I fiumi profondi
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I fiumi profondi

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

« I fiumi profondi trasmettono qualcosa di un altro emisfero psichico ed espressivo» Mario Luzi Figlio di un avvocato di provincia finito in carcere, Ernesto, il bambino protagonista dei Fiumi profondi, è stato allevato dalle vecchie «mamme» di una comunità india. Il contatto con la natura immacolata e l'essere cresciuto in un mondo primitivo hanno marcato indelebilmente il suo carattere. Quando finisce in un collegio di Abancay, vive nel ricordo dei suoi amici indios e dei grandi e austeri paesaggi che era abituato a «respirare». Poi ad Abancay esplodono contemporaneamente il tumulto delle prostitute, la peste e la rivolta degli indios. Ernesto sembra ritrovare se stesso: sente in questi sconvolgimenti il segno di un destino superiore e vi partecipa come trascinato da forze magiche. La fuga dal collegio sarà per lui un ritorno alle sorgenti stesse della vita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806205553
eBook ISBN
9788858404454

Capitolo undicesimo

I colonos

Per vari giorni, le guardie che inseguivano doña Felipa furono sviate nei paesi. Alcuni dicevano d’aver visto passare la chichera pochi istanti prima, a dorso di mulo e a passo lento. Negli stessi posti altri dichiaravano di non saper niente del suo arrivo né del suo nome. Un’indicazione falsa o utile obbligava le guardie a risalire grandi pendii, a scendere in fondo alle gole o a camminare per ore lungo le falde delle montagne. Molte volte le guardie ritornavano nei paesi, e punivano le autorità. Arrivarono cosí ad Andahuaylas. In città, metà della gente affermava che doña Felipa era passata diretta a Talavera, l’altra metà assicurava che non era ancora arrivata e che sapevano che si stava avvicinando.
Non riuscirono a trovarla. Per ordine del prefetto le guardie rimasero ad Andahuaylas e vi installarono un posto. Continuarono a ricevere notizie, quotidianamente, dell’avanzata di doña Felipa e della sua accompagnatrice, della sua fuga verso Huamanga. Altri affermavano che aveva messo su una chichería a San Miguel, alla frontiera con la selva, dove arrivavano stormi d’immensi pappagalli azzurri.
Ad Abancay non chiusero la chichería della caporiona, neppure dopo l’incidente con le guardie. Don Paredes tornò ad essere il padrone, con l’appoggio delle guardie, e cacciò la giovane chichera grassa. Le notificarono di lasciare Abancay, e di andare a Curahuasi di dove era oriunda. Se ne andò con l’arpista, il Papacha Oblitas, che era pure di Curahuasi.
La settimana successiva il reggimento se ne andò. Nella caserma rimase installata la Guardia Civile. I padri dissero che il reggimento aveva marciato su Abancay non solo per la sommossa, ma anche per compiere le manovre annuali; che la truppa era inattiva da molto tempo, e che la marcia fulminea all’Apurímac e al Pachachaca era stata un grande spostamento di forze che onorava il comando di Cuzco.
La città, secondo il parere degli esterni, restò vuota. Gli ufficiali non impressionavano piú i passanti per le strade, nelle cantine, nei saloni e nelle ville delle tenute. Io non riuscivo a capire come molte delle signorine piú in vista fossero rimaste tristi e perfino in lacrime per la partenza degli ufficiali, e come alcune si fossero promesse in spose. Seppi che due ragazze della città tentarono di suicidarsi. Erano andate lontano, sulle rive del Mariño, a passeggio con i militari, e dicevano che lí erano state «disonorate», anche se volontariamente.
Le uniformi davano agli ufficiali un aspetto irreale. Non ne avevo mai visti tanti insieme, dominare una città, stabilirsi in essa come uno stormo di uccelli ornamentali che camminassero padroni del suolo e dello spazio. I capi militari di provincia che avevo conosciuto nei paesi erano fanfaroni, quasi sempre trascurati e ubriaconi; questi del reggimento, cosí, insieme, destavano affanni sconosciuti. I fucili, le baionette, le piume rosse, la bella banda musicale, mi si confondevano nella memoria; l’immaginazione, il timore della morte mi attanagliavano.
