chiamati. Anche in Dillon Bay la ricerca si compie per indagare il mutamento delle immagini e la loro percezione in una mutata visibilità: «Io cominciavo a vedere la fortezza come una soglia tra fuori e dentro, un margine mobile nello spazio, elastico, tirato continuamente in qua e in là. Cominciavo a vedere la fortezza come una cosa meno rigida», scrive Del Giudice in questo racconto. E piú avanti: «Eravamo chini accanto al colonnello. Compivamo azioni rapide, inutili. Ogni gesto era come staccato dalla sua percezione immediata, ogni cosa che vedevamo si dilatava in una simultaneità parallela, e solo dopo aver attraversato infiniti piani tornava istantaneamente ad aderire a se stessa, ad essere quella cosa: la posizione del corpo, le pieghe della tuta, i capelli bianchi a contatto della pietra». Quella simultaneità che l’autore traduce in scrittura, moltiplicando i tempi verbali (lo farà anche in Atlante occidentale) fino ad accavallarli uno sull’altro come fossero «distanze focali», «profondità di campo».
Narrare, per Del Giudice, significa sempre lavorare in un campo di energie, un campo di forze dove tutto è ancora materia caotica, magmatica. E il Taccuino è un ottimo strumento per fissare lacerti di scrittura che non necessariamente, e non sempre tutti allo stesso modo, saranno scelti per far parte del processo di rielaborazione stilistica: quel passaggio obbligato che inizia dalla annotazione diaristica, seppure a volte filtrata dal tempo, e arriva alla stesura del romanzo. A testimoniare l’imponente lavoro di scrittura e riscrittura successivo al Taccuino, durante la redazione di Atlante occidentale, è il contenuto del suo archivio: interi faldoni di fogli dattiloscritti nei quali ogni pagina licenziata dall’autore porta con sé diverse copie di varianti.
Non c’è dubbio che il Taccuino debba essere considerato non soltanto una testimonianza di viaggio, un diario di bordo, ma un vero e proprio scritto di natura narrativa che vive di una sua omogeneità stilistica e strutturale. Ne è prova il fatto che la scrittura non è in presa diretta, ma arriva, come si è visto, a distanza di tempo – un giorno o diverse settimane – dai fatti accaduti. Ciò che Del Giudice fa è affidarsi al potenziale narrativo che ogni luogo custodisce in sé, anche nel caso in cui il luogo prescelto sia un centro di ricerca nucleare. Lo stesso potenziale intravisto dall’autore nelle letture di Robert Louis Stevenson per il quale – osserva Del Giudice – «un modo di essere poteva prendere corpo a partire dalle forme di un luogo per mezzo di una inedita relazione tra le cose osservate e l’io».
Nella prima pagina del Taccuino è già possibile rintracciare scene e immagini che faranno parte di Atlante occidentale: della copertina del romanzo prima ancora che del suo contenuto. Nella descrizione dell’arrivo alla stazione ferroviaria di Ginevra, Del Giudice scrive infatti: «Subito dopo il confine avevo cominciato a guardare la ferrovia, cercando di riconoscere il materiale – soprattutto i pali della linea aerea, ma anche i ponti, e nelle stazioni le carrozze e i locomotori – per vedere se assomigliavano ancora al ricordo che avevo dei treni elettrici Märklin con cui giocavo da bambino». Sarà proprio la riproduzione a stampa del «Coccodrillo» di latta, il locomotore verde icona della Märklin, a comparire sulla copertina della prima edizione del romanzo, quello stesso locomotore che torna nelle ultime pagine e nella scena finale di Atlante occidentale: «all’incrocio con la galleria gli resta nella coda dell’occhio l’immagine di un uomo con i capelli bianchi fermo davanti a una vetrina, che guarda con le braccia conserte un plastico di treni elettrici, che ha visto tutto questo e che in questo istante, nell’istante stesso in cui Brahe gli si para davanti col fiatone, smette di vederlo».
