Non ha idea, Karolina, di come rimettere in piedi la sua vita. L’unica cosa che riesce a considerare con una certa lucidità è che ha perso tutto. Non capisce come sia potuto accadere, ne prende atto e basta. Ragionarci non servirebbe a niente.
Solo per un istante, quando ha appreso la notizia che le è arrivata come un calcio in faccia, ha ripensato a quella scritta che ha visto mentre veniva accompagnata fuori dal locale la notte di Capodanno a Moerbrugge. CONTRO LA MONDIALIZZAZIONE. LAVORO E GIUSTIZIA SOCIALE. PER LA NOSTRA GENTE.
Non avrebbe mai pensato che le parole scandite a un certo punto dal palco, potessero riguardare lei in persona.
– Chi ha lavoro? Chi ha soldi? Chi ha case popolari? Chi ha assistenza sociale? Chi è trattato con generosità nel nostro Paese, camerati-camerati?
Tutti i ragazzi, in coro, avevano risposto: – Quelli là. Gli ’mmigrati!
Forse, se chiedesse aiuto a quei ragazzi, qualcuno la starebbe a sentire.
Da un po’ di giorni, però, non ha nemmeno voglia di star dietro a pensieri del genere.
Quando ha scoperto la sua foto sul giornale, dopo il primo sgomento, in faccia le si è storto un sorriso amaro che non l’ha piú abbandonata, una specie di stato d’animo perenne. Anche durante le poche ore di sonno che riesce a conquistare ha l’impressione di avere in viso quella smorfia. «Possibile fiancheggiatrice» è stata definita da un giornalista zelante.
Che in quell’articolo si fosse andati oltre, Karolina l’ha capito dal modo in cui il Sovraintendente del dipartimento di Polizia di Bruxelles Ouest ha commentato i fatti che la riguardavano nel trafiletto di un quotidiano locale.
Era sicura che il suo ex marito avrebbe pensato bene di non farsi vivo. Su una telefonata di Fenna invece aveva contato, soprattutto il giorno in cui aveva appreso la notizia.
Non saprebbe trovare altro modo per rendere conto di quanto le è accaduto, subito dopo la pubblicazione di quella foto sul giornale, in cui aveva l’aria di una casalinga invecchiata male, ma con uno sguardo perfido. Chissà quando l’avevano scattata. Quel calcio in faccia – non riesce a pensare alla cosa in maniera diversa – le è arrivato poco dopo le vacanze di Natale. Una mattina si è presentata in agenzia all’alba e ci ha trovato il titolare.
A sua memoria, quella circostanza era successa solo un’altra volta in dieci anni. Un periodo in cui l’attività non doveva andare troppo bene. Si era dovuto procedere a «una ristrutturazione», «dolorosi tagli al personale», diceva una circolare abbandonata su una delle scrivanie che lei aveva sbirciato, rammaricandosi subito di quell’intemperanza. Avere le chiavi, poter entrare quando in agenzia non c’era nessuno, era una grande responsabilità, un atto di fiducia nei suoi confronti. Attenersi ai suoi compiti, stando al proprio posto, era il patto non scritto che lei aveva sempre rispettato. Per questo probabilmente era lí da dieci anni. E anche perché, certo, aveva sempre fatto come si deve il proprio lavoro.
Ci ha messo dell’impegno per spiegare il mestiere a quella donna che pensava fosse «il suo braccio destro»: che prodotto usare per le vetrate e come eliminare tutti gli aloni. Per questo, quella mattina, si è sentita tradita.
Le parole con cui il titolare l’aveva messa al corrente che sarebbe stato opportuno procedere a una «risoluzione consensuale» erano state nette. Un discorso scarno ma con allusioni precise alle circostanze, e cioè alla situazione sconveniente in cui lei adesso si trovava. Il titolare aveva avuto la delicatezza di non metterle sotto il naso il giornale. La copia era semplicemente poggiata sulla sua scrivania e lui ci teneva una mano sopra, come fosse un gesto casuale.
Alla fine Karolina aveva firmato, piú per timore che il titolare prendesse il discorso apertamente, in presenza di quell’altra donna delle pulizie, che per convinzione. Sarebbe stato un inutile aggravio di umiliazione.