Gli ufficiali piú giovani portavano frustini di cuoio lucido. Con gli stivali alti e fini, camminavano con passo gagliardo e autoritario. Le rare volte che entravano nel quartiere di Huanupata, suscitavano scompiglio, un rispetto e un’animazione immensi. Invece, i capi già «maturi» li guardavano senza una particolare considerazione: la maggior parte erano grassi e panciuti. Le cholas li vedevano passare con timore.
Del colonnello mi dissero che era andato solo una volta a Huanupata. Era di Trujillo, aveva un cognome storico, e la sua solennità, la sua rigidità, come i suoi gesti, sembravano finti. Ma in chiesa mostrò un aspetto severo che impressionò tutti. Lo vedemmo imponente, con la sua divisa ricamata e le spalline, sotto l’alto tetto del tempio, tra l’incenso, seduto, da solo, in una grande poltrona; lo contemplammo come qualcosa di piú che un gran possidente. Mi raccontarono che quando andò nel rione delle picanterías passò per le strade molto rapidamente. Lo scortavano vari ufficiali e signori. Concluse la visita deplorando l’odore ripugnante che emanava dalle chicherías e dalle capanne.
La gente allevava molti maiali in quel quartiere. Le mosche brulicavano felici, inseguendosi, ronzando sulla testa dei passanti. Le pozzanghere si imputridivano al calore, andavano prendendo colori diversi anche se sempre densi. Ma su alcuni muri piú alti, lí, fiancheggiando Huanupata, pendevano i rami di qualche limone reale; mostravano dall’alto i loro frutti maturi o verdi, e i bambini li bramavano. Quando qualche piccolo di Huanupata buttava giú a pietrate uno di quei limoni reali, lo prendeva in mano quasi con fervore e poi fuggiva alla massima velocità di cui fosse capace. Teneva di sicuro in qualche parte del vestito, magari in un nodo della camicia, un pezzo della chancaca piú povera che facevano nelle tenute della valle. Il limone di Abancay, grande, con la scorza spessa e commestibile internamente, facile da pelare, contiene un sugo che, mescolato con la chancaca nera, dà il cibo piú delicato e possente del mondo. Brucia e addolcisce. Infonde allegria. È come se si bevesse la luce del sole.
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Io non riuscii a capire come molte delle belle signorine che avevo visto nel parco, durante la ritirata, piangessero per i militari. Non lo capivo; mi faceva soffrire. Ho già detto che quasi tutti apparivano gagliardi, leggermente irreali, con i loro frustini appuntiti e lucidi. Ma sospettavo di loro. Vestiti con polacche aderenti, strane, e con quei cappelli alti, colorati; con quegli stivali specialissimi; li vedevo sprezzanti, come se contemplassero il prossimo da un altro mondo. Erano gentili, perfino esagerati nei loro gesti cavallereschi. Ma tutto ciò mi impressionava come non naturale, come il risultato di prove, magari di allenamenti nascosti e minuziosi, che facevano in cantine o in grotte segrete. Non erano come gli altri esseri umani che conoscevo, vicini o lontani a me. E negli ufficiali già maturi – nel poco tempo in cui li vidi ad Abancay – non osservai che tracce di quella cortesia esagerata e delle genuflessioni dei giovani. Si fermavano ovunque con grande gravità, come se non fossero di terra, ma come se la terra nascesse da loro, ovunque fossero. E guardavano con un’espressione diversa: piú rude, direi, con una specie di lussuria, forse esclusivamente loro. Quando seppi che se ne erano andati da Abancay e mi dissero che la città era rimasta deserta, non potei fare a meno di meditare su loro.
Ricordo che arrivai a credere, durante la notte, nel cortile interno, che fossero anche come ballerini o fantasmi. «Sono mascherati!» mi dissi. I mascherati vogliono sempre portarci in qualche posto. Il danzak di cesoie, secondo le bigotte e gli stessi indios, veniva dall’inferno; riusciva a sbalordirci con i suoi salti e il suo travestimento pieno di specchi. Sbattendo le sue cesoie d’acciaio camminava su una corda tesa tra il campanile e gli alberi delle piazze. Veniva come messaggero da un altro inferno, diverso da quello che ci descrivevano i padri accalorati e collerici. Ma gli ukukus1, vestiti con intere pelli di orsi peruviani, con le piccole orecchie diritte, con quel taglio delle maschere, che lasciava trapelare il luccichio degli occhi del ballerino, gli ukukus volevano portarci in «montagna», nella regione vicino alla gran selva, verso le falde temibili delle Ande dove cominciano i boschi e i feroci rampicanti. E questi travestiti? Il colonnello, gli huayruros dagli speroni e gambali, cosí diversi dagli umili gendarmi che avevano sostituito, e i grassi comandanti che s’impiumavano per scortare il colonnello nelle sfilate? Dove ci volevano portare? Quale densa vetta del mondo rappresentavano? Quando avrebbero incominciato la loro danza, durante la quale forse avremmo potuto riconoscerli, comunicare con loro?
Che cosa avevano detto, che cosa avevano fatto alle belle ragazze che erano andate con loro in riva al Mariño? Perché piangevano quelle bambine? Magari Salvinia aveva diretto loro qualche suo sorriso cristallino! Inorridii quando mi assalí l’ultimo sospetto. E l’orrore stesso mi portò piú lontano: magari Clorinda, il fragile fiore dei campi aridi che rinverdiscono solo d’inverno, aveva anche lei guardato qualcuno di quei mascherati; forse l’aveva persino preferito al suo fidanzato, lo scaltro contrabbandiere, e aveva acconsentito magari soltanto a mettere una mano sulle spalline.
Mi afferrai al ricordo del ponte del Pachachaca, all’immagine della scema, felice sull’alto della torre, con la mantellina di doña Felipa al fianco, per non buttarmi contro il muro accecato dalla sofferenza. E mi ricordai subito di Prudencio, e del soldato che avevo accompagnato per la strada, perché andava cantando tra le lacrime una canzone del mio paese. – Loro no! – dissi ad alta voce. – Sono come me, nient’altro. Loro no!
Palacitos, che mi aveva sentito, venne vicino a parlarmi.
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– Stai dando i numeri? – mi chiese.
– A che servono i militari? – gli dissi senza riflettere.
– A che? – mi rispose immediatamente, sorridendo. – Ad ammazzare, no? Stai dando i numeri!
– Anche lui? Anche il Prudencio ammazza?
– Ma spara di fronte! – mi disse. – Io lo so. Perché mi fai queste domande?
– Da scemo, – gli dissi, convinto. – È che io non ho mio padre vicino come te. Do i numeri! Semplicemente!
– Mio padre sta per venire! – esclamò. – Sta per venire! – E mi abbracciò con tutte le sue forze.
Mi fece immediatamente dimenticare i presentimenti di poco prima. Mai, prima, aveva atteso con entusiasmo le visite di suo padre. Al contrario, se gli annunciavano, per lettera, che suo padre stava arrivando, si stordiva, tentava di studiare, di ripassare i libri. Domandava ai compagni come suonavano certe definizioni; aveva paura; passava il tempo, di pomeriggio, sdraiato in cucina, su delle pelli che la cuoca stendeva per lui dietro la porta, nel posto piú buio. Usciva di lí per fare di nuovo delle domande, e prendeva appunti sul quaderno. Si umiliava di fronte ai padri, e specialmente di fronte al rettore. Il padre se ne rendeva conto, chiaramente, e a volte lo consolava.
– Su con la vita, Palacios! – gli diceva. – Su con la vita, ragazzo!
Gli alzava la faccia prendendolo per il mento. Lo obbligava a guardarlo. E Palacios riusciva a sorridere.
Adesso, per la prima volta, era impaziente dell’arrivo di suo padre.
– I «danni», fratellino! – mi disse. – Glieli darò! Gli racconterò di Lleras, del fratello! Di Prudencio!
Aveva esaminato i «danni» uno per uno. Erano tutti diversi fra loro, come occhi di animali sconosciuti. La visione di quelle piccole sfere di vetro, attraversate nel fondo da luci colorate, lo esaltò al punto di isolarlo di nuovo, ma in un’altra specie di isolamento. Ci aveva fatto vedere i «danni», a noi che eravamo i suoi amici: a Romero, al Chipro, a me. Rimase in dubbio un momento se decidersi a chiamare il Valle apposta perché li vedesse, ma poi pronunciò un sarcastico insulto in quechua, e chiuse la cassa. Passeggiò per due o tre giorni nell’internato, quasi sempre da solo, fischiando ogni tanto, avvicinandosi a noi.
– Mi vuol bene l’Añuco! No? – ci chiedeva di colpo.
E cominciò a studiare, a stare attento alle lezioni, a capire meglio. Una volta, in classe, alzò la mano per rispondere ad un problema posto dal maestro, e lo risolse subito. Il maestro non ebbe neppure il tempo di sorprendersi molto. Gli fece varie altre domande e Palacitos, già un po’ intimorito, balbettando, rispose bene.