Nella terza giornata del Taccuino, il 9 maggio 1984, qualcosa prende forma nello sviluppo della trama. I due personaggi principali di Atlante occidentale non hanno ancora un corpo né un nome, ma soltanto la divisione tra il versante dello scienziato e quello del vecchio scrittore, che formerà le caratteristiche peculiari e distintive di Pietro Brahe e Ira Epstein: «Ora devo ammettere che l’unica cosa davvero interessante, tra quelle viste o accadute fin qui, non viene dal versante “fisico” del mio progetto, ma esattamente dall’altra metà, quella che per brevità chiamo “il vecchio scrittore”». Sono i primi tratti a matita, gli abbozzi del progetto, il momento in cui – con le stesse parole di Atlante occidentale – «[si] comincia a vedere una storia con la sua aria e la sua luce e i suoi oggetti e i suoi personaggi». Poco piú avanti, nella stessa giornata del Taccuino, Del Giudice scrive di voler visitare qualche piccolo paese nei dintorni del CERN, come Crozet o Saint-Genis, per capire se sia possibile collocare lí l’abitazione del suo vecchio scrittore. In questa ricerca del luogo per il futuro Ira Epstein, al castello di Ferney-Voltaire, avviene l’incontro con Jérôme: un ragazzo di 27 anni, omosessuale, futuro erede della proprietà, che abita insieme alla madre in una villa di fronte. A lui, definito un novello Candide, Del Giudice racconta la trama del suo primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon, e traccia l’idea del nuovo lavoro. Il ragazzo è nuovamente protagonista del racconto nella giornata successiva, quando lo scrittore torna a fargli visita per un tè con il giovane e sua madre. Del Giudice scrive nel Taccuino: «Jérôme le aveva raccontato la trama del mio romanzo (“Lo stadio”), e [...] le ricordava Henry James. Ho risposto che me lo avevano già fatto notare, che probabilmente lei pensava al “Carteggio Aspern” e che la cosa piú curiosa, almeno per me, era che quel libro io non lo avevo mai letto». Nel passaggio dal Taccuino al romanzo, questo lungo episodio trova solo un breve spazio nel primo appuntamento a due tra il giovane fisico Brahe e Gilda, segretaria di Epstein. Insieme, come sappiamo, visitano il castello e incontrano un ragazzo che li accompagna all’entrata e che ha le stesse caratteristiche di Jérôme. Se nel Taccuino la visita al castello di Voltaire ha come protagonista il giovane e sua madre, in Atlante occidentale il ragazzo rimane sullo sfondo, per lasciare spazio alle figure di Gilda e Brahe: alla nascita di una loro possibile relazione. Il ragazzo e la madre tornano insieme solo alla fine del romanzo, in un breve accenno, quando il vecchio Epstein «vede» in sequenza l’intera storia appena raccontata: «vede una donna che al buio, in un castello, dove ormai si orizzonta benissimo, si accorge che una finestra è stata aperta, e dice al figlio: “Ti avevo raccomandato di non farlo”».
Ogni scrittore, nel suo percorso, incontra ostacoli, paure generate dalla molteplicità delle strade da percorrere senza una bussola per orientarsi. Tra le mille linee segnate da una storia, quale scegliere? Si vorrebbero evitare le sabbie mobili che la lingua ti pone di fronte, ma come fare? «Non son balle, scrivere è difficile. Per tutti. Si è soli, dopo le chiacchiere, le discussioni, gli incontri, le letture. Si è soli e fa fatica», confesserà Del Giudice in un breve scritto posto in apertura della raccolta di saggi In questa luce (2013). Lo scoglio da affrontare, adesso, è riuscire a trovare le motivazioni solide per il secondo romanzo, facendo fronte alle difficoltà per la realizzazione del progetto. E il Taccuino, in questo, risulta una fondamentale cartina al tornasole grazie alla quale misurare nello stesso tempo le ragioni dello scrivere e le proprie ansie. «Tutte le incertezze dovute alla sosta forzata si sono trasformate ed estese ad incertezze sulla possibilità stessa di questa storia, con conseguenti sbandamenti d’umore, culminati in giri a vuoto nella stanza o nelle stradine e tra i capannoni e i padiglioni». La frustrazione e la delusione sull’inutilità di rimanere al CERN sono stati d’animo che continuano ad alternarsi a momenti di piena chiarezza in cui l’autore accetta il passo diverso del nuovo progetto rispetto allo Stadio di Wimbledon, la sua diversa andatura – e natura – perché altra è la voce che sta maturando. Ma poi, come nei peggiori incubi diurni, quei pen...