– Spero… che non sia… a causa mia, – aveva mormorato la donna con quel suo modo corretto di parlare, nonostante il forte accento straniero, quando lei aveva preso la sua roba dal ripostiglio nell’ingresso. – Mi dispiace, – aveva aggiunto, con l’aria di chi era davvero mortificata.
Karolina si era messa il cappotto e aveva preso la borsa senza risponderle.
– Ho figli, – aveva aggiunto la donna. La cosa davvero assurda era che aveva un’aria impaurita.
– Tutti abbiamo figli.
Karolina non aveva detto altro alla «turca», chiudendosi la porta alle spalle.
Il computer non l’ha piú acceso, neppure per curiosità, anche solo per cercare in internet qualche notizia su di sé, leggere quel che pensa la gente. Per fare cosa, dopotutto. Quel niente in cui Karolina trascorre le sue giornate in attesa che accada l’irreparabile – il giorno in cui, ad esempio, si presenterà il padrone di casa perché lei non ha come pagare – le sembra quasi la migliore condizione possibile per tirare avanti, l’unico riparo. L’alternativa sarebbe ripercorrere, passo dopo passo, gli accadimenti nel tentativo di farsene una ragione e perdere l’unica certezza che le è rimasta: niente di quel che le è accaduto sembra avere una qualche ragione.
La sua dichiarazione ufficiale sul rogo del campo rom, il Segretario della Sezione locale del Partito l’aveva affidata a un tweet. Ci aveva preso gusto. Bastava digitare un numero ridotto di parole efficaci, senza stare troppo a spiegare, e giú migliaia di cuori. «Chissà cosa tenevano dentro le roulotte in quel campo nomadi», aveva scritto, e la frase era stata rilanciata e amplificata migliaia di volte in meno di mezz’ora.
Sembrava gliel’avesse dettata Rambo in persona. Questa circostanza aveva fatto crescere non poco la considerazione che i ragazzi avevano di quello che consideravano il piú lungimirante tra loro. Nessuno ormai osava contraddirlo, nemmeno per gioco. Adesso c’era una faccenda molto seria da risolvere, e in fretta.
La soffiata era di quelle che chiunque nel paese avrebbe definito una «bomba». Chi l’aveva fatta era uno di cui ci si poteva fidare. «Mister Natale» lo avevano soprannominato i ragazzi, per via di quel suo albero carico di decorazioni sempre piú psichedeliche, novità americane ordinate via internet da una ditta statunitense presso cui aveva lavorato da emigrato oltremare.
Sosteneva di aver visto Orso brancolare in mezzo alla neve con il fucile in spalla. All’alba. Forse proprio il giorno di Natale, anche se non ci poteva giurare. Quello di cui era sicuro al cento per mille è che il vecchio reggeva, in un braccio, il suo cane rognoso e, nell’altro, una specie di bambino morto. Diceva: «una specie di bambino» perché non era come «uno dei nostri… Un bambino che uno dice: “Oh, quello è un bambino”».
Quando si era deciso a raccontare quella storia al bar, un pomeriggio che sembrava incanalarsi nella noia ordinaria di sempre, nessuno dei vecchi voleva crederci. – Sí, Orso che fa la balia a un bambino… – aveva commentato il padrone del locale.
– Un-bambino-morto, non vivo. Hai sentito o no? – era intervenuto Rambo che in un attimo aveva collegato le cose. E cioè il fatto che il vecchio, proprio la vigilia di Natale, a Lele che era andato ad avvertirlo della «festa di Capodanno» l’aveva lasciato a crepare di freddo, fuori dalla porta. – Vedi se si è azzardato a farlo entrare! – aveva esclamato, confabulando con i suoi.
Dopo un po’, erano tutti a casa di Rambo, chiusi nella sua stanza tappezzata di poster: Stallone, Schwarzenegger, e il mitico Bruce Lee, ma anche Chuck Norris. Sulla parete sopra il letto, a mo’ di capezzale, la scritta LEALTÀ E AZIONE / WOLF OF THE RING, l’associazione con cui si allenava fino a qualche tempo fa. Non esser riuscito, nemmeno negli anni piú atletici della sua adolescenza, a trasformare la pancetta in un addome scolpito è sempre stato il suo unico cruccio. Le felpe comode comunque aiutano. Fuori dal comune è invece l’arsenale che ha collezionato nel giro di qualche anno.