Io vidi che neppure i suoi compagni ebbero il tempo, o l’occasione, per importunarlo con altre domande o con la loro sorpresa e curiosità per la sua improvvisa ripresa. Nella ricreazione ci cercava, me, Romero, l’Iño. Romero, il campione, alto e famoso, gli fu fedele. Giocava con lui, chiacchierava. E la sua ombra lo proteggeva, lo lasciava sviluppare tranquillamente.
Adesso aspettava l’arrivo di suo padre, prevedendo un trionfo, l’impresa piú grande.
– Ti crederà tuo padre? Gli piaceranno i «danni»? – gli chiesi.
– Ci crederà, fratellino! Il cuore lo soffocherò! Mi ricordo tutto. Gli parlerò dei libri, di aritmetica, di geometria. Di geometria, fratello! È capace di spaventarsi! Non mi riconoscerà! Jajayllas, jajayllas...!
Corremmo insieme nel cortile d’onore. Fortunatamente mi incontrai con lui quella sera, in trionfo.
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Ma Antero si allontanò da me. Il suo nuovo amico Gerardo si tramutò in un eroe arrivato di recente. Superò tutti, perfino Romero, nel salto triplo e in quello con l’asta. Fece a pezzi i suoi avversari nella boxe. Giocava da centrattacco, come un’anguilla e una saetta. Solo nella corsa e nel salto in lungo non la spuntò su Romero. – Romero, sei grande! – gli disse davanti a tutti, nel cortile interno. Romero guidava la difesa della squadra di calcio, al posto di Lleras, e Gerardo guidava l’attacco. Il rettore stava già progettando un viaggio a Cuzco, per sfidare la squadra del collegio nazionale.
– A Cuzco! – gridava il padre, dopo gli allenamenti, a Condebamba. E camminava tra Romero e Gerardo, sottobraccio. Appariva giovane, coi suoi capelli bianchi, sollevati, sorridente, mentre attraversava il campo a passo di marcia.
Li applaudivamo.
– Con Gerardo imparo, – mi disse Antero, nel cortile del collegio, durante una ricreazione del pomeriggio. – Le donne! Lui sí che le conosce.
– Le donne?
Io non avevo mai sentito chiamarle cosí, prima. Lui diceva, come me, le ragazze, le fanciulle, e negli ultimi tempi esisteva solo un nome: Salvinia, e al secondo posto un altro: Alcira.
– Ma sí, le donne, – mi rispose. – Lui se ne intende; è pratico. Ha già due innamorate. Abbiamo lasciato Salvinia a nessuno.
– Come a nessuno?
– Io ne ho una, e un’altra in fase di «progetto». Ma Salvinia la stiamo accerchiando. Per gli altri è pascolo proibito, da me e da Gerardo. Nessuno ci prova! Gerardo ne ha già messo sotto una, nel Mariño. L’ha fatta piangere, quel bandito. Se l’è fatta su. Io...!
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– Cosa! – gridai.
– Niente, fratello, – mi disse. – Stiamo castigando Salvinia. Hai visto che ha riso con Paolo, il fratello di Gerardo. Non è vero? Tu l’hai visto. Adesso ci guarda tutti e due spaventata. Tutti e due nello stesso modo. Non è tradimento?
– Voi due vi pavoneggiate. Siete già quasi come il Lleras o il Parrucca, – gli dissi.
Mi guardò tra inorridito e curioso.
– Non abusate, non siete malvagi. Ma siete peggio del Lleras, sporcaccioni, in agguato alle bambine, come cani. Perché spaventate Salvinia?
– Di’ se ha riso! Negalo che ha fatto la civetta! – mi disse.
– Io non so, Markask’a. Tu sei piú grande di me. Lo saprai tu. Ma oggi pomeriggio ti restituirò lo zumbayllu. L’ho già studiato. Sono capace di farne altri uguali.
– Di cosa state parlando? – chiese Gerardo.
Saltò dal portico al cortile.
Aveva un occhio dall’iride diffusa,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prefazione di Marco Aime
  5. Il vecchio
  6. I viaggi
  7. Il congedo
  8. La tenuta
  9. Ponte sul mondo
  10. Zumbayllu
  11. La sommossa
  12. Vallata profonda
  13. Muro di pietra
  14. Yawar mayu
  15. I colonos