«Ognuno ha il diritto di difendersi come vuole, quando vuole, dove vuole. Io sto con chi presidia il territorio. Lealtà e rispetto», il suo motto.
Prima di tutto, dunque, bisognava distribuire le armi giuste a ciascuno. A quello che un po’ ne capiva, aveva messo in mano una calibro 20 che certo non poteva spedire una quantità di piombo pari al 12, ma permetteva di mirare e piazzare meglio il colpo. La Colt calibro 22 semiautomatica l’aveva allungata a un altro. – Oh, a questa ci sono affezionato! – Poi era passato ai calibri 28, 32, 36… Per sé aveva riservato un revolver 357 magnum. A Lele, invece, aveva dato una pistola a salve, che comunque faceva casino. Il tirapugni l’aveva lanciato al piú grosso del gruppo che l’aveva preso al volo. Era andato avanti per una buona mezz’ora distribuendo le «sue creature» e spiegando cosa fare a chi era ancora alle «prime armi», aveva detto strappando a tutti una risata ragliante, nervosa.
– Caricatore inserito. Carrello. Adesso è pronta per sparare. E son cazzi amari –. Soprattutto Lele aveva guardato quei gesti precisi scanditi da parole altrettanto esatte con ammirazione. – Tu stai al coperto, sempre dietro di me! – gli aveva detto Rambo, e lui aveva annuito con un «sí» molto deciso. Si vedeva a un miglio di distanza che aveva paura.
Le macchine le hanno posteggiate in una strada fuorimano non lontano dalla casa del vecchio. Hanno aspettato che calasse il buio. Poi si sono avviati tenendosi a una certa distanza gli uni dagli altri, per non dare nell’occhio. Una decina di profili scuri dispersi in mezzo alla neve.
Il chiarore giallino che filtra dalle finestre oltre le tende tirate diffonde quel po’ di luce che basta.
– Procediamo!
Muovendosi spalle al muro, circondano la casa di Orso. Il piano è chiaro. Prima sbirceranno dentro e poi, con un calcio ben assestato, spaccheranno la porta «di pastafrolla», ha assicurato il falegname del gruppo, che di porte e serrature se ne intende.
A mettere sul chi vive Orso non è Lupo, ma il bambino, che a un tratto si mette a fissare qualcosa oltre la finestra, come ipnotizzato. – Nasconditi. Giú! – gli urla Orso, spegnendo tutte le luci.
La coperta che il vecchio lancia addosso al bambino, rimasto immobile nel buio improvviso dentro la casa, strappa a Lele un piccolo urlo. Ha appena visto un’ala nera, enorme, levarsi dentro la stanza.
– Cazzo fai!?
Lele non riesce a spiegare. Semipietrificato, procede attenendosi agli ordini di Rambo.
Potrebbero essere cinque, dieci o anche venti. Questo pensa Orso, quando scorge una quantità di profili bruni affiorare e scomparire nel buio. Anche il fuoco che arde dentro il termocamino ci mette del suo. Moltiplica a dismisura le ombre. Cosí, Orso per un attimo non sa bene come pararsi le spalle. Ruota gli occhi da una parte all’altra, mentre Lupo continua a sonnecchiare, anzi sembra proprio altrove. Non si muove nemmeno quando Orso prova a spostarlo con il piede. Queste cose succedono soltanto quando ci sono di mezzo gli zingari, gli ha detto una volta un tipo. – Sono bravissimi, quelli, a ipnotizzare i cani, e a non farsi sentire…
Ha già preparato il fucile e sta inserendo il caricatore dentro la Beretta quando, all’improvviso, percepisce dei brusii concitati che sembrano venire direttamente dalle pareti, poi uno scricchiolio di passi che si affolla dietro l’ingresso.
«O io, o loro», pensa, slanciandosi verso la porta con il fucile puntato e spalancandola un attimo prima che Rambo sferri il suo calcio.
È